"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 5 luglio 2020

Ifattinprima. 71 «Come e quanto è stata inquinata la vita politica e imprenditoriale italiana, in questi anni sventurati».


Scrive Ezio Mauro in “Il pozzo dei segreti di Berlusconi” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri 4 di luglio: Come un vulcano che dorme, senza essere spento, Silvio Berlusconi non è più in grado di minacciare sconquassi, ma nel cratere del suo ventennio continuano a ribollire il fuoco e soprattutto il fumo dell'eterna contesa con la giustizia, dov'è bruciato anche il suo romanzo politico e si è consumata la sua leadership.
D'altra parte non poteva essere diversamente per un'avventura politica e imprenditoriale segnata dal successo e dal consenso ma giocata sul confine estremo della legalità e oltre, dal lodo Mondadori "acquistato" alla compravendita di parlamentari per cambiare gli equilibri di governo: usando comunque il potere del denaro per condizionare il libero gioco della politica e dell'impresa, e creando intanto una leggenda eroica abusiva, perché obliqua. Come oggi, che è domenica 5 di luglio, ne scriveva, a proposito dell’uomo venuto da Arcore, il compianto Franco Cordero in un lunedì di 10 anni addietro, in un Suo “pezzo” pregevole come sempre nella Sua originale, preziosa fattura linguistica che portava come titolo “Le sofferenze di Re Lanterna”: (…). …il governo dorme al punto basso d´una terribile crisi economica; ministri o sottosegretari corrono pericoli penali; uno s´è dovuto dimettere; due o tre stanno sulla corda; in corte d´appello incassa sette anni il vecchio sodale, definito contiguo a poteri mafiosi, e qualora la decisione diventasse res iudicata, sarebbe arduo scindere l´impero d´Arcore da quei precedenti; nel partito l’obbedienza non è più assoluta. Sua Maestà soffre i tempi. Da via Solferino lancia allarmi la bibbia dei moderati, insolitamente disinvolta, senza toccare il monarca, beninteso. L’editoriale del 28 giugno invoca un colpo d’ala. Chi abbia memoria buona rammenta lo scandaloso fondo in cui 65 anni fa l’allora direttore della Stampa, Concetto Pettinato, fustiga l’inerte governo repubblichino: - Se ci sei, batti un colpo -; frase futile nello scenario mondiale, quando mancano poche settimane all’epilogo e relativi rendiconti; da quella compagnia moribonda l’accusatore tardivo non poteva pretendere niente, sapendone l’ignobile storia. Le cri du coeur non risuona invano. L’indomani un foglio della Casa risponde in gergo ambrosiano: - Silvio s’è rotto dei pirla - (Libero, 29 giugno); l’elegante frase appende alla gogna i dignitari pericolanti, colpevoli perché maldestri, in specie l’ultimo, appena nominato, con titoli dubbi, così incauto da opporre al tribunale lo scudo sotto cui Dominus Berlusco aspetta un terzo lodo d’immunità. Vi sarebbe molto da obiettare: gliel’aveva fornito lui, avendo buoni motivi, talmente buoni da indurlo al passo prevedibilmente rischioso, ma l’arte dei discorsi corretti vale poco nei regimi padronali, quindi chiudiamo gli occhi sull’incongruo; la colpa non è mai del padrone; nella stessa logica sghemba italiani devoti al Duce vituperavano i gerarchi invocando purghe esemplari. Che bell’animale espiatorio era Achille Starace. - Batta un colpo, dia una sterzata -, allontani - qualche uomo che gli sta attorno -. I fascisti li chiamavano cambi della guardia. L’indomani, festa dei santi Pietro e Paolo, l’ex-socialista craxiano con stemma piduistico, capogruppo a Montecitorio, nell’intervista al Corriere indica la via d’uscita dalla congiuntura: riaffermare la leadership berlusconiana; con poteri rinforzati, inutile dirlo, che liberino miracolosi dinamismi. L’Uomo forte era sull’altra sponda atlantica. Da lì batte un colpo rovesciando il tavolo: gli ottimisti consideravano rinviabile all’autunno il ddl che inibisce le intercettazioni, a tutela d´una varia fioritura criminale; nossignori, sia votato dalle Camere in piena estate; gl’Italiani capiranno chi comanda. Torniamo al colpo d’ala; lo invoca un cantore della moderna democrazia liberale ed enumera gl’inadempimenti: primo, la riforma della giustizia; come riformarla? Separando le carriere. Scaviamo sotto le parole. Poco o niente da obiettare se i riformatori postulassero due magistrature organicamente distinte, fermo restando l’identico stato giuridico; ma vogliono un pubblico ministero sui generis, avvocato dell’accusa. Ancora parole vaghe. L’autentico disegno trapela su due punti capitali, inscindibili: azione penale esercitabile o no, secondo lune politiche, mentre l´art. 112 Cost. la esige obbligatoria; e l’ufficio requirente convertito in lunga mano governativa negli affari de iustitia, in una catena gerarchica dall’ultimo sostituto all’onorevole Angelino Alfano. Che in Francia sia così, è argomento spudorato. Siamo in Italia, dove potere tirannico, cortigianeria, impulsi servili hanno radici profonde. In paesi meno guasti eventuali abusi sono rimediabili nel dibattito parlamentare. Qui vengono i brividi se pensiamo cos´avverrebbe appena la scelta del perseguire o no l´ipotetico reo dipenda da ministri ubbidienti: nessuno disturba i ruminanti della greppia governativa e meno che mai sfiora Sua Maestà d´Arcore; diventano superflui gli scudi; in compenso, avvocati d´accusa tengono d´occhio i politicamente malvisti; e poco male se il paese sprofonda, fino a quando nelle ore canoniche i Tg, lanterna magica, raccontino favole gaudiose al pubblico stupefatto, i cui voti scendono docili nell´urna.(…). A conferma dell’adagio antico e saggio che “il lupo perde il pelo ma non il vizio”, per la qual cosa ci si ritrova nell’immutabile situazione dipinta a tinte fosche dall’indimenticato Franco Cordero, inascoltato “profeta” (termine che non avrebbe mai accettato. Non me ne voglia dall’alto dei cieli). Scrive dieci anni dopo Ezio Mauro: Questi anni del declino, con il padrone della destra italiana ridotto dai numeri a junior partner di Matteo Salvini e persino di Giorgia Meloni, sono stati ricoperti dalla cipria di un tardivo moderatismo che consentiva al Cavaliere di mimare una partita politica responsabile, europea e autonoma dalla Lega, ma in realtà senza mai rompere con il sovranismo nazionalista della destra estrema e incassando la rendita amministrativa che derivava dall'alleanza. D'altronde la reincarnazione in moderno Cavour è complicata per un leader che è stato il vero padre del populismo italiano. Che ha resuscitato gli istinti di destra latenti nel Paese democristiano, liberandoli e radicalizzandoli, e infine ha incendiato il sistema istituzionale con le leggi ad personam e la deformazione del diritto cercando di sfuggire alla sventura che lo inseguiva, creata con le sue stesse mani. Un presidente del Consiglio che non è mai diventato uomo di Stato, perché incapace di accontentarsi del potere legittimo che si era conquistato, e costantemente alla ricerca di una quota illegittima di potestà supplementare, ma irregolare. E infatti l'istinto e il metodo oggi lo riportano al passato. Le caratteristiche sono quelle di sempre. Ogni volta che veniva chiamato a rendere conto alla legge di qualche ipotesi di reato, Berlusconi reagiva trasformando le accuse in complotto e i magistrati in agenti segreti dei suoi avversari politici, mentre si fabbricava in proprio un modello domestico di giustizia alternativa ad uso e consumo delle sue urgenze contingenti, umiliando il parlamento come struttura servente. Col risultato dell'esecutivo che scatenava il legislativo contro il giudiziario, in un cortocircuito permanente tra i poteri dello Stato, con un'unica vera autorità riconosciuta e sovraordinata - l'unto dal carisma del voto popolare - e le altre in funzione di puro complemento ornamentale, devitalizzate e soprattutto delegittimate. Oggi c'è qualche variante significativa, perché il Cavaliere non è più Capo del governo e la sua forza politica si è ridotta. Ma ciò che resta viene scagliato comunque contro lo Stato di diritto, denunciando la sentenza di Cassazione che il primo agosto 2013 ha reso definitiva la condanna di Berlusconi a 4 anni per frode fiscale nell'acquisto di diritti televisivi dall'America, come un'"esecuzione" mirata, con il plotone giudiziario precostituito ad hoc, perché il leader di Forza Italia "doveva essere condannato a priori". Questa volta il cortocircuito è addirittura fisico, personale, perché a lanciare le accuse è il giudice relatore di quella sentenza, Amedeo Franco, che l'ha approvata con tutti i suoi colleghi - all'unanimità - in Camera di Consiglio, ha contribuito a scriverla e l'ha firmata in tutte le sue pagine. Salvo poi, inspiegabilmente e irritualmente, andare quattro volte a casa di Berlusconi, quasi a chiedergli scusa della sentenza, apparentemente senza sospettare di essere registrato. Cosa che il Cavaliere si affretta a fare, preoccupandosi di controllare appena Franco esce se il telefono è in funzione. Però, altrettanto incredibilmente, aspetta che il magistrato muoia, il 9 maggio 2019, prima di rendere pubblica la conversazione che nelle intenzioni dovrebbe restituirgli l'onore perduto con la condanna per frode, da cui è derivata per legge la sua decadenza da senatore. Molti aspetti in questa storia non tornano. Perché un giudice prima condanna e poi va a confessarsi a casa del suo imputato? Se era a conoscenza di irregolarità che sono evidenti reati, perché non le ha denunciate alla magistratura o al Csm? E prima ancora, perché non ha espresso il suo dissenso in Camera di Consiglio? Chi o che cosa gli ha impedito di agire secondo coscienza e secondo la legge? Che cosa lo ha mosso, spingendolo a mettersi nelle mani di un pregiudicato, che è tale anche per sua decisione? Davvero il tormento di una notte dell'Innominato può spiegare queste contraddizioni? C'è stata anche una notte di don Rodrigo? Perché qualche traccia dei "bravi" esiste. Quel Cosimo Maria Ferri, ad esempio, nel 2013 sottosegretario alla Giustizia nel governo Letta delle grandi intese, in quota berlusconiana, che oggi racconta di aver ricevuto da Franco la richiesta di incontrare il Cavaliere, e che fu parte silente (ma sicuramente diligente) negli incontri: come mai non sentì il dovere di denunciare quanto veniva a sapere, lui che era stato membro del Csm, preferendo consegnare il tutto all'uso privato di Berlusconi? E come mai non avvertì l'obbligo di informare il suo ministro e il presidente del Consiglio, come se rispondesse non al governo della repubblica, ma a un mondo a parte? Perché Ferri ha sempre taciuto, come se si trattasse di una questione privata, dopo essere stato confermato viceministro con Renzi e Gentiloni, ed essere stato portato addirittura nel Pd da Renzi - si immagina per meriti conquistati sul campo - e poi naturalmente in Italia Viva? Franco purtroppo non può più spiegare nulla, e al quadro manca la cornice. Ma Berlusconi dovrebbe chiarire perché ha tenuto nascoste per sette anni quelle intercettazioni, come se non potesse esibirle finché Franco era vivo e perché proprio adesso le ha allegate al suo ricorso alla Corte di Strasburgo. E nel frattempo, magari, potrebbe spiegare perché ha organizzato la truffa dei diritti tv denunciati nei contratti con un prezzo e in realtà pagati molto meno, in modo da creare una provvista illegale di 360 milioni di dollari "fantasma", come hanno accertato tutte le sentenze, senza confessioni postume né ripensamenti. Potrebbe infine rivelare come ha speso quei soldi, per farci capire come e quanto è stata inquinata la vita politica e imprenditoriale italiana, in questi anni sventurati.

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