"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 2 gennaio 2020

Lalinguabatte. 90 «Tra l’ateo e il cristiano è possibile un agire comune».


Ove si parla, oggi, dei mitologici “ircocervi”, etimologicamente dal latino “hircocervus”, lemma composto da “hircus”, ovvero caprone e “cervus”, ovvero cervo, che designa per l’appunto un animale che nessuno ha mai visto e del quale può mitologicamente azzardarsene l’esistenza. “Tragelafo” viene anche denominato e descritto come “avente corna di cervo, e il mento irto per la lunga barba, spalle pelose…etc. etc.”.
Anche il grande Aristotele ne fece cenno nel suo “De interpretazione” a voler significare, concordemente con il grande Platone del “Sofista”, che un lemma di per sé non ha valore di verità o falsità. E fu lo stesso Aristotele che negli “Analitici secondi” utilizza l'immagine del mitologico animale per sostenere che è possibile sapere cosa si intenda con “ircocervo” ma non risalire alla sua essenza, ovvero sapere cosa realmente esso sia. Ma sull’”ircocervo” ebbe a disquisire anche il grande Boezio nel suo “De Interpretatione” ove si perviene alla conclusione di come la scelta di un lemma provvisto di significato, nella commistione nell’”ircocervo” di due diversi esseri viventi in un unico animale,  riferito il lemma a una cosa inesistente, consenta di ragionare sull'inesistenza delle categorie di vero e falso quando le stesse siano applicate al lemma nella sua assolutezza e non al suo essere privo di senso, un non-senso, un controsenso per l’appunto. E fu il grande Guglielmo di Ockham nei suoi “Scritti filosofici” a riprendere autorevolmente l'immagine dell'”ircocervo” per affermare l’assoluta necessità di rivolgere le intelligenze e le attenzioni alle cose concrete e non all'astratto, cercando di rappresentare la realtà con semplicità e immediatezza. Questo è quanto sull’”ircocervo”. Per dire che quella figura mitologica mi si è rappresentata inopinatamente, subdolamente e vividamente nella mente pensando alla condizione propria dei tanti tantissimi cattolici nel bel paese. Gli  “ircocervi”. Come quel mitico essere vivente, loro per metà fedeli e per metà cittadini. Con un insanabile conflitto ideologico o solamente di idee. Con una “religiosità” della vita sonnacchiosa, accomodante. Non valgono, tra i tanti di quegli “ircocervi”, il non rubare biblico, il non desiderare la donna altrui e così seguitando. Zero negli ammaestramenti dell’uomo di Nazareth. Tanto da avere annacquato la loro moralità da assecondare il successo in questo derelitto Paese di una delle televisioni commerciali più becere dell’intero globo terracqueo. “Ircocervi”, che di fronte al degrado della moralità di chi dovrebbe avere a cuore la conduzione della cosa pubblica hanno fatto finta di nulla, hanno fatto strame della propria identità religiosa e confessionale. Ai cattolici del bel paese si rivolgeva il 26 di agosto dell’anno 2010 – sembra passata un’eternità, ma ci si ritrova al giorno d’oggi come allora - Paolo Flores d’Arcais con un editoriale pubblicato su “il Fatto Quotidiano” che ha per titolo “Cosa chiedo a (certi) cattolici”, che di seguito trascrivo in parte. Restringe il campo del Suo appello, l’illustre opinionista, a “certi” cattolici. Ma si ha un gran da faticare a trovare quei “certi cattolici” che non siano indifferenti alla cosa pubblica ed abbiano a cuore le sorti della democrazia nel bel paese: (…). Un ateo e un credente sono separati dalla fede, ovviamente. Per te, amico cristiano, questa vita è solo un passaggio, un preludio alla vita futura che non avrà mai fine, e quanto avviene nella storia umana, e anzi nell’intera vicenda del cosmo, dal big bang in avanti, ha un senso e uno scopo, nasce dalla volontà di Dio. Per me tutto si gioca e si conclude nella finitezza dell’esistenza, la mia morte sarà come quella di una qualsiasi altra scimmia, di un qualsiasi altro organismo. Tutto tornerà come era prima che nascessi, il mondo senza di me e io nel nulla. Un mondo che non ha alcun senso, che è nato dal caso: il senso, alla vita individuale e collettiva, dobbiamo provare a darlo noi, se ci riusciamo. Ma proprio a partire da qui, tra l’ateo e il cristiano è possibile assai più che alleanze e convergenze, è possibile un agire comune. Cristiano è infatti in primo luogo – o almeno dovrebbe, se la parola vuole avere un senso – colui che ascolta e cerca di applicare il messaggio di Gesù di Nazareth codificato nei vangeli. Dove – aprendo una pagina a caso – viene ricordato che il primo dovere di chi ha fede è quello di stare dalla parte degli ultimi, di dare al povero la metà del proprio mantello, perché è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che per un ricco si apra la porta del paradiso. Dove il Gesù dell’amore e della mitezza diventa furia di intolleranza solo con i mercanti del tempio, perché trasformano un luogo dello spirito in una spelonca di ladri, e con chi dà scandalo ai piccoli, perché sarebbe meglio che si gettasse in mare con una macina al collo, e con i farisei e chi non parla secondo “il tuo dire sia sì sì, no no’, perché ogni ‘di più viene dal maligno”. Per un ateo, se democratico, e per un credente, se cristiano, l’impegno comune dovrebbe perciò essere la cosa più semplice ed ovvia del mondo. Caro amico che credi in un Dio crocefisso e risorto, sul piano filosofico avremo sempre difficoltà a capirci. Io trovo assurdo che tu possa immaginare che non morirai mai, tu trovi che la mia vita, priva di trascendenza, sia irrimediabilmente impoverita. Ma sul piano civile, della nostra esistenza in comune, nulla ci divide. Uno dei comandamenti dice infatti ‘non ruberai’, (…). Ama il prossimo tuo come te stesso, è la sintesi che quel profeta ebreo di Galilea offre per il suo insegnamento. Quel prossimo che è l’immigrato esattamente e anzi più dei fratelli o del padre e della madre (che nei vangeli Gesù tratta tutti più volte con sprezzante durezza). Gesù fa appello alla coscienza di ciascuno, non all’obbedienza verso le autorità, verso i sommi sacerdoti di una Chiesa gerarchica che non si è mai sognato di fondare (la chiesa per Gesù è solo il riunirsi di chi ha fede in agape fraterna). Il messaggio terreno di Gesù è un messaggio di giustizia e di libertà. Tra i più radicali, e perciò divenuto paradigmatico di tante rivolte. Il messaggio della Chiesa gerarchica che pretende di avere in monopolio le chiavi della volontà di Cristo è invece divenuto, nei momenti cruciali della modernità, un diktat di obbedienza, volto fin troppo al mantenimento del privilegio. Mentre il padre degli Stati Uniti d’America, Thomas Jefferson, proclama il ‘muro di separazione’ tra chiese e democrazia, tra politica e religione, e in nome non solo dei liberalismo di Locke ma anche della morale di Gesù (…), i papi si esercitano nell’anatema contro l’autonomia che gli esseri umani cominciano a rivendicare. Questa divaricazione della fede percorre tutta la modernità, ed è oggi più che mai presente. C’è infatti la fede di monsignor Romero, martirizzato dagli squadroni della morte delle oligarchie, e quella di Karol Wojtyla che si affaccia insieme a Pinochet da un balcone (e che mette sullo stesso piano la donna che abortisce e l’SS), come ci fu ieri quella di Bonhoeffer, impiccato per resistenza al nazismo, o di don Minzoni, trucidato dal fascismo, e quella di Pio XII, corrivo verso l’uno e l’altro. Non sempre la contrapposizione è così netta, ovviamente. E talvolta i due modi di vivere la fede si intrecciano e alternano nella stessa persona. Non possono però mai conciliarsi fino in fondo. I valori del vangelo o la supremazia della gerarchia: ogni credente, alla fin fine, compie una scelta. Il cristianesimo di chi decide il primo corno, quello di tanti preti di strada e delle loro associazioni di volontariato, è per molti di noi, atei democratici, una lezione quotidiana di coerenza. Pochi di noi trovano il coraggio di vivere radicalmente i valori di giustizia e libertà fino a quel punto di generosità e abnegazione. E sono proprio queste persone di fede che, in genere, praticano anche una rigorosa laicità, considerano forse peccato l’aborto o l’eutanasia, ma peccato ancor più inammissibile pretendere di negarlo con la violenza della legge a chi peccato non lo considera. Con questi credenti, che spero siano sempre di più, ci aspettano mesi di impegno senza risparmio, sotto la comune bandiera di chi vuole realizzare la nostra Costituzione nata dalla Resistenza. Contro coloro che vogliono assassinarla.

1 commento:

  1. Carissimo Aldo, ti sono grata per questo post così ricco di profondi spunti di riflessione. L'uomo in quanto tale, credente o non credente, possiede dentro di sé principi morali che possono, se egli riesce ad ascoltarli, illuminare le sue scelte su cosa fare o non fare, per conseguire, attraverso un'autentica umanizzazione, un progresso sociale e politico. Il vero problema, secondo me, è essere impegnati in una ricerca spirituale che conduca a una piena e autentica umanizzazione. È possibile la via della spiritualità per credenti e non credenti, se la si intende come vita interiore profonda che conduce all'impegno e alla ricerca di un modo di vivere che abbia come obiettivo il bene di tutti. Si tratta di una spiritualità che si nutre dell'esperienza dell' interiorità, una spiritualità che conosce l'importanza della solitudine, del silenzio, del pensare, del meditare. Una spiritualità che va incontro all'altro e lo accoglie senza timore. Grazie ancora e buon lavoro. Agnese A.

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