"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 20 marzo 2020

Ifattinprima. 52 «Trump equipara il benessere dell'economia con quello della Borsa».


Tratto da “Solo lo Stato ci può salvare” di Riccardo Staglianò, intervista al premio Nobel per l'Economia Joseph Stiglitz pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 13 di marzo 2020: (…). Tra le altre pessime cose, il coronavirus può essere letto anche come parabola avvelenata della globalizzazione? "Senz'altro. Intanto perché i virus, come il riscaldamento globale, non hanno bisogno di passaporto per fare il giro del mondo. Sono globali per definizione. (…). …quando la gente ha bisogno di essere protetta da rischi seri, si rivolge allo Stato, non certo ai privati".
Per poi scoprire che Donald Trump ha ridotto dell'80 per cento il budget dei Centres for disease control che dovrebbero fronteggiare l'emergenza... "Esattamente nel capitolo sulla prevenzione di epidemie globali. Ci voleva della geniale preveggenza per intaccare proprio quella spesa, e lui l'ha avuta. Aggiungo che questa vicenda fa risaltare anche i rischi di una presidenza mai così profondamente antiscientifica, basti pensare alla negazione del climate change. Mentre qui l'unica cosa che ci può salvare è la scienza e i fondi pubblici di cui ha bisogno".
La Banca centrale americana ha tagliato i tassi, ma non sembra essere bastato. Quali conseguenze prevede per l'economia mondiale? "È difficile dirlo. Lo scenario peggiore è quello con il 30-70 per cento della popolazione contagiata e con un tasso di mortalità dell'1-3 per cento. Significherebbe, nelle ipotesi migliori, due miliardi e rotti di contagiati e oltre venti milioni di morti. Ciò che si vede già, invece, è la rottura della catena dell'offerta di merci e anche di quella della domanda, in un'economia sempre più interconnessa che non può fare a meno della Cina. Se uno, come fa Trump, equipara il benessere dell'economia con quello della Borsa, allora si illude che la politica monetaria possa bastare, ma per la gente normale non è così. E se uno ha deciso di chiudere la fabbrica perché non ha più fornitori, non è che cambia idea per i tagli dei tassi".
Siete messi meglio o peggio del resto del mondo quanto a capacità di reazione? "Purtroppo peggio. Qui milioni di persone non hanno reti di salvataggio. Se un cameriere è malato e non può restare a casa perché altrimenti non guadagna, moltiplicherà il contagio. Idem per molte persone che non faranno i test per paura di doverli pagare o di far aumentare il premio dell'assicurazione".
Come succedeva da noi con gli immigrati clandestini, vittime di altre politiche autolesioniste. Ma entriamo nel vivo del libro. Nel sottotitolo lei parla di capitalismo progressista: è un eufemismo per socialdemocrazia? "(…). Tutto il lessico che ha a che fare con il socialismo da noi fa più paura. Ma socialismo significa una cosa precisa, ovvero proprietà pubblica dei mezzi di produzione e neppure Sanders se l'è mai lontanamente sognato. Quello che lui, io e la maggior parte dei candidati democratici intendiamo è offrire gli elementi di base di una vita decente: sanità, istruzione, casa, pensione".
È anche un libro dichiaratamente più politico del solito, perché? "Perché l'economia non vive in un vuoto. Una volta i repubblicani avevano una soluzione per tutto: abbassare le tasse ai ricchi. Ora ne hanno aggiunta un'altra: abbassare i tassi di interesse (facendo sempre contenti i ricchi che investono). Sono tutte opzioni politiche, con conseguenze economiche".

Che mondo è quello in cui il plutocrate Buffett chiede di pagare tasse più alte e nessuno, neppure i democratici, riescono ad accontentarlo? (…). "Dopo una lunga esitazione, ora i democratici concordano che le tasse dovrebbero essere più progressive. D'altronde il sistema attuale è quello per cui spendiamo il 18 per cento del Pil in sanità, ovvero il doppio della Francia, con servizi infinitamente peggiori. Se passassimo a un sistema pubblico risparmieremmo come minimo il 20-30 per cento. Eppure la risposta è: non ce lo possiamo permettere. Vuole un mondo più alla rovescia di così?".
Dagli anni 80 ovunque le tasse hanno cominciato a sembrare - anche in un Paese come il vostro che aveva un'aliquota marginale massima del 91 per cento sino al '63 - una specie di kryptonite politica. Come si cambia quell'attitudine? "Sta già cominciando a cambiare. Gli scandali tipo Panama Papers hanno mostrato la vastità dei paradisi fiscali, oppure quello di Apple che in Irlanda pagava lo 0,005 per cento di tasse. Per non dire dello stato pietoso delle nostre infrastrutture, del sistema di istruzione non affatto adeguato a un Paese del primo mondo. Alla fine la gente unisce i puntini e capisce che, forse, se si pagassero più tasse, si potrebbero aggiustare molte cose".
Un altro problema che affronta è l'enorme concentrazione dell'economia, addirittura peggiore di quella degli inizi del XX secolo. Con le cinque principali aziende tecnologiche che da sole costituiscono circa un quinto del mercato americano. Perché non è un bene? "Perché troppo potere nelle mani di pochi distorce il mercato, fa aumentare i prezzi, intralcia l'innovazione e, alla fine, aumenta la disuguaglianza. Se l'innovazione si limita a creare la maniera più efficace di allocare la pubblicità online, come fa Google, questo arricchisce poche persone, non la collettività. Tantomeno se, come nel caso di Facebook, lo stesso talento addirittura mina la nostra democrazia. Bisogna regolare queste aziende, fino all'estremo proposto da Elizabeth Warren, ma non solo, di spezzettarle per ristabilire un terreno di gioco più sano".
Tutto, alla fine, riporta al suo bersaglio grosso: la disuguaglianza, sempre più acuta anche fuori dagli Stati Uniti. Che fare? "Bisogna intervenire sulla cosiddetta predistribuzione, ovvero sul modo in cui si formano i redditi, alzando quelli minimi e ridando potere ai sindacati e agli organismi antitrust. Poi potenziare la redistribuzione, eliminando la regressività fiscale e gli sconti fiscali di cui si sono avvantaggiati i ricchi, fino a pensare a serie patrimoniali sulle grandi fortune. Infine lo Stato deve garantire gli elementi minimi per la vita decente di cui parlavamo prima. Per questo dovrà avere un ruolo più importante".
Ma ciò si infrange contro un altro tabù. Ricorda le nove parole più terrificanti secondo Reagan? "Lavoro per lo Stato e sono venuto per aiutare". "Era quarant'anni fa e, ormai, non c'è più dubbio che la trickle down economics, per cui gli sconti fiscali ai ricchi dovevano provocare un dinamismo che alla fine sarebbe sgocciolato positivamente sui poveri con la creazione di nuovi lavori, abbia fallito".
Tuttavia la riforma fiscale di Trump del 2017 replica quello schema. Così come l'idea di una flat tax al 15 per cento che il leader della Lega Nord ha sbandierato da noi. "Ne ho sentito parlare. È stupefacente che qualcuno ancora ci creda. La crescita, dopo un piccolo balzo subito seguito ai tagli reaganiani, si è assestata su circa un terzo in meno rispetto a quelle che si registravano prima. Né la Banca mondiale né il Fondo monetario internazionale lo mettono più in dubbio. Basta guardare i numeri".
A uno sguardo superficiale, però, lei e Trump condividete almeno un punto: la critica alla globalizzazione, o sbaglio? "È corretto, ma da prospettive completamente diverse. Lui ritiene che la globalizzazione sia stata pensata contro l'America, che invece - e ovviamente - era il suo più potente sponsor. Mentre io sostengo che abbia fatto danni a molti lavoratori per arricchire pochi imprenditori. Per non dire dei rimedi. Trump immagina un nuovo protezionismo, come quando mette dazi sui componenti delle auto che vengono dal Messico. Così facendo, tutela la componentistica statunitense ma allo stesso tempo fa aumentare il costo finale delle auto, danneggiando quell'industria. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Ma il presidente ha una profonda ignoranza dei meccanismi economici".
Eppure lo votano, come del resto Salvini da noi. Evidentemente anche la sinistra deve fare autocritica. Compresa la terza via di Clinton che si innamorò della globalizzazione e deregolamentò la finanza. Lei ne era consigliere economico: ha qualcosa da rimproverarsi? "Sui rischi della globalizzazione io e altri consulenti economici raccomandammo di mettere in piedi da subito dei correttivi per alleviare le sue conseguenze sociali su molti lavoratori. Alla fine il presidente si convinse che, anche senza quei correttivi, i vantaggi sarebbero stati superiori agli svantaggi. L'errore più drammatico riguarda però l'abolizione del Glass- Steagall Act che separava le banche dalle banche d'affari e la deregolamentazione dei derivati che, poi, ci hanno regalato la crisi del 2008. Scelte catastrofiche che portano la firma di Alan Greenspan, Robert Rubin, Larry Summers: io non ero già più della partita. Comunque sì, anche i progressisti hanno responsabilità".
L'ultimo cavallo di battaglia è il green new deal, la transizione ambientalmente sostenibile: è realistica? "Sì, e necessaria. È stato calcolato che abbiamo già perso il 2 per cento del Pil per eventi estremi legati al cambiamento climatico. E dobbiamo smettere di pagare miliardi in sussidi alle energie fossili. Con questi risparmi, e con quello che otterremo da tasse mirate come la carbon tax contro chi inquina e la Tobin tax sulle transazioni finanziarie, potremo finanziare la transizione e creare molti nuovi lavori che bilanceranno quelli che l'automazione rischia di far fuori. Anche qui, dipenderà tutto dalle scelte politiche".
Per questo serve uno Stato forte? "Sì, perché è un progetto ambizioso, che prevede tempi più lunghi di quelli concepibili dai privati. E che parte da una semplice constatazione: un'economia che ha accumulato oltre un trilione di dollari di debito pubblico, peggiorato proprio per avvantaggiare i ricchi, con una crescita inferiore al 2 per cento, nonostante i tassi bassi è il contrario di un'economia in salute".
Sanders lo dice, ma non è il solo. Come lo vede piazzato? "Le previsioni politiche sono le uniche forse ancora più difficili di quelle economiche. Lui vincerà in California mentre Biden prenderà il grosso degli altri Stati. La vittoria che Sanders ha già ottenuto è di aver spostato a sinistra il Partito democratico. Al suo interno ormai c'è un ampio consenso, ad esempio, su tasse più progressive. E non è un cambiamento da poco". (…).

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