"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 23 marzo 2020

Storiedallitalia. 83 «A proposito, era una giornata particolare quel 27 gennaio 1994».


Lo capisco, è lunghissima la bellissima – come sempre - narrazione di Enrico Deaglio che ha per titolo “Inchiesta sul lago più misterioso d’Italia”, pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 20 di marzo appena trascorso, ma ho l’improntitudine di proporla poiché essa cade al tempo del “coronavirus”, tempo orribile e terribile al contempo, tempo nel quale avviene di tutto.
E mi permetto di consigliarne caldamente la lettura poiché in questi giorni sono subissato – come lo sarà la maggior parte dei possessori di uno smartphone - sul mio telefonino dai video, alcuni dei quali in verità molto belli, altri molto simpatici, altri ancora decisamente preoccupanti. Preoccupanti perché? Per il fatto che si inneggia, in quei video amatoriali, ad un’Italia di “costituzione civile sana e robusta” che non c’è, ad una “patria la più bella del mondo” ed a quant’altro di codeste amenità, che mi lasciano di stucco. Ma come è possibile che ci si dimentichi repentinamente di tutte quelle “storiedallitalia” che ci hanno e continuano ad avvelenarci la vita sociale, politica, familiare? Si dirà: ma è per esorcizzare il dolore di questi giorni, viva iddio! Ma quanto del dolore di questi giorni è causa principale proprio per quella mancanza di una “costituzione civile sana e robusta”? Ecco, la lettura che propongo – e che cade a puntino - tratta dal testo - nella quasi sua interezza - di Enrico Deaglio rende, nella sua storia contorta, abominevole e tutt’oggi oscura, di quella assoluta mancanza di una “costituzione civile sana e robusta” che questo disastrato paese non possiede, non ha mai posseduto e forse, mi sento di dire contro gli auspici dei tanti, non ci sarà mai neppure dopo il “coronavirus”. Leggere la prosa di Enrico Deaglio per restare saldamente con i piedi per terra, per non attendersi ingenuamente svolte repentine che pur necessiterebbero, non dimenticando come nel corso di altri disastri – L’Aquila ed il terremoto per esempio, con il giubilo di chi si apprestava ad arricchirsi nel momento (appena dopo) della tragedia – non si sia mai manifestata quella “costituzione civile sana e robusta” che in tanti oggigiorno accreditano e si accreditano. Ha scritto Enrico Deaglio: I segreti delle stragi di mafia che cambiarono l'Italia alla fine del secolo scorso? Una generazione di investigatori li ha cercati a Palermo, a Corleone, a Castelvetrano, in qualche ufficio del Viminale e persino al Quirinale... E invece erano qui, in un rosario di piccoli e splendidi paesi sulle rive del Lago d'Orta: Omegna, Borgomanero, Armeno, Orta San Giulio, Miasino; dove i principali protagonisti del Grande Mistero hanno passato i migliori anni della loro vita (non della nostra, però: era il terribile biennio 1992-1994) in allegre latitanze, falsi arresti, soggiorni in favolosi castelli, maneggiando somme di denaro da fare invidia ai Panama Papers. A raccontare tutto ciò, da una cella del 41 bis in cui è rinchiuso dal 26 anni, è il boss mafioso Giuseppe Graviano. La sua storia sembra venire dall'inferno; il suo racconto, proprio perché avviene fuori tempo massimo, spaventa e imbarazza. Dice che le stragi le volevano "gli industriali del Nord", dice che la sua famiglia era da sempre in affari con Berlusconi; dice che lui stesso, negli anni di cui si parla, faceva i suoi affari tranquillamente a Milano e abitava, in "favolosa protezione", a Omegna. Dice che ancora adesso non si capacita di essere stato arrestato, in un ristorante a Milano, dove cenava con il fratello Filippo e le due future mogli dopo una giornata di shopping. A proposito, era una giornata particolare quel 27 gennaio 1994: da poche ore Silvio Berlusconi aveva annunciato in televisione che scendeva in campo per salvare il Paese dai comunisti e quattro giorni prima il "malfunzionamento del telecomando" aveva impedito una immane strage di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma, in occasione di Roma-Udinese. Storia affascinante, non c'è dubbio. E così sono andato a Omegna, sperando di trovare qualche indizio: ne ho trovati fin troppi. Ma prima di parlare delle suggestioni che forniscono i luoghi e le carte geografiche, occorre introdurre Giuseppe Graviano. Chi è? Morti Riina e Provenzano, introvabile Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano si candida ad essere il Michael Corleone della saga del Padrino III. Benché chiusi nei bunker del 41 bis, lui e suo fratello Filippo hanno assicurato la continuazione della stirpe, ingravidando (con sesso o con provetta?) le rispettive mogli: gli eredi sono nati in Svizzera nel 1998. Giuseppe sta scontando nove ergastoli, ha 56 anni ed è secondogenito di Michele Graviano, ricchissimo boss mafioso, a sua volta erede di un'antica ricchezza palermitana. I Gravianos sono stati i padroni del quartiere Brancaccio e si dice che il loro patrimonio immobiliare abbracci mezza Palermo. Simbolo del loro potere, l'Hotel San Paolo Palace, 260 stanze, otto sale congressi, 12 piani, tutto l'attico riservato alla signora Vincenza Quartarano, madre di Giuseppe, moglie di Michele, figlia di Filippo Quartararo, il ricco commerciante di frutta e verdura che scommise su un giovane industriale milanese e gli prestò venti miliardi in cambio del 20 per cento di interesse. Quando, agli inizi degli anni Ottanta, scoppia la famosa guerra di mafia tra corleonesi di Riina e palermitani di Bontade (una vera guerra civile con più di mille morti per il monopolio del mercato dell'eroina, all'epoca la maggior voce del Pil italiano), i Gravianos sono presi in mezzo e Michele viene ucciso dai bontadiani. Il Brancaccio diventa un campo di battaglia. A reggere le sorti della famiglia viene chiamato il diciottenne Giuseppe, un timido diplomato in economia aziendale, in realtà un predestinato leader, addirittura soprannominato Madre Natura. Giuseppe ha un problemuccio: è stato condannato a cinque anni e quattro mesi nel maxi processo e quindi non può farsi troppo vedere. E ha una certezza: a uccidere suo padre è stato Totuccio Contorno, il famoso pentito, che la Procura di Palermo ha lasciato libero di condurre la sua personale guerra. Giuseppe Graviano non ha le forze sufficienti per controbattere militarmente; per cui sceglie un'altra strategia: trasferire la famiglia in Svizzera e lasciare le attività palermitane in franchising al suo clan; il quale, su suo ordine, per esempio, uccide nella parrocchia del quartiere, don Pino Puglisi, perché "sbirro". Giuseppe Graviano dalla fine del 1991 si stabilisce qui, a Omegna, la cittadina che chiude al nord il delizioso Lago d'Orta, città natale del poeta Gianni Rodari, terra di partigiani e industrie come Alessi, Lagostina, Bialetti, a due passi dalla Svizzera. Naturalmente oggi a Omegna, nessuno si ricorda di lui. Ma si possono ricostruire i suoi movimenti. Abitò, all'inizio, a casa di Salvatore Baiardo, omegnese con ascendenze palermitane, imparentato con il clan Graviano attraverso la moglie, consigliere comunale del Psdi, figlio di un rispettatissimo capostazione, gestore di negozi con il fratello Vincenzo. Poi andò a stare in un bell'appartamento sul lungolago, appena sopra alla Coop, dove adesso c'è il supermercato Savoini. Non temeva né di essere scoperto, né di essere ucciso. Introdotto da Baiardo come "un suo amico industriale", aprì un conto corrente nella banca locale, con un versamento di 90 milioni di lire. Aveva una vita sociale intensa, partecipava a pranzi e cene nell'Hotel San Rocco di Orta San Giulio, gite in barca, shopping; per incontri d'affari riservati sceglieva lo Zoo Safari di Alessandria e quando doveva andare a Milano, il fedele Baiardo lo accompagnava con la Mercedes 190. A Omegna andava anche a dare una mano nella sua gelateria, la storica Nuova Gelateria Pastore, nel centro della città, e di frequente lo venivano a trovare parenti ed amici: la sua fidanzata Bibbiana Galdi, suo fratello Filippo con la sua fidanzata Francesca Buttitta, la mitologica madre Vincenza, la sorella Nunzia, picciridda, che curava a Palermo gli affari di famiglia (e continua a farlo oggi, dalla Costa Azzurra). Poi venivano amici da Palermo che gli portavano soldi. Quanti? Secondo due che lo tradirono, almeno 20 miliardi da riciclare attraverso Marcello Dell'Utri e Flavio Carboni (Baiardo nega). Poi tutta l'allegra comitiva affittava grandi ville per passare le vacanze a Forte dei Marmi, in Sardegna, a Venezia, a Courmayeur o a Triscina (Trapani), nel residence dell'amico e socio Matteo Messina Denaro. Apparentemente, Giuseppe Graviano non aveva paura di essere ucciso: niente auto blindata, nessuna body guard; né di essere riconosciuto, e dire che la sua faccia era nei commissariati e il suo accento palermitano era piuttosto stridente in un luogo in cui si parla con una greve cadenza piemontese-lombarda. E non aveva paura di essere arrestato. Sarebbe bastato seguire qualcuno del clan: nessuno prendeva particolari precauzioni quando salivano al Nord a trovare Madre Natura. Tutto piuttosto strano, non trovate? Anche perché fuori scoppiavano bombe, crescevano nuovi potentati economico-finanziari, si preparavano nuovi partiti, e quelli vecchi crollavano per Mani pulite. Ma le stranezze maggiori devono ancora venire. La prima si chiama Balduccio di Maggio, l'ex autista del Capo dei Capi Salvatore Riina il cui arresto permise la più grande vittoria dello Stato contro la mafia. Di Maggio venne ufficialmente arrestato l'8 gennaio 1993, a Borgomanero. E dov'è Borgomanero? A una ventina di chilometri da Omegna. È proprio Graviano a raccontare la sua storia. Di Maggio stava lì per una questione di donne; sposato e con due figli, si era innamorato di Elisabetta Scalici, la donna di Giovanni Brusca (detto U verru), che competeva con lui per il potere nel paese di San Giuseppe Jato. Brusca non è un pivello: per capirci, è quello che ha premuto il telecomando nella strage di Capaci; chiede a Riina il permesso di ucciderlo, ma Riina - che è un uomo molto buono e democratico, secondo Graviano - lo impedisce. Riina e Graviano (che appartiene all'inner circle del Capo) gli consigliano di andarsene, e Graviano gli suggerisce di sistemarsi a Borgomanero, dove peraltro esiste un forte colonia di mafiosi siciliani che fanno recupero credito per industriali del Nord in difficoltà. Nell'ospedale locale, la signorina Elisabetta Scalici partorisce un bambino a cui viene dato il nome di Baldassarre, tanto per essere chiari. A quel punto, Baldassarre senior pensa che sia meglio rifarsi una vita e si offre al generale dei carabinieri Francesco Delfino. Lo conosce da anni, per la precisione dal 1987, quando l'allora colonnello Delfino alla guida di quattrocento uomini setacciò la sua villa hollywoodiana a San Giuseppe Jato, cercando Riina. E non deve fare molta strada, Di Maggio. Il generale Delfino è diventato di recente il padrone di una fantastica villa a Meina. E dov'è Meina, rinomata località sul Lago Maggiore? A quindici chilometri da Borgomanero. E con la geografia non è ancora finita. Il generale Delfino (morto nel 2014) ha avuto una lunga e misteriosa carriera, nell'Arma e ai vertici del Sismi, il servizio segreto militare. Tra le sue tante avventure, una lo vede come l'unico agente segreto italiano a visionare il cadavere di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano, trovato penzolante sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, anno 1982. Il Banco Ambrosiano, allora la più importante banca privata italiana, era caduto nelle mani della mafia siciliana ma Calvi aveva perso i loro soldi, ed era instabile di carattere. Quindi fu ucciso, con una bella scenografia. A strangolarlo fu tale Vincenzo Casillo, dirigente della camorra napoletana e membro coperto del Sismi. Il quale fu poi fatto saltare in aria a Roma, proprio di fronte alla sede del Sismi. A organizzare l'attentato fu Pasquale Galasso, dirigente della Nuova Famiglia associata a Cosa Nostra. Un tipo inconsueto, questo Galasso. Giovane, colto, simpatico, aveva ammassato un patrimonio di 1.500 miliardi di lire e aveva un debole per le splendide dimore. Arrestato nel 1992, si pentì subito. Lo misero agli arresti domiciliari, in una sua proprietà: un favoloso castello neogotico appartenuto ai marchesi Solaroli, a Miasino, di fronte all'isola di San Giulio, che dista cinque chilometri da Borgomanero e dieci dalla villa del generale Delfino. Insomma, erano tutti lì, in un fazzoletto intorno al lago. Graviano, Galasso, Di Maggio, Delfino, un bel concentrato di misteri mafiosi e finanziari dell'Italia moderna. Peraltro, Graviano ci tiene a dire che lui e Galasso si incontravano, passeggiando sul lungolago. Di che cosa parlavano, Graviano non dice. Ma ci ha tenuto a ricordare alcune cosette sull'arresto di Di Maggio. Racconta Graviano che era stato in giro tutta la notte con il fratello Filippo, le fidanzate, un certo Cesare Lupo di Brancaccio e il solito Baiardo, ed erano poi finiti a casa del Baiardo a giocare a poker, mentre le donne erano andate a dormire. Si ricorda che era inverno, che la casa di Baiardo era sulle pendici del monte Mottarone, che c'era la neve e che era prima del veglione di Capodanno 1992-1993. Si ricorda che, tra un piatto e l'altro, si fecero le sette di mattina e allora Baiardo scese a prendere dei cornetti per la colazione. (È tutto verosimile: la casa della moglie di Baiardo è ancora lì, frazione Brughiere di Omegna, dietro incombe il Mottarone e a cinque minuti a piedi c'è, e c'era anche 27 anni fa, una rinomata panetteria). E dunque Baiardo torna su con i cornetti e fa: "Oh, la sapete la notizia? Hanno arrestato Balduccio Di Maggio, sta parlando e lo tengono qui, in una villa di Omegna". Gli chiedono: "Scusi Graviano, ma a Baiardo chi l'aveva detto?". Graviano fa: "Oh, Omegna è un paese piccolo, tutti sanno tutto". L'udienza è quella del 21 gennaio scorso, una notizia che sarebbe stato molto utile sapere prima... Segue un imbarazzato silenzio, perché la narrazione ufficiale è diversa e dice che Di Maggio venne arrestato l'8 gennaio, che trattò la taglia e il racconto del bacio di Andreotti direttamente con il generale Delfino e che tutto venne tenuto segreto fino a dopo la teatrale messa in scena della cattura di Riina a Palermo, avvenuta il 15 gennaio 1993. Ma c'è di più: non so voi, ma se io fossi un capo mafia latitante a Omegna e il mio assistente mi avesse portato una notizia del genere, avrei detto: "Baiardo, facciamo le valigie di corsa perché qui l'aria si è fatta pesante". E invece no. E quindi, a pensar male, c'è da immaginare che davvero Graviano abbia goduto di una "favolosa protezione" per tutto il 1993, l'anno delle stragi in continente, forse per aver dato una mano, anche lui, alla vittoria dello Stato. C'è poi un'ulteriore stranezza. Quattro anni fa, Graviano aveva parlato - per settimane - con un compagno al 41 bis, tale Adinolfi, e naturalmente tutto era intercettato; anche allora aveva ricordato l'arresto di Di Maggio, sottolineando di averlo saputo subito e di avere immediatamente avvertito Riina, per il quale Graviano dice di avere una sorta di devozione filiale. Già, ma la comunicazione non funzionò, e Riina venne preso come un gonzo. Questa volta, invece, Graviano aggiusta il tiro: "Avrei potuto avvertire Riina". Diverso, non c'è dubbio. E anche piuttosto inquietante. Io, per esempio, avevo capito che Riina l'aveva fatto arrestare Ciancimino, all'interno della famosa "trattativa", un ciclopico atto d'accusa in cui ci sono tutti, da Mori a Mancino, da Scalfaro a Napolitano, ma - molto stranamente - mancano proprio i Gravianos. Avevo anche capito che sì, all'inizio si era indagato sui legami finanziari tra mafia e industriali del Nord, tema che era caro a Falcone e Borsellino; ma poi, con la loro uccisione, quella pista si era prosciugata. Poi avevo capito che Borsellino era stato ucciso da un ragazzotto del quartiere della Guadagna e anche lì i Gravianos non c'entravano niente. E invece... Adesso salta fuori questa storia dei cornetti, del veglione, della villa, dei soldi di Berlusconi, di un generale del Sismi... Forse è il caso che i nostri investigatori vengano qui a fare un sopralluogo. Si mangia bene - in zona c'è anche il ristorante dello chef star Antonino Cannavacciuolo; ci sono paesaggi meravigliosi e quest'anno è il centenario della nascita dell'omegnese più famoso: il poeta Gianni Rodari, su cui milioni di bambini, specie quelli figli di genitori di sinistra, hanno imparato a essere curiosi e a non esagerare con il culto del denaro. A tutti i segugi che verranno si consiglia vivamente uno dei più bei racconti di Rodari, C'era due volte il barone Lamberto, che narra la storia di un vecchio avaro che ha 24 malattie e 24 banche, un nipote farabutto e terribili banditi che lo rapiscono e chiedono un riscatto. Il tutto avviene sull'isola di San Giulio, in mezzo al Lago d'Orta, dove si è svolta anche la nostra fiaba. (…).

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