"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 21 maggio 2020

Virusememorie. 20 «Le porzioni di umanità “allegre e vincenti” hanno dovuto fare i conti con la fragilità».

Ha scritto Enzo Bianchi in “Riscoprire il senso del limite” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 18 di maggio 2020: (…). È successo qualcosa d’imprevedibile, di realmente impensabile. Vivevamo in un mondo malato ma non ci sfiorava l’idea di poterci ammalare così presto e in questo modo. Ed ecco l’inattesa venuta di un messaggero devastatore, il coronavirus. Qualche virologo faceva remote ipotesi sulla possibilità di una tale irruzione. Solo alcuni, sentinelle capaci di discernere i passi dell’umanità, denunciavano quasi profeticamente, anche se in modo confuso, che “correvamo troppo, dovevamo fermarci”. Senza un cambiamento concreto – dicevano – avremmo accelerato una crisi dalle proporzioni sconosciute e impensabili. È significativo che questo flagello si è abbattuto su una società allenata da decenni a pensare la “crisi”, esercitata a combatterla sotto diverse forme: la crisi economica, quella finanziaria, quella del tessuto sociale.
Tutto ciò nel quadro dei nostri paesi ricchi, che fanno parte del “primo mondo”, dove regnano il mercato, lo sviluppo, il consumo, la vita opulenta, mentre restano sempre più nascosti i deboli, i poveri, gli “scarti”. E così le porzioni di umanità “allegre e vincenti” hanno dovuto fare i conti con la fragilità, la sofferenza, fino a una morte disperante. In questo tempo ho ascoltato tanta gente, nella solitudine del mio eremo ho molto pensato e cercato di interpretare ciò che stava accadendo. Nell’ascolto ho percepito molta paura, finanche angoscia, per questo virus che si aggirava tra di noi invisibile e sconosciuto; un virus di fronte al quale non sono possibili le difese tipiche dei ricchi, di quanti possono contare sul proprio potere. In particolare gli ultrasettantenni, tempestati dai bollettini dei morti e dalla richiesta di “mettersi in coda” rispetto ai più giovani e forti di loro, hanno avuto momenti di sconforto. Quasi tutti hanno pensato alla concreta possibilità di venire contagiati e morire. Mai – mi dicevano – abbiamo avuto la morte tanto presente, mai siamo stati così consapevoli della nostra fragilità. In tal modo la crisi è diventata una domanda sulla fragilità e sul limite della morte, che nessuno può evadere. Abbiamo anche scoperto i limiti della scienza, della medicina, di tante realtà che prima ci sembravano garanzie rassicuranti, a livello personale e sociale. Molti dicono: “L’abbiamo scampata. Presto festeggeremo!”. Tale reazione vitalistica è giustificata ma non deve oscurare in noi il senso del limite che abbiamo (ri)scoperto, né l’evento della morte, che attende ciascuno e può giungere imprevisto. Non credo che in questa crisi siamo automaticamente diventati migliori, più solidali, più capaci di attenzione all’altro. Ciò dipende dalla nostra volontà e dalle nostre precise scelte, da rinnovarsi ogni giorno. Ma se oggi siamo più consapevoli del limite e della morte allora – come afferma il filosofo umanista Salvatore Natoli – “tenendo presente la morte, saremo meno inclini a prevaricare sugli altri”. Già questo non sarebbe poco! La “memoria” che segue risale al venerdì 23 di febbraio dell’anno 2007. Scrivevo a quel tempo: L’umanità al bivio; così si potrebbe definire questa fase storica dell’umanità. A questo punto, infatti, non servono più gli strumenti passati e con dovizia utilizzati dai popoli razziatori compresi nel sedicente mondo progredito e civilizzato. Strumenti che il più delle volte erano al seguito delle armate, armate di predoni benedette in nome di un dio, o di una fede o di una missione di civilizzazione: e così nei secoli decorsi si è provveduto a depredare l’intiero pianeta Terra, lasciando agli atterriti popoli del non-mondo miserie, malattie epidemiche e tiranni vigilanti al soldo delle armate civilizzatrici. Ha un bello scrivere sull’argomento Jean Paul Fitoussi autore della corrispondenza di seguito riportata. Riconosce egli che oggi le armi dei civilizzatori sono spuntate, inadatte al nuovo scenario planetario; commensali non più emarginabili si sono assisi alla tavola delle risorse del pianeta e con determinazione pretendono la loro fetta per colmare il “gap” tecnologico e di esistenza che sinora ha contraddistinto il paesaggio planetario. Si dovranno inventare sempre più necessarie ed irrinunciabili “crociate” in nome di supremi beni da salvare per arginare quella che appare oggi come la rivoluzione industriale globale che coinvolge e coinvolgerà sempre di più tutti gli angoli del pianeta, con l’enorme consumo di risorse e con una corsa sfrenata all’accaparramento delle sempre più scarse materie prime. E se ne hanno concreti sentori scorrendo le cronache quotidiane che riportano lo sgomitare dei novelli commensali sui mercati internazionali al fine di accaparrarsi ingenti quantità di acciaio, prodotti petroliferi ed alimentari e tutte quelle materie prime divenute d’un tratto beni con un altissimo valore stante la loro sempre più scarsa disponibilità. E le cronache riportano – da Davos nell’ultimo loro incontro - come i grandi del sedicente mondo progredito e civilizzato abbiano finalmente riconosciuto l’insostenibilità ambientale dello sviluppo che si va delineando sul pianeta Terra, e l’impossibilità di imporre scelte unilaterali al resto del genere umano, riproponendo un tema che ha fatto discutere nei decenni del secolo scorso, ovvero la diffusione del nucleare come fonte energetica. E non già, quindi, un rivedere il proprio modello di sviluppo, che si autolimita ciclicamente solo a causa dei corsi e ricorsi economico-finanziari; il modello dello sviluppo continuo e senza limiti non può essere messo in discussione, in quanto andrebbe ad essere sconfessata tutta la filosofia di crescita che ha contraddistinto la vita nella parte del pianeta che oggi attonita non riesce ad elaborare nuove e convincenti ricette di sviluppo. (…). …importante è comprendere come il processo economico, che non può essere autonomo, produca conseguenze irreversibili in ragione delle sue molteplici interazioni con la natura. Attingendo agli stock di risorse naturali non rinnovabili (petrolio, materie prime ecc.) noi degradiamo, o modifichiamo qualitativamente il patrimonio ambientale (terreni agricoli, acqua, risorse marittime) al quale imponiamo un ritmo di sfruttamento superiore alla sua capacità di rigenerarsi. La “legge dell’entropia” ci ricorda l’esistenza di una freccia del tempo, e ci avverte che stiamo agendo in modo da lasciare alle generazioni future un patrimonio naturale impoverito, e senza dubbio meno atto a soddisfare i loro bisogni di quello che noi stessi abbiamo ereditato. Ma non basta: lo sfruttamento degli stock di risorse non rinnovabili ha sganciato il ritmo economico (la crescita) dal ritmo ecologico, contribuendo così al degrado del patrimonio, e in particolare della biosfera, col rischio di suscitare cambiamenti irreversibili nell’evoluzione climatica. Il problema è di grande rilevanza, e non può avere soluzioni politiche semplici. In nome di quale principio, ad esempio, potremmo chiedere alla Cina o all’India di limitare il loro dinamismo economico per ridurre i rispettivi prelievi di risorse naturali del pianeta? Il nostro minor dinamismo non è infatti dovuto a un’autolimitazione volontaria, bensì al nostro livello di vita molto più elevato, così come alla nostra incapacità di risolvere gli squilibri economici al nostro interno. Non possiamo imporre il ritmo ecologico a chi è più povero, quando noi abbiamo potuto arricchirci per il fatto stesso di essercene liberati! Per motivi analoghi, la decrescita o la stagnazione non sarebbero una soluzione neppure all’interno dei paesi sviluppati, dato che comporterebbero sia l’accettazione delle disuguaglianze esistenti, sia al contrario l’imposizione di un regime di redistribuzione tendente a una ripartizione omogenea delle risorse: nel primo caso un insostenibile cinismo, nell’altro l’utopia totalitaria. (…). Lo sviluppo dell’umanità è dunque contrassegnato da due irreversibilità, una felice l’altra nefasta: l’accumulo del sapere e del progresso tecnologico da un lato, e dall’altro il decremento degli stock di risorse non rinnovabili e la degenerazione, irreversibile anch’essa, di parte delle ricchezze ambientali. (…). Ora, la natura come la conoscenza sono beni pubblici, che in quanto tali esigono l’intervento dello Stato per essere prodotti in quantità sufficiente. Perciò la sola via d’uscita dal problema finitezza del nostro mondo sta nel tentare di mantenere divaricate le lame della forbice, investendo nell’istruzione e nella ricerca – in particolare sulle energie rinnovabili, ma anche in relazione a tutto ciò che potrebbe ridurre il contenuto energetico del nostro livello di vita, e inoltre nella tutela dell’ambiente, inventando nuovi mezzi per rallentare il processo di decremento delle risorse naturali. (…).

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