"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 16 luglio 2020

Leggereperché. 20 «Dio è un nome che soddisfa il nostro bisogno di reperire una causa per ogni evento».


Ha scritto – alle pagine 41/42 - Woody Allen nella Sua autobiografia “A proposito di niente” – “La nave di Teseo” editrice (2020) -: “(…). Per cominciare, ho sempre pensato che la religione fosse un grande imbroglio.
Non ho mai creduto nell’esistenza di un dio, né che questi avesse una predilezione per gli ebrei, se mai fosse esistito. Mi piaceva la carne di maiale. Odiavo la barba. L’ebraico era troppo gutturale per i miei gusti. E poi si scriveva da destra verso sinistra. Perché mai? (…). E perché dovevo digiunare per i miei peccati? Quali erano i miei peccati? (…). Avere rifilato un nichelino falso a mio nonno? Fattene una ragione, o Signore: c’è molto di peggio. Ci sono i nazisti che ci mettono nei forni. Pensa a quelli, piuttosto. Ma, come ho detto, non credevo in Dio. E perché in sinagoga le donne dovevano stare al piano di sopra? Erano più carine e intelligenti degli zeloti barbuti che giù da basso si avvolgevano scialli di preghiera, ciondolavano con la testa come pupazzi adorando un potere immaginario che, se esisteva, ripagava tutti i salamelecchi con il diabete e il reflusso gastrico. (…)”. La graffiante prosa di Woody sollecita a ripensare alla pomposità vissuta e partecipata di taluni rituali in uso presso altre confessioni religiose, con una ingiustificata pomposità dei paramenti, una gestualità (penso ai ripetuti inchini e “salamelecchi”, come nella prosa del grande regista) da manuale  robusto della “prossemica”, nel mentre si procede molto semplicemente (sic!) alla ripetitività di una “teofagia” che in altre epoche e presso altri consorzi umani aveva il supporto ed il sentire proprio di uno stato primitivo conclamato. Oggigiorno tutto ciò appare come fuori dal tempo, come se si volesse fermare il tempo a quelle pratiche anche se quel tempo trascorso ha pur segnato la liberazione da rituali sempre più incomprensibili. Traggo da “Serve una mente libera per parlare di Dio” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 16 di luglio dell’anno 2016: Se uno dà dell'ingenuo all'altro e poi dice che forse è egli stesso a esserlo, non attutisce l'offesa, ma la ribadisce, perché nessuno, anche se lo dice, crede veramente di essere un ingenuo. Fatta questa precisazione per svelare l'ipocrisia del linguaggio, entriamo in discussione (…). Siccome Dio nessuno l'ha mai visto, tutto quello che uno pensa di Dio è legittimo, che si creda o no. Anche perché le prove dell'esistenza di Dio, che troviamo numerose nei percorsi della filosofia, non lo cercano, ma piuttosto soddisfano l'esigenza della logica che governa il pensiero occidentale. Il quale si acquieta quando, di fronte all'esistenza dell'universo, trova la causa che, un po' per comodità e anche un po' sbrigativamente, chiama Dio. Dio è un nome che soddisfa il nostro bisogno di reperire una causa per ogni evento, ma, come opportunamente osserva Pascal a proposito della dimostrazione cartesiana della sua esistenza, il Dio a cui si perviene seguendo i percorsi della ragione «non è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (Pensiero, 602). Quest'altro Dio segnalato da Pascal, a cui la ragione non perviene, è stato ideato dal bisogno umano di protezione, per riuscire a reggere le difficoltà dell'esistenza e a sopperire la precarietà che sempre accompagna la nostra vita. Ne consegue che Dio esiste o perché il pensiero umano lo pretende per soddisfare il bisogno di una spiegazione che ci sottragga al terrore dell'ignoto, o perché la precarietà dell'esistenza ha bisogno di una protezione. Ragion per cui, come dar torto a Scalfari là dove scrive che è il pensiero umano a creare Dio, il quale esiste solo finché questo pensiero lo tiene in vita? Per quanto concerne la fede nella vita ultraterrena, questa dipende dal rifiuto che i cristiani hanno di prendere sul serio la morte, a differenza dei Greci che chiamavano l'uomo "il mortale", iscritto in quella dimensione tragica caratterizzata dal fatto che per vivere ha bisogno di costruire un senso, in vista della morte che è l'implosione di ogni senso. Il cristianesimo ha sottratto l'uomo alla tragicità della sua condizione, promettendo una vita ultraterrena in grado di riscattare le sofferenze patite in questa "valle di lacrime". Questo, come dice Nietzsche, è stato «il colpo di genio» con cui il cristianesimo ha avuto partita vinta sulla grecità che, come cultura del limite, mai avrebbe accettato una simile ipotesi. Come accade quando Paolo di Tarso va all'Areopago ad annunciarlo agli ateniesi: «Quando intesero parlare di resurrezione dei morti, alcuni risero, altri dissero: questa storia ce la vieni a raccontare un'altra volta» (Atti degli Apostoli, 17, 32). Quanto poi all'eternità, i Greci l'attribuivano alla Natura che, come dice Eraclito, «nessun uomo e nessun dio fece. Sempre è stata, è, e sarà». I cristiani l'attribuiscono a Dio, che crea la natura e assegna all'uomo un tempo che non è più quello ciclico iscritto nell'ordine naturale, ma quello escatologico dove alla fine si realizza ciò che all'inizio era stato promesso. A questo punto il tempo, in quanto iscritto in un disegno, acquista un senso e diventa "storia": la storia della salvezza, che ha il suo corrispettivo laico nella storia come progresso. Idea condivisa sia dalla scienza che dalla sociologia, versioni laiche dell'ottimismo cristiano, che oggi, dopo la morte di Dio, vacilla un po'. Notazione a margine: l'etimologia di   "ingenuo" è "nato libero".

2 commenti:

  1. "Esistono due diversi tipi di persone nel mondo, coloro che vogliono sapere, e coloro che vogliono credere". F. Nietzsche

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  2. "La fede è la conoscenza del cuore, oltrepassa il potere della dimostrazione".K.Gibran

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