"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 2 agosto 2020

Leggereperché. 25 Woody Allen: «siamo passeggeri di treni diversi ma tutti con la stessa destinazione finale».

Tratto da “La mia vita di amori e guerre”, intervista con Woody Allen di Riccardo Staglianò pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 2 di agosto dell’anno 2019: (…). "È una delle cose tristi della vita. Le relazioni tra uomini e donne hanno un'accordatura molto fine e delicata. Se nel suo organismo manca anche un piccolo elemento, tipo lo zinco o il ferro, può avere anche tutti gli altri ma quella singola mancanza alla fine la può uccidere. Lo stesso avviene nelle relazioni. Devi avere tutto, altrimenti falliscono. O continuano tra troppi conflitti". 
Restando nella metafora, magari può aiutare qualche integratore? "Certo, c'è chi prova con la terapia di coppia, chi con lo yoga, a volte funziona ma non troppo spesso. Le cose che ti fanno star bene, avere una barca o guardare il baseball o fare una passeggiata in montagna, sono quelle che aspetti con trepidazione. Se invece stare insieme diventa un lavoro - molta gente dice della propria relazione "bisogna lavorarci" -, un'incombenza, allora non è più divertente. Le relazioni dipendono moltissimo dalla fortuna.
(…). Io mi sono sposato per la prima volta a vent'anni. Era una ragazza molto carina ed è stata una svolta importante perché il matrimonio ci ha costretto a uscire dalla casa dei genitori, trasferirci a Manhattan e cominciare a lavorare e guadagnare. Siamo stati sposati per qualche anno e poi ci siamo allontanati, naturalmente. Ma siamo ancora amici adesso che lei ha ottant'anni".
Cosa ha imparato da allora? "Mah, che è essenzialmente fortuna. Poi, ovvio, devi imparare come si litiga e fare un passo indietro affinché le abitudini seccanti dell'altra persona non ti feriscano troppo. Imparare la tolleranza. Ma il grosso lo fa la fortuna dell'incontro".
(…). Ho letto che lei era talmente insoddisfatto di Manhattan, il capolavoro di cui ora si festeggia il quarantennale, che non voleva che United Artists lo distribuisse. Com'è possibile? "Non c'è alcuna correlazione tra gusti del pubblico e dell'autore. Quando finisco un film il più delle volte lo trovo deludente rispetto a come l'avevo scritto. Vedo un sacco di errori. Nel caso di Manhattan mi sembrava eccessivamente predicatorio, didascalico, avevo spiegato e detto troppo. Il messaggio del film non si deve mai trovare in bocca a un personaggio. Altre volte invece faccio un film, come Hollywood Ending, che a me piaceva molto e non è piaciuto quasi a nessuno. Raramente, come in Match Point, trovo invece che è venuto esattamente come doveva venire. La verità è che quando scrivi è tutto perfetto ma poi, come dice il mio amico Marshall Brickman, "ogni giorno sul set arriva un camion pieno di nuovi compromessi". Vorresti 200 comparse ma hai i soldi solo per 50 e così via".
Gatsby (protagonista del film “Un giorno di pioggia a New York” nelle sale dal 10 di ottobre dell’anno 2019 n.d.r.), seppur molto giovane, va dallo psicoanalista. Pensa ancora che salvi la vita? "Io ci sono sempre andato. Per me funziona, certo meno di quanto uno desidererebbe, ma aiuta. Credo che se ognuno si fermasse per un'ora al giorno per parlare dei suoi sentimenti più profondi senza inibizioni a un professionista che ascolta, anche senza dire niente, col tempo comincerebbe a capire delle cose sul suo conto. C'è gente che non si ferma mai a pensare a sé stessa".
A un certo punto fa dire a un personaggio che tutti i giornali sono tabloid, affamati di gossip: lo crede anche lei? "No, sono un grande fan dei giornali. Ho fatto un film che si intitola Scoop e volevo fare prima il giornalista sportivo, poi mi ha affascinato la cronaca nera. Ho sempre avuto un'idea epica del giornalismo, col cronista che scopre qualcosa che alla fine salva il tipo dalla sedia elettrica. Penso che sia uno dei pochi mestieri al tempo stesso drammatici ed eccitanti".
La battuta più amara del film è "Il tempo vola. E vola in economy". Come si attrezza per la traversata? "Purtroppo è la verità. Passa alla svelta per tutti, poveri o ricchi, ed è un viaggio assai scomodo. Ciò però non ha cambiato la mia routine. Sul lavoro sono stato molto fortunato ma esistenzialmente sono nella stessa barca di tutti, gli sfortunati e quelli con molto più successo di me. Come ho mostrato una volta in un film (Stardust Memories) siamo passeggeri di treni diversi ma tutti con la stessa destinazione finale".
Ha qualche trucco per non pensarci? "Certo, dal momento che non c'è niente che puoi fare, almeno bisogna provare a non pensarci. Distrarsi. Qualcuno lo fa guardando il calcio, o aiutando gli altri, o drogandosi ma alla fine proviamo tutti a nasconderci da una realtà molto spiacevole, per evitare che ci paralizzi".
Ai tempi di Manhattan stilò una lista di "ragioni per cui valeva la pena vivere". L'ha aggiornata da allora? "All'epoca una spettatrice mi mandò una lettera per rimproverarmi di non aver incluso i figli. Ma io non ne avevo ancora. Adesso non farei mai l'errore di non citare le mie due figlie Manzie e Bechet".
Di quella lista non esiste più il ristorante Elaine's. Perché era così speciale? "Ci ho cenato tutte le sere per dieci anni, allo stesso tavolo. Fuori poteva esserci una tormenta di neve, magari era mezzanotte ma dentro incontravi il sindaco di New York, i campioni del basketball, Antonioni, Fellini o Simone de Beauvoir. Era incredibile! Un posto unico, al contempo tranquillo e rilassato. Non ci sarà mai più niente del genere".
Le abitudini sono il suo forte. A partire dal font Windsor EF Elongated dei titoli dei film... "Certo! Quando ho cominciato tutti spendevano un sacco di soldi per i titoli mentre io volevo spenderne solo per il film. Quindi ho trovato quel carattere, che bastava per tutto ciò che volevo dire. Coi soldi che risparmiavo ci potevo prendere dieci comparse o due giorni di riprese in più".
Registi preferiti? Persone che la fanno ridere? "Scorsese, sempre amato, o Francis Ford Coppola, ma anche Paul T. Anderson. Sono i primi che mi vengono in mente. Quanto al ridere, buona domanda. Lo scrittore S.J. Perelman mi fa ridere sonoramente: non devo impegnarmi, l'onere del divertimento è tutto su di lui. Rido anche con vecchi film, con W.C. Fields o Groucho Marx. Poi guardo il comico Mort Sahl, è un genio che potrei stare a guardare tutto il giorno, ma non mi fa ridere a bocca aperta come gli altri citati. Non conosco i comici contemporanei perché non vado più nei locali. In tv, quando torno da cena alle 10 o alle 11, vedo giusto un po' di baseball o i tg. E non guardo le serie. So che sono buone, perché gente che rispetto mi dice "questa è magnifica", ma il mio stile di vita non mi mette in contatto con loro".
In che modo il pubblico europeo è diverso da quello americano? "Il vostro è più sofisticato. Quando noi guardavamo stupidaggini con Doris Day voi avevate già a che fare con Fellini. Eravate più adulti. Noi abbiamo sempre un piede nell'escapismo mentre voi fate film più duri, conflittuali. Però, nonostante le dicerie, i miei film che vanno bene in America tendono ad andar bene anche in Europa".
Qualche tempo fa Philip Roth, con mossa piuttosto rara, annunciò che avrebbe smesso di scrivere perché sentiva di aver dato il meglio. Mai sfiorato da tentazioni simili? "No, Roth era una persona molto più profonda, intelligente e colta di me. Io farò film sin quando qualcuno mi pagherà per farli".
E quando non lavora cosa fa? "Niente, perché lavoro sempre. Ma diciamo che mi sveglio presto, faccio un po' di tapis roulant, mi metto a scrivere a macchina (non ho un computer), pranzo con mia moglie, lavoro un altro po', mi alleno al clarinetto e andiamo a cena fuori. È una vita tranquilla dove non succede niente ma che a me va benissimo. Monotona e bella. Scrivo sette giorni alla settimana. Sul letto. Mi diverte come altri si divertono a pescare. L'anno prossimo uscirà una mia autobiografia (il #MeToo aveva osteggiato anche quella). È tanto che non scrivo per il New Yorker perché ormai non c'è più spazio: metà della pagina è presa dalle illustrazioni! E non ci sono altri posti dove pubblicare scrittura comica. Oggi c'è molta più politica".
A proposito, com'è per lei vivere nell'America trumpiana? "Che posso dire? Significa Trump 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana. Io l'ho diretto in Celebrity, ma sono stremato dal vederlo dappertutto. Mai vista una copertura analoga. È come uno tsunami di pubblicità. Vorrei anche altre notizie, i risultati di baseball, le critiche teatrali. Sul suo conto non c'è niente da dire che non sia già stato detto migliaia di volte".
So che non vuole parlarne, ma non coglie una discreta ironia nel fatto che l'aver fatto alle donne le cose che Trump ha detto di aver fatto non gli abbiamo impedito di diventare presidente mentre lei è vittima da anni di una campagna di riprovazione intensissima? "Colgo un milione di ironie! Che posso dire? Ha a che fare con i meccanismi di ciò che diventa notizia, che fa comprare i giornali o accendere la tv. E se sei un personaggio pubblico devi abituarti. E comunque sono cose che vanno e vengono. Ho sempre pensato che l'unica risposta sia alzarsi presto e sgobbare senza sosta. Me lo ricordo da quando ho iniziato: non leggere le recensioni, non credere quando scrivono che sei un genio o un idiota. Non pensare ai soldi ma solo a lavorare bene. Così avrai abbastanza per campare, con un pubblico, magari piccolo, e tutto il resto andrà a posto da solo. È il modo in cui ho vissuto la mia vita. Sveglia presto, dopo quello stupidissimo tapis roulant - lo odio! -, e mettersi sotto a scrivere. Non vado alle prime dei miei film, non vado alle feste, vivo una vita tranquilla di solo lavoro".
Ma crede che, alla fine, la caccia alle streghe finirà? "Tutte le cacce alle streghe finiscono prima o poi. Per definizione non sono una buona cosa. Tendono a esaurirsi col tempo, si smorzano fino a spegnersi".

Nessun commento:

Posta un commento