"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 19 febbraio 2020

Strettamentepersonale. 27 «Figli un po' di Umberto, tutti noi: della sua logica, del suo metodo e soprattutto del suo rigore».


19 di febbraio dell’anno 2016: moriva Umberto Eco. Mi trovavo allora in Milano e la ferale notizia si diffuse rapidamente per quell’affannata metropoli ove tutti corrono come disperatamente. Albergavo nella zona di Certosa ma mi portai rapidissimamente nella zona del Castello Sforzesco nella quale sapevo si trovasse l’abitazione del Grande. Non ricordo più per quanto tempo abbia gironzolato per quella zona della città, come a voler percepire l’aura ultima di quel Grande che non c’era più. Tanta era stata la mia emozione alla notizia di quella dipartita. Quattro anni senza Eco. Sono tanti. Di seguito “Il ritorno a casa di Umberto Eco” di Roberto Cotroneo, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 31 di luglio dell’anno 2019: Alessandria - È tutto qui intorno il mondo giovanile di Umberto Eco. In uno spazio che lui ha saputo ripercorrere come fosse un luogo dilatato e leggendario. Si pensi solo al racconto dell'amico visto per l'ultima volta in Piazza Garibaldi, e che sarebbe morto sotto un bombardamento. Al modo in cui ha raccontato una piazza grande ma non così smisurata come la descrive lui, come fosse un'epifania. Si pensi a questi due fiumi, il Tanaro e la Bormida, su cui è riuscito a tessere un racconto che ha portato a un ritratto antieroico di Alessandria, in tempi di retorica e di falsi eroismi. Si pensi a queste strade, a questa Biblioteca Civica con molti codici e incunaboli e libri preziosi che ha frequentato anche lui. E a qualche centinaia di metri c'era la libreria di Cesarino Fissore, il suo amico libraio, poco più giù abita Gianni Coscia, compagno di scuola e amico di una vita intera. Si pensi a quella piazza che qui ancora chiamano tutti piazza Genova, toponomastica di prima dell'ultima guerra, ora piazza Matteotti, dove Umberto giocava bambino con fionde e battaglie estenuanti e si faceva appunto chiamare ironicamente: "Il terrore di piazza Genova". E ancora facendo qualche centinaia di metri in più, forse un chilometro, si arriva al convento dei frati, dove ancora oggi si recita Gelindo, e poco distante la farinata di Savini, una sua passione. Sono ricordi di Umberto, sono ricordi di tutti, qui. Anche se oggi non saprei, perché lo spirito dei luoghi scompare assai più velocemente di un tempo. Ed è soprattutto per questo che servono i monumenti: più che a celebrare aiutano a innescare i ricordi, a non dimenticare, a ritornare persino. (…). E non c'è speranza senza storia e memoria. Sono passati poco più di tre anni dalla scomparsa di Umberto Eco, da quel 19 febbraio 2016. Tre anni da quella cerimonia al Castello Sforzesco di Milano dove hanno parlato in molti, ricordandolo, ma anche raccontando quello che ci lasciava e le cose di cui avremmo dovuto far tesoro. Ma è da qui che bisogna partire per capire cosa manca della sua voce oggi. Quel vero mondo del nord, fantasioso e solido, acuto e senza eccessi. Fulmineo e silenzioso. Quel nord di radici solide, di poche parole, di concretezza che ancora percepisco per queste strade. Come un filo che non si interrompe, perché erano le sue strade come le mie. Umberto ha mantenuto un legame con questa città per tutta la sua vita. Tornava per gli amici, quasi sempre in forma privata, soprattutto dopo che il successo de Il nome della rosa, lo aveva trasformato nell'intellettuale più richiesto al mondo. Era costretto a difendersi da una popolarità che certo non si aspettava alla soglia dei 50 anni. Ma tornava qui e ricordava, amava i suoi luoghi, a cominciare dal suo liceo, quello ancora intitolato a Plana, ma che nel futuro, rotto oggi finalmente il ghiaccio, potrà essere intitolato a Umberto. Perché i ragazzi di questa città, che mai leggeranno i testi scientifici ma desueti del Plana, potranno cercare i libri di Eco e cominceranno a leggerlo. Se Eco era figlio di questo luogo, di Alessandria, e lo era profondamente, allora per noi ragazzi, cresciuti in una città senza miti, grigia, nebbiosa e meno attraente di altre, sapere che se da un posto del genere era uscito un tipo come lui, beh allora non tutto era perduto. Si parla spesso di Eco come geniale inventore di calembour, paradossi, giochi linguistici. Era un uomo divertente perché non perdeva mai di vista il senso delle cose che faceva. Sosteneva sempre: divertirsi sì, ma con serietà. Ma aveva una capacità di comprendere le cose che non aveva paragoni. Senza compiacimenti, senza farla troppo lunga, senza mettersi la divisa da intellettuale, da scrittore, da professore: perché non ne aveva bisogno. Uno che aveva capito come nessuno le derive della nostra società. Il destino di questo paese. Senza atteggiarsi a profeta, che non era e non voleva essere. Ma proprio qui, davanti a questo monumento a Umberto che vigila sul tesoro di libri che questa città ha messo assieme in tanti anni, io voglio ricordare le parole di Eco in un suo vecchio articolo dedicato a questa città, alla sua città.
Un articolo che alcuni ricordano, e molti altri, specie i più giovani, devono imparare a conoscere per combattere questo mondo fatto solo di presente, questo mondo che pretende di fare a meno della memoria, delle parole, della storia e della letteratura. "Alessandria è una città senza ideali e senza passioni. Nell'epoca in cui il nepotismo era una virtù, Pio V, papa alessandrino, caccia i parenti da Roma e dice che si arrangino; abitata per secoli da una ricca comunità ebraica, Alessandria non trova neppure l'energia morale per diventare antisemita e si dimentica di obbedire alle ingiunzioni dell'Inquisizione. Gli alessandrini non si sono mai entusiasmati per nessuna Virtù Eroica, nemmeno quando questa predicava di sterminare i Diversi. Alessandria non ha mai sentito il bisogno di imporre un Verbo sulla punta delle armi; non ci ha dato modelli linguistici da offrire agli speakers radiofonici, non ha creato miracoli d'arte per cui far sottoscrizioni, non ha mai avuto nulla da insegnare alle genti, nulla per cui debbano andar fieri i suoi figli, dei quali essa non si è mai preoccupata di andar fiera...". Ma concludeva, come soltanto lui sapeva fare: "Sapeste come ci si sente fieri nel riscoprirsi figli di una città senza retorica e senza miti, senza missioni e senza verità". Ma anche figli un po' di Umberto, tutti noi: della sua logica, del suo metodo e soprattutto del suo rigore.

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