"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 30 aprile 2020

Cosedaleggere. 38 «Un decimale di Pil come crisma divino».


Stefano Massini in “Covidico. La nuova era dell'umanità” – pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 21 di aprile 2020 - tenta di intravvedere quell’”uomo nuovo” che verrà dopo il tempo del “coronavirus”. Sappiamo bene come quell’”uomo nuovo” fosse il traguardo finale di quel “socialismo reale” – o dei soviet - che non pochi danni e terribili tragedie ha arrecato alla umanità nel faticoso, tortuoso suo cammino. E di quali e quanti “uomini nuovi” ci abbia lasciato in eredità. Forse la tanto attesa comparsa dell’”uomo nuovo” è stata anche intravista come risultato finale della predicazione dell’Uomo di Nazareth. Ma duemila anni e passa non hanno prodotto molto di quella tanto auspicata trasformazione ed apparizione, ché il tempo di quel socialismo sembra, obiettivamente a questo punto, essere stato una mera illusione stante la pochezza temporale di quell’agire prima che gli avvicendamenti della Storia ne spazzassero via la solenne sua impalcatura. Il neologismo di Stefano Massini è accattivante seppur la Storia non ci lesini a piene mani una realtà ben diversa e miserevole. Ne aveva ben donde quell’Immanuel Kant che in un Suo celeberrimo aforisma ebbe a sostenere che: «Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto».

mercoledì 29 aprile 2020

Virusememorie. 14 Lettera a… Per una speranza di salvezza.


Carissimo ********,
forse il quadro del grande disastro in cui abbiamo precipitato il mondo non sarebbe completo se io non ti parlassi di un tipo particolare di inquinamento che è quello acustico, sì proprio quello dovuto ai rumori di tutti i giorni, quei rumori costanti che peraltro sembrano dare un senso alla vita frenetica che conduciamo. È una situazione questa in cui ci siamo cacciati senza esserne sul piano naturale preparati. Ricordi di certo quando ti ho scritto della nostra origine di animali vaganti per la foresta o per la savana in cerca di prodotti della natura per la nostra nutrizione. Ebbene, immaginerai di certo l’ambiente che circondava quei nostri progenitori; certo, non erano dotati di una forza eccessiva, né di una straordinaria velocità. Ma un senso particolare è sempre stato ben sviluppato in essi; il senso dell’udito. Tramite esso quei primati hanno potuto evitare un certo numero di agguati, di pericoli che quotidianamente attentavano alla loro sopravvivenza. Capisci che grazie a questo udito particolarmente sviluppato essi riuscivano a percepire tutte le variazioni che l’ambiente circostante subiva: e la percezione di un pericolo, captato mediante quel particolare organo sensorio che è l’orecchio, metteva in allarme tutto l’organismo nel suo complesso, stimolando la secrezione di tante ghiandole onde preparare l’individuo alla fuga ed alla difesa. Ecco qual è il punto: che un semplice rumore è capace di stimolare l’organismo nel suo complesso. Il fruscio del vento tra le foglie, i versi degli altri animali, i canti d’amore, erano percezioni continue che caratterizzavano il mondo dei nostri antichi parenti; un ramo spezzato, un rumore di passi felpati erano capaci di mettere sull’avviso e di rendere nervosi ed irascibili i nostri cari antichi parenti. Oggi possiamo dire che grazie a questo nostro mondo di rumori il nostro organismo è sempre teso, sempre pronto ad una aggressione che non trova poi il modo di manifestarsi e scaricarsi. Ecco, siamo di continuo sottoposti a delle sollecitazioni di pericolo, poiché il rumore è sempre stato naturalmente per noi sinonimo di pericolo, per cui il nostro organismo è sottoposto di continuo ad un logorio enorme. Ti ho parlato di inquinamento da rumori; ma sì, poiché è questa anche un’altra forma di degradazione dell’ambiente, che immancabilmente nuoce ed uccide, con morte lenta e poco appariscente, l’uomo. Voglio riportarti ancora della cronaca e dei dati che non potranno non sorprenderti. È la cronaca di tutti i giorni, è la cronaca che riguarda i nostri simili, il nostro buon vicino di casa magari, che ci sorride sempre dal balcone, che vuole sempre entrare dopo di noi nell’ascensore. Ecco, potrebbe accadere anche a lui, a me, ad uno di noi che ci sentiamo sani ed equilibrati; ci potrebbe accadere di essere un giorno all’improvviso diversi e di fare quel qualcosa che non avremmo fatto mai e che anzi ci ha fatto in tante altre occasioni meravigliare ed inorridire. Eppure i giornali riportano queste cronache come compiute da persone diverse da noi; ed invece, credimi, potenzialmente oggi tutti potremmo avere un giorno un mostruoso articolo sul quotidiano della nostra città:

martedì 28 aprile 2020

Leggereperché. 10 Marx: «“L’uomo è per l’uomo l’essere supremo”».


Tratto da “La critica radicale del presente: l’eredità di Marx” di Maurizio Viroli, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 28 di aprile dell’anno 2018: (…). La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, (…), è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro – scrive Marx – e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali.

lunedì 27 aprile 2020

Leggereperché. 09 «Il lavoro, per dirla con San Paolo, è “uno spiacevole sudore della fronte”».


Tratto da “Per non essere schiavi serve tempo liberato” di Massimo Fini, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27 di aprile dell’anno 2018: (…). In epoca preindustriale il lavoro, per dirla con San Paolo, è “uno spiacevole sudore della fronte”. Non è un valore. È nobile chi non lavora. Con quel grandioso fenomeno (a parer mio non ancora studiato a sufficienza) che prende il nome di Rivoluzione industriale la prospettiva cambia radicalmente. Sia nella versione marxista che liberista dell’Illuminismo, che cerca di razionalizzare le profonde novità introdotte da questa Rivoluzione, il lavoro diventa centrale. Per Marx è “l’essenza del valore” (non a caso Stachanov, in realtà uno “schiavo di Stato”, è un eroe dell’Unione Sovietica), per i liberisti è esattamente quel fattore che combinandosi col capitale dà il famoso “plusvalore”. Per me il vero valore della vita è il tempo e l’ho scritto in tutta la mia opera. La novità portata, (…), è di aver precisato, con la sua definizione di “tempo liberato”, di quale tempo si stia parlando. In che cosa si distingue il “tempo liberato” dal più noto tempo libero? Il tempo libero è un tempo sincopato, determinato dai ritmi e dai tempi del lavoro. In realtà non è affatto ‘libero’, ma è destinato al consumo senza il quale tutto il grande castello produttivo che abbiamo costruito, e sul quale si basa l’attuale modello di sviluppo, crollerebbe miseramente. Noi non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre, un’aberrante incongruenza che era già stata avvertita da Adam Smith che pur è, insieme a David Ricardo, uno dei padri fondatori di questo sistema. “Dobbiamo consumare per aiutare la produzione”, quante volte ci siamo sentiti ripetere questa frase dagli economisti e dagli uomini politici?

domenica 26 aprile 2020

Ifattinprima. 58 «Riusciremo finalmente ad abbracciarci e ad essere una sola cosa».


Tratto da "Al Nord come al Sud non si deve tacere, la Lombardia paga il falso garantismo" di Roberto Saviano, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 20 di aprile 2020: (…). Cosa è stato il Garantismo in Italia negli ultimi 25 anni? Dove è rintracciabile quell'equilibrio tra Diritto e giustizia sociale? Io credo in pochissimi ambiti, ed è per questo che non esiste una cultura garantista di massa, ma solo una sotto cultura "diversamente giustizialista" che si oppone a quella dichiaratamente giustizialista. E lo fa per difendere i privilegi di chi ha ricchezza e potere, fermandosi appena si fa forte il "tanfo" della povertà e della marginalità. Che cosa è la giustizia sociale per questa cultura, se non un orpello? È per questa ragione che il garantismo italiano negli ultimi 25 anni è stato maggioritariamente una storia di puttane, che hanno sbandierato Beccaria solo per vendersi meglio. Questa è la matrice culturale che anche oggi, al cospetto della più grande tragedia dal dopoguerra, sta portando molti sedicenti garantisti a chiedere a gran voce che i processi non dovranno farsi nei Tribunali, che è un modo per dire che processi non dovranno esserci. Eppure, un garantista dovrebbe conoscere bene la natura del processo, che nasce per accertare i fatti, e non la verità. Al Nord, ho trovato sempre sostegno quando dalla mia terra si levavano le critiche: i panni sporchi si lavano in famiglia. Ricordo le valanghe di insulti provenienti da quelli che si erano autodefiniti "del mio mondo" durante la crisi dei rifiuti in Campania. Un tradimento e io un traditore. Non solo io, ovviamente, tanti scrissero su quel tempo e su quello che accadeva in Campania e ai campani. Non parlavo solo delle malefatte del Potere, ma anche della incapacità della gente normale, della borghesia, di ribellarsi a una occupazione clientelare del potere che aveva condotto al disastro. Erano troppo pochi, ma incredibilmente valorosi, quelli che alzavano la testa per difendere i propri territori e le proprie vite. Per quale ragione mai, oggi, si dovrebbe pensare che al cospetto del più grande disastro in termini di perdite umane da settantacinque anni a questa parte bisognerebbe "evitare i processi" o non analizzare le ragioni, anche culturali e antropologiche, che lo hanno determinato? Solamente il Sud è possibile oggetto di analisi sociologiche? Solamente al Sud si può parlare di omertà? No signori, le cose non stanno così. La Lombardia ha collassato perché ha distrutto il suo tessuto sociale, e questo non lo ha fatto certo il virus, è accaduto prima. E non c'entra nulla il Dio danaro, lo sterco del demonio e altro armamentario verbale grossolano. C'entra l'idea di giustizia sociale. Quanto ha contato la voce degli operai lombardi in questi mesi? Qualcuno gli ha chiesto se si sentivano sicuri a continuare a lavorare senza protezioni? Quanto ha contato la voce dei medici e degli infermieri che hanno assistito allo smantellamento della parte meno "produttiva" di quel sistema sanitario, per poi trovarsi a morire, per mancanza di dispositivi di sicurezza e per decisioni - sì, decisioni - che nel pieno della crisi ne hanno aggravato il peso sul piano dei contagi? Questi fatti dovranno essere accertati. Il Garantismo vive nelle carceri al fianco degli ultimi tra gli ultimi dei condannati e dei detenuti in attesa di giudizio per via di una legge proibizionista in materia di droga che quasi nessuno mette in discussione. Il Garantismo vive sulle navi delle Organizzazioni Non Governative accusate di salvare vite umane. Solo i veri garantisti, e sono assai pochi, si sporcano le mani con questi "poveracci". Il Garantismo italiano è morto quando si è venduto a Berlusconi, prima, e ora a Salvini. Poiché mai sono stati negli ultimi anni dalla parte degli ultimi. E oggi, come era ovvio, sono sulle barricate nel tentativo di sventare i processi e, per farlo, dicono e scrivono che non si processa lo spirito lombardo. Anche se il tasso di mortalità in quella regione si aggira intorno al 20% e, in valore assoluto, il numero dei decessi è quasi lo stesso dello stato di New York, che però ha il doppio della popolazione lombarda. E anche quelli che, in buona fede, protestano la necessità di difendere un sistema di relazioni sociali, culturali ed economiche virtuose, non comprendono il rischio di non elaborare il lutto, per non guardarsi a fondo dentro. Ma le loro argomentazioni non sono convincenti: se la Lombardia non va criticata perché produce il 25% del pil nazionale, allora sappiate che dietro l'angolo c'è il collasso morale. Quando le voci di chi ha perduto un caro, di chi ha vissuto l'orrore del contagio, delle sirene delle ambulanze, dei carri dell'esercito che trasportavano via le troppe salme, si renderanno conto che è a loro che si sta, già adesso, chiedendo di tacere, l'implosione sarà inevitabile. Quelli che oggi pensano che alla fine ai lombardi basterà tornare allo shopping e agli aperitivi, per tornare a essere quelli di prima, stanno offendendo per primi quel dolore, che merita spiegazioni, che merita di sapere le cose come sono andate. E la politica, questa politica, non lo farà mai, poiché già adesso ha alzato il tappeto per spingerci sotto la polvere, ma quella polvere sono storie di vite interrotte. Il Caso è stato ed è parte della vita dei meridionali, che non hanno mai potuto pensare davvero che pagando potessero farlo sparire dalle proprie vite, individuali e collettive. Hanno imparato ad adattarsi, ma hanno anche imparato a guardarsi dentro e a raccontare i propri demoni. Perché il Sud si poteva raccontare e potevano farlo anche quelli che venivano da fuori, anche quelli che, in maniera mirabile, ne hanno descritto non solo le miserie materiali, ma anche quelle morali. È bene che il Nord e la Lombardia lascino spazio alla indignazione di chi si è trovato all'improvviso nudo, poiché se non lo faranno ne saranno travolti, ne saremo travolti. Ma se noi italiani ci guarderemo per la prima volta, osservando le nostre ferite, forse, riusciremo finalmente ad abbracciarci e ad essere una sola cosa. Allora sì, ce la faremo. Io ne sono certo.     

sabato 25 aprile 2020

Eventi. 30 #iorestolibero. «Quel 25 Aprile a casa, di Bella ciao mi son portato il fiore, il fiore del partigiano morto per la libertà».


Tratto da “Perché tutti cantano Bella ciao” di Maurizio Maggiani, pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 21 di aprile dell’anno 2019: Mio padre non la sapeva, non me l’ha mai cantata. Mio padre conosceva tutte le canzoni del mondo e me le ha cantate tutte, Bella ciao mai. Mio padre era un canterino, lo sono diventato anch’io, come se ci fossi andato a scuola. Mio padre mi metteva a letto e diceva, dì una parola, una qualunque, io cercavo una parola, anche la più scema che mi veniva in mente, e lui ci trovava la canzone. Lo so fare anch’io, è un bel gioco, lo so fare anche con i nomi; è incredibile, ogni nome ha la sua canzone, e le persone sono contente di sapere che c’è una canzone apposta per loro, proprio non immaginano che ci sia così tanta musica per tenere su di morale le parole, e le vite che le abitano. Mio padre cantava, fischiettava, zufolava, mormorava musica dappertutto, anche per strada, e mia madre si scocciava, allora lui faceva un sorriso birichino e diceva, cuor contento il ciel l’aiuta. È vero, se non avessi da cantare su ogni cosa sarei l’uomo più avvilito del mondo, per fortuna che ho un repertorio infinito, c’è tutto il lascito di mio padre e la mia vasta carriera canora, che è stata, naturalmente, anche una significativa carriera politica. Anche quella di mio padre lo è stata, infatti conosceva tutte le canzoni fasciste e tutte le canzoni socialiste, tutte le canzoni di guerra e tutte quelle partigiane. Perché mio padre questo è stato, un giovane fascista, un soldato, un fervente socialista e un partigiano; il fascismo gli ha dato la scuola operaia e l’ha mandato alla guerra, la guerra gli ha insegnato il socialismo e il socialismo la resistenza. Ma anche se la sua vita è stata piena di prima e di dopo, le canzoni sono rimaste, e c’erano canzoni fasciste e canzoni guerresche che lui mi cantava assieme a quelle socialiste e partigiane, perché in effetti non erano brutte canzoni. Ce n’erano che mi facevano piangere di commozione, indistintamente, perché non è che lui mi dicesse, attento, questa è una canzone dell’orrido fascismo e questa dell’eroico socialismo; ad esempio le canzoni del figlio del soldato e del figlio del prigioniero. Il figlio del soldato scrive al suo papà una lettera: “caro papà ti scrive la mia mano, il cuore trema e io non so perché, le lacrime che bagnano il mio viso son lacrime d’orgoglio credi a me”. E il figlio del prigioniero: “all’angolo della lurida galera, il figlio dell’ergastolano sta, muto invoca Lenin con la preghiera che gli riporti a casa il suo papà, sì grida il bambino sì, verrà Lenin, perché Lenin soltanto riporta l’innocente al suo piccin”. Come avrei potuto non versare lacrime; anch’io ero orgoglioso del mio papà che era sempre lontano a lavorare come se fosse in guerra, era lo stesso mio papà che i fascisti lo volevano mettere in galera e poi fucilare. Per non dire della malinconica fierezza che mi induceva a un solitario eroismo, addobbato con l’agognato costume da cow boy e armato di un prezioso fuciletto a tappi, al canto tragico di: “colonnello non voglio il pane, voglio il piombo pel mio moschetto, ho la terra nel mio sacchetto che per oggi mi basterà”. Con il dubbio, infantile ma non del tutto inconsistente, che la terra nel sacchetto servisse al coraggioso soldato per autoseppellirsi. E in tutta questa enciclopedia canora, Bella ciao mai. Bella ciao l’ho imparata che avevo tredici anni, l’ho imparata proprio assieme a mio padre. È stato la prima volta che mi ha portato alla sfilata della Liberazione, il 25 Aprile 1964, era già tempo di prepararsi all’esame di terza media. Mi aveva fatto allestire da mia madre, mettilo come si deve, camicia bianca e farfallina, giacchetta e calzonetti blu della prima comunione; certo che mi ricordo, mio padre sembrava uno sposo. Tutti quanti sembravano degli sposi e delle spose in festa per le vie della città, eleganti e profumati, impettiti e sorridenti, era la festa più grande della Repubblica; dai fili della tranvia sventolavano centomila bandiere tricolori, dai marciapiedi le ragazze con il fazzoletto rosso lanciavano sulla sfilata a piene mani garofani dello stesso identico colore, tutti avevano un garofano all’occhiello, mio padre ne ha raccolto uno anche per me. Davanti a tutti, gli eroi della Libertà portavano bandiere così cariche di medaglie che nemmeno il maestrale riusciva a spolverarle. E la banda, una banda musicale spropositata, fatta di tutte le bande della città, con certi clarini più piccoli di me e i bassotuba avvinghiati come il serpente di Laocoonte a dei giganti con il fiato potente come il vento. Nel mezzo della banda un camion tutto coccarde e corone di fiori, e sul cassone il gran coro della Libertà, che cantava tutte le canzoni che mi aveva già cantato mio padre, compresa quella del “battaglion Lucetti”, che “son libertari e nulla più”, il suo battaglione; mio padre cantava con il coro e io con lui, era così bello da farmi venire il languore allo stomaco e dappertutto.

venerdì 24 aprile 2020

Eventi. 29 #iorestolibero. «La Resistenza fu fatta dall’Italia di sotto».


Tratto da “Avanti ragazzi, ora e sempre Resistenza”, intervista di Simonetta Fiori a Marco Revelli pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 22 di aprile 2020: “Sarà il primo 25 aprile senza piazza fisica. Ma la virtuale è destinata a segnare un importante passaggio di testimone: quello a una nuova generazione di liberi, un nuovo popolo di ragazzi e ragazze chiamati a coltivare questa eredità. E allora non lo ricorderemo solo come il 25 aprile della pandemia, ma come una data di ricostruzione”. (…).

giovedì 23 aprile 2020

Virusememorie. 13 «La pandemia ha una forte analogia con il cambiamento climatico».


Ha scritto Michele Serra in una Sua corrispondenza – “Un altro dopo è possibile” - pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica" del 17 di aprile 2020:

mercoledì 22 aprile 2020

Leggereperché. 08 «Ricostruire comunità, trovare nessi simbolici e concreti per l’identificazione collettiva».


Tratto da “Sinistra vai a scuola” a firma della economista Marta Fana (autrice di “Non è lavoro, è sfruttamento”, 2017) e del sociologo Lorenzo Zamponi (coautore tra l’altro di “Organising workers’ counter-power in Italy and Greece”, 2015) pubblicato sul settimanale "L'Espresso" del 22 di aprile dell'anno 2018: La sconfitta della sinistra alle elezioni del 4 marzo (2018 n.d.r.) arriva da lontano. Non c’è socialdemocrazia europea, del resto, se non nelle eccezioni britannica e portoghese, che negli ultimi anni non abbia visto crollare il proprio consenso elettorale. A essere sconfitto è stato quello che Nancy Fraser ha chiamato il “neoliberismo progressista”, cioè la linea politica seguita da tutti i centrosinistra europei dagli anni ’90 in poi: l’idea che si potesse cavalcare da sinistra la forza della globalizzazione, delle privatizzazioni, dell’apertura al mercato di spazi sempre più ampi della nostra società, livellando verso il basso i diritti sociali e comprandosi il consenso popolare grazie alla crescita economica e a qualche avanzamento sui diritti civili.

martedì 21 aprile 2020

Cosedaleggere. 37 «Nel caos l’interrogazione è l’abito della ragione».


Tratto da “Il tempo delle domande” di Maurizio Maggiani, pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 4 di aprile 2020: Io risiedo nel privilegio, vivo in una vecchia casa ben fatta nel mezzo di una collina tenuta a vigna e frutteto. Il mio vicino più vicino è Giorgio, la sua casa è a duecento metri dalla nostra, ci divide un fosso e un filare di pioppi, nella ripa del fosso, tra le radici di una grande quercia, vive un grosso, scorbutico tasso, se sono abbastanza discreto lo vedo la sera sgrufolare tra gli umidori in cerca dei suoi amati lombrichi.

lunedì 20 aprile 2020

Virusememorie. 12 Lettera a… Per una speranza di salvezza.


Carissimo ********,
avrai capito che dal momento in cui i nostri rapporti con la natura si allentavano sarebbe stato necessario cercare altre forme, altri mezzi per continuare a sfruttare ai nostri fini le limitate risorse di questo nostro pianeta.

domenica 19 aprile 2020

Leggereperché. 07 «Chi cerca nella fede in Dio risposte a domande che vanno al di là dell'umana ragione».


Tratto da “Credere è folle, dunque è umano” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del 19 di aprile dell’anno 2014: La follia non va ridotta a malattia della mente: è comune ai sogni, all'amore, alle paure.

sabato 18 aprile 2020

Leggereperché. 06 «Del perdono, come di una mala educazione alla doppia coscienza».


Tratto da “Tutto perdonato?” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 18 di aprile dell’anno 2015: Ancora su colpa e assoluzione: è un tema che mette allo scoperto il modo di concepire la religione. Per questo anche per un laico vale la pena di ragionarci. Ci sono dei credenti caratterizzati dal loro incrollabile dogmatismo che, a sentire il più grande psicopatologo del Novecento, Karl Jaspers, cercano nella fede una sicurezza che manca alla loro personalità, e perciò non sono tanto dei "credenti" (Glaubende) quanto dei "militanti della fede" (Glaubenskämpfer). Con costoro non è possibile instaurare un dialogo, perché il recinto della dialogicità è precluso dalla loro incrollabile e minacciosa sicurezza (bedrohende Sicherheit). Ci sono invece dei credenti che non discutono su Dio, perché semplicemente ne sentono la presenza e a lui si rapportato con gli strumenti del cuore, capace di creare immagini (…): «Dio si comporta con noi, come noi con i nostri figli». Con costoro io riesco a parlare, non perché creda in Dio ma perché l'immagine di Dio che mi offrono, la assumo come una metafora dell'amore, per capire il quale, abbiamo bisogno di simboli potenti che sappiano dire l'invisibile e l'ineffabile. Allo stesso modo in cui tanta letteratura si è dedicata al tentativo di approssimarsi al mistero che è l'amore. Siccome penso che la religione appartenga alla sfera del cuore, come tutto ciò che appartiene al cuore non è regolata dalla ragione, ma si muove in quello scenario inquietante dove la maledizione si confonde con la benedizione, il bene con il male, la gioia col dolore, la legge del giorno con il buio della notte.

venerdì 17 aprile 2020

Cosedaleggere. 36 «Quindicimila bambini che moriranno oggi, come ogni santissimo giorno sulla Terra».


“Cosedaleggere” al tempo del “coronavirus” tratte da “Adesso il tetto del condominio è il mio veliero” di Paolo Rumiz, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 9 di aprile 2020: (…). È stata una notte pesante, piena di pensieri. Avevo tirato tardi via skype con un economista visionario e un professore di lettere dalla barba da rabbino discutendo dei rischi spaventosi non di una recessione, ma di un blocco totale dell'economia e conseguente crollo del welfare. Un disastro di proporzioni bibliche, che potrebbe spazzar via la democrazia europea nel giro di un mese. E così, fino a mezzanotte, siamo stati lì a parlare di scenari sudamericani a fronte di una classe politica di esordienti, che sembra non rendersi conto della situazione. E non vede che il vero malato non è il singolo colpito dal virus ma l'interezza del corpo sociale. La nazione. Così, addio sonno. Dopo notti simili, hai bisogno di luce per mettere la palla al centro. E così, quando dal tuo inferno di pensieri, insonnolito e misero, ancora rintronato dal bollettino sul numero dei decessi, imbocchi la tromba delle scale deserte, ecco emergere da memorie scolastiche, senza che tu l'abbia chiamata, l'ombra di un Alighieri che sale al monte del Purgatorio. Allora ti fermi un attimo su un pianerottolo, rifletti, e ti accorgi che non hai capito niente della Commedia, perché il Poeta altro non fa che cercar di uscire dalle tenebre di se stesso. E poiché non c'è luce senza il passaggio attraverso le tenebre, a quel punto i pensieri non si fermano più e persino l'apertura della tua botola si carica di significati inattesi. Sono fuori, e subito le paure si dissolvono. Vento regolare a 20 nodi da Nord-nordest, pressione 1018 millibar. Un buon marinaio potrebbe raggiungere la costa greca in quattro giorni. Nel golfo deserto, un'unica vela: la mia. Va a Oriente, perché è lì che ci si orienta. È un chiarore diffuso tra il giallo e il mandarino che cresce oltre il monte. Ore 6.44. Il primo raggio trafigge il campanile di Contovel, sul ciglione carsico. Mancano pochi minuti. Il silenzio è totale, la città deserta. I gabbiani, due-trecento metri più in alto, diventano giallo-oro. Dante, perdonaci tutti. Cos'è il Paradiso se non accontentarsi della luce e lasciarsi alle spalle la bramosia dell'inutile? La percezione dell'essenza? Da questa magnifica coffa sento di poter intuire l'Aleph, la totalità concentrata in un unico punto radiante. Ma ecco il Sole. Esce come un grido. Sono le 6.58. (…). Venticinquesimo giorno di quarantena. Mi sveglio di soprassalto. Ho sognato di aver trovato il numero di telefono di mio padre. Un numero per l'Aldilà, ovviamente. Cerco di ricordarlo, ma non ci riesco. Manca il prefisso. Poi mi accorgo che il vecchio se n'è andato esattamente quarant'anni fa, ai primi di aprile. Mi ha telegrafato il suo anniversario, il mio dolce ufficiale gentiluomo. Devo prendere fiato, tornare sul veliero. Salgo con una copia di Moby Dick in inglese, più taccuino e binocolo. Il sole è previsto alle 6.56. Lo aspetto, Pasqua è vicina, è come attesa della Resurrezione. I gabbiani si sono già levati per salutare l'attimo. E volo anch'io, volo sull'Europa come Nils Holgersson a cavallo delle oche. Vedo un camionista bloccato al confine ungherese e un medico sfinito nell'inferno di Niguarda a Milano. Le orazioni dei monaci in un'abbazia irlandese e un ladro che scassina un negozio alla periferia di Madrid. Un bimbo in oncologia all'ospedale di Créteil a Parigi, che saluta il papà attraverso un vetro, e una prova d'orchestra online tra i Berliner Filarmoniker. Il custode di un faro solo nella tempesta, e le ombre spaurite di anziani in una casa di riposo. Ricordi? Visioni? Non so. Da qualche parte, forse in Polonia, c'è anche un vescovo che si fa servire la colazione dalla perpetua e un nonno che sul suo abbaino improvvisa un teatrino di marionette per bimbi affacciati alla casa di fronte. Vedo le centrali d'ascolto dei servizi segreti moscoviti e i corpi dei naufragati che fluttuano nei fondali dello Jonio. Più lontano, una donna sola partorisce in una casa di Brooklyn e un maschietto delira di febbre in un villaggio somalo. Uno dei quindicimila bambini che moriranno oggi, come ogni santissimo giorno sulla Terra, di miseria e senza far notizia, mentre qui notiziari martellanti ci convincono che Coronavirus è l'unico male del mondo. (…). Mentre aspettavo l'alba, una linea anomala, come di risacca, si allungava sul mare. Ho preso il binocolo. Tonni! Erano anni che non se ne vedevano. Cielo d'alta montagna, con l'alba da un lato e dall'altro la Luna piena che scendeva come un contrappeso, e tu lì in mezzo, a fare da perno al bilanciere. Percezione assoluta di centralità, come in un faro sperduto in mare. E ho volato di nuovo sui tetti, verso altri mondi. Era la riconquista del tempo. Per la prima volta ne bevevo a sorsate, senza limiti. Ecco perché non soffrivo di assenza di spazio. Era il "qui ed ora" perduto, che tornava. Allora ho sentito una voce femminile gridarmi uno squillante "Buongiorno!". Era una tipa che salutava il marinaio dalla casa di fronte, a trenta metri di distanza. Lì mi sono accorto di essere sfinito. In un attimo m'era parso di avere sfiorato l'essenza del dolore e della bellezza della vita, la visione della catastrofe e allo stesso tempo del potenziale di solidarietà che può ancora evitarla. Autosuggestione? E allora? Sia benedetta l'autosuggestione se serve a farti capire che troppe notizie in tempo reale sono in realtà l'assassinio del tempo. Meglio sprofondare in sé stessi. Diventare sommozzatori. Lasciarsi andare, come in un amplesso. È allora che il tuo sguardo diventa aeronautico. (…).