"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 12 maggio 2020

Virusememorie. 17 «In un fiore che cade non c’è errore. È la via delle cose».

Ha sostenuto Dario Doshin Girolami – che è abate del “Centro Zen” di Roma - in una intervista rilasciata a Daniela Ranieri e pubblicata su “il Fatto Quotidiano” dell’8 di maggio con il titolo “Ansia da virus, ci salverà il calore della meditazione”:
“(…). Non credo che sia stata la brama a generare il Coronavirus – i virus da sempre abitano questo pianeta. Tuttavia lo sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta e la distruzione degli habitat animali ha contribuito e contribuirà grandemente alla diffusione di questo e altri virus. (…). Se ci relazioniamo male a questa realtà, il nostro vissuto sarà di sofferenza. Se invece ci relazioniamo bene, vivremo questa stessa realtà con serenità. La scelta sta a noi. Come vogliamo vivere questo evento? (…). Il Buddha insegna che malattia e morte sono parte della vita, sono due aspetti della stessa realtà. Siamo noi che le separiamo e dunque soffriamo. Interpretiamo malattia e morte come un’ingiustizia piuttosto come un evento naturale. Ma in un fiore che cade non c’è errore. È la via delle cose. (…). L’interdipendenza è una legge fondamentale della natura. Il mio respiro dipende dalle piante e dal sole. Senza di essi non potrei vivere. Il pane che mangio viene dal grano (e dal sole, la pioggia) che qualcuno ha coltivato. La nostra esistenza dipende dagli altri. Più capisco ciò, più apro il cuore alla compassione”. Ha scritto Paul Ginsborg nel prologo al Suo lavoro “La democrazia che non c’è” (Einaudi, 2006), nel quale prologo immagina un incontro mai avvenuto tra il grande pensatore liberale John Stuart Mill e Karl Marx: (…). Mill era più cauto e, potremmo dire, più moderno. Cercò di spiegare a Marx che la crescita illimitata rappresentava un rischio reale. Nei paesi capitalistici avanzati bisognava invece determinare una stasi dell’economia, per frenare la crescita inutile. Mill citò almeno tre motivazioni per agire in tal senso: bisognava impedire l’eccessiva urbanizzazione e il sovraffollamento, evitare che la natura venisse usata in maniera totalmente strumentale, “sradicando ogni siepe e ogni albero superfluo”, e non attribuire eccessivo valore alla prosperità materiale. Mill odiava quelli che definiva i “cacciatori di dollari”, non discostandosi in questo da Marx. (…). Una saggia, inutile, inascoltata preoccupazione. Ma di preoccupazioni inascoltate ne è ricca la Storia dell’uomo. Ha scritto Paul Kennedy - professore di storia alla Yale University – nell’oramai remoto 23 di settembre dell’anno 2004 in “La bomba demografica” pubblicato sul sito www.internazionale.it : Alla fine di agosto, i lettori di molti giornali saranno stati piacevolmente sorpresi di sapere che la “bomba demografica”, che da decenni toglie il sonno agli esperti, sta esaurendo la sua forza dirompente. Di recente l'agenzia dell'Onu che ogni anno pubblica statistiche sui trend demografici ha un po' ridimensionato le sue previsioni. Oggi il nostro pianeta ospita sei miliardi e 300 milioni di persone: l'agenzia prevede che entro il 2050 la popolazione mondiale raggiungerà il picco massimo e poi si assesterà su circa nove miliardi di abitanti. Non è proprio una buona notizia per chi dice che abbiamo già superato la soglia di sostenibilità. Tuttavia, si tratta di una cifra molto inferiore ai pronostici di una decina d'anni fa. Non c'è da stupirsi, quindi, se il rapporto ha fatto notizia. Ma prima di stappare lo champagne, diamo un'occhiata un po' più approfondita ai calcoli. Il nostro è un mondo complesso e sul piano demografico presenta enormi divari, non solo tra le diverse regioni, ma anche al loro interno. Il motivo principale del rallentamento della crescita demografica è semplice: i tassi di natalità sono scesi sia nei paesi industrializzati (ma non in tutti) sia in quelli in via di sviluppo (anche qui, non in tutti). Di questa transizione demografica non c'è una sola spiegazione: gli esperti la attribuiscono soprattutto a due cause. La prima è che oggi un numero sempre crescente di famiglie abita in città sovraffollate anziché in campagna. Avere cinque o sei figli può far comodo se abiti in una vecchia casa colonica: puoi metterli a badare ai polli o a raccogliere la legna. Se però ti sei trasferito in un monolocale di una bidonville di San Paolo del Brasile, tanto per fare un esempio, avere una famiglia numerosa è decisamente poco pratico. C'è poi un secondo insieme di motivi legati al nuovo ruolo delle donne sia nelle società avanzate sia in quelle in via di sviluppo. L'aumento del numero di ragazze e donne che accedono all'istruzione secondaria e universitaria ha anche l'effetto di ridurre le dimensioni della famiglia media, tra l'altro perché ritarda l'età del matrimonio e aumenta le opportunità di impiego. Infine, in molti paesi la speranza di vita delle donne sta salendo, il che riduce la pressione a metter su famiglia in giovane età. Non meno interessanti, e gravide di importanti conseguenze sul piano demografico, sono le novità intervenute nel mondo in via di sviluppo a livello di opportunità professionali e di stile di vita delle donne. Oggi davanti a una giovane istruita si schiudono possibilità che a sua nonna erano precluse. E se la ragazza lavora in uno studio legale, o gestisce un'impresa, le resta poco tempo (o voglia) per mandare avanti una famiglia. Anche se è impossibile da dimostrare in modo incontestabile, sembra ci sia una forte correlazione tra le aspettative sul ruolo della donna nella società e il tasso di natalità di un paese.
Allora, questo rallentamento della crescita della popolazione mondiale va salutato come un segno positivo? Nel complesso, sì: per l'ambiente, per l'assistenza sanitaria, per la causa dell'uguaglianza tra i sessi. Tuttavia, in questa situazione ci sono vari aspetti su cui riflettere. Il primo è l'implosione demografica dell'Europa, del Giappone e della Russia: bisogna puntualizzare che una società anziana è anche una società cauta e conservatrice, ed è difficile che si avventuri a promuovere i cambiamenti necessari per stare al passo con il ventunesimo secolo. In secondo luogo il quadro generale – con il tasso d'incremento demografico in calo in tutto il Nordafrica e in gran parte dell'Asia – non tiene conto delle eccezioni, cioè di quei paesi o regioni dove le proiezioni demografiche parlano di forti aumenti: per esempio lo Yemen, l'Asia centrale, l'Africa centrale e occidentale. Secondo le proiezioni, entro il 2050 il Pakistan, che oggi ha la stessa popolazione della Russia (145 milioni), dovrebbe raggiungere i 345 milioni. In quasi tutti questi casi, si tratta di paesi dove lo stato è disgregato o in via di disgregazione e soffre di conflitti interni, arretratezza sul piano dei diritti delle donne, situazioni ambientali disastrose e livelli spaventosi di povertà. C'è da preoccuparsi, mi sembra. Un'ultima considerazione. Anche se i tassi di fecondità di tutto il mondo in via di sviluppo si stabilizzassero oggi stesso, ci troveremmo comunque di fronte a una sfida: quella posta dal miliardo e più di giovani che attualmente hanno un'età compresa tra i 5 e i 20 anni. E ancora: come farà la società globale ad assistere le ragazze svantaggiate, che conducono una vita ben lontana dagli standard delle loro sorelle svedesi o canadesi? E che ne facciamo delle centinaia di milioni di giovanotti pieni di rabbia ed energia che, senza un'istruzione né un lavoro, invadono le strade di Falluja o della Striscia di Gaza? Sono domande a cui non c'è una risposta. Tuttavia, è bene tenere a mente queste difficili sfide. Altrimenti rischiamo di leggere distrattamente l'annuncio che l'incubo della bomba demografica è finito, senza accorgerci che di problemi demografici ce ne sono ancora, e molto seri.

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