"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 3 gennaio 2020

Dell’essere. 17 «Era mio padre, operaio al reparto presse. Odorava di dignità».


Cosa interessa oggi della vita di un padre? Non ho una risposta. Né mi pare di possedere parametri accettabili che mi aiutino a dare sostanza ad una risposta esaustiva. Per esperienza diretta e per le tante esperienze indirette la vita di un padre è preziosa oggigiorno nella misura in cui essa offre e garantisce benessere, adeguata posizione sociale, una tranquillità economica che vada oltre il necessario e che contempli, come indispensabile, il superfluo. Mi sono chiesto, in tante occasioni, cosa ne sappiano i figli della storia dei padri. Nel deserto dei sentimenti e delle relazioni interpersonali, nella massificazione dei costumi ma soprattutto delle coscienze, nella melassa sociale indistinta nella quale tutto è compatibile ma non comprensibile, la storia di un uomo, che sia pure padre, assume un senso solo se essa garantisce le illusorie ricchezze materiali di cui sopra. Nella mortificazione e nell’obnubilamento delle coscienze non troverebbe, o non trova, spazio alcuno la considerazione per un padre che avesse speso la sua vita per ben altri ideali e per altre motivazioni che non fossero compresi nel recinto angusto, umanamente parlando, delle fuggevoli aspirazioni dell’oggi. Il capitalismo della globalità è stato capace anche di questo; come i predatori di un tempo, che fecero la storia della colonizzazione del pianeta chiamato Terra, il depredamento globale ha comportato non solo la “rapina” delle risorse del sottosuolo, delle acque e dell’aria, ma soprattutto la “rapina”, inconsapevole per i più degli umani, di una coscienza, e perché no, di una “coscienza di classe”, detto e sentito senza vergogna e timore alcuno, per ritornare nell’uso, caduto da decenni nell’oblio, di un concetto che è stato l’essenza prima dell’essere di tanti degli umani.
Di quell’essenza, di quella “coscienza di classe”, ne ho ritrovato traccia, e quale traccia, nella bella lettera scritta da Luca Mazzucco e pubblicata sul quotidiano l’Unità del primo di agosto dell’anno 2010 col titolo “Mio padre, 35 anni alle presse. Senza perdere la dignità…”.  Giusto, senza perdere la dignità di umani, senza barattare per un piatto di lenticchie le conquiste dei padri; giusto per tentare di fermare la “rapina” delle coscienze: Ero nato da poche ore e l’ho visto per la prima volta, era alto, bello, forte e odorava di olio e lamiera. Per anni l’ho visto alzarsi alle quattro del mattino, salire sulla bicicletta e scomparire nella nebbia di Torino in direzione della Fabbrica. L’ho visto addormentarsi sul divano,distrutto da ore di lavoro e alienato dalla produzione di migliaia di pezzi tutti uguali imposti dal cottimo. L’ho visto felice, passare il proprio tempo libero con i figlie la moglie. L’ho visto soffrire, quando mi ha detto che il suo stipendio non gli permetteva di farmi frequentare l’università. L’ho visto umiliato quando gli hanno offerto un aumento di 100 lire per ogni ora di lavoro. L’ho visto distrutto quando, a 53anni, un manager della Fabbrica gli ha detto che era troppo vecchio per le loro esigenze. Ho visto manager e industriali chiedere di alzare sempre più l’età lavorativa, ho visto economisti incitare alla globalizzazione del denaro ma dimenticare la globalizzazione dei diritti, ho visto direttori di giornali affermare che gli operai non esistevano più, ho visto politici chiedere agli operai di fare sacrifici per il bene del paese, ho visto sindacalisti dire che la modernità richiede di tornare indietro. Ma mi è mancata l’aria, quando lunedì 26 Luglio 2010 su «La Stampa» di Torino ho letto l’editoriale del Prof. Mario Deaglio. Nell’esposizione del professore i «diritti dei lavoratori» diventavano «componenti non monetarie della retribuzione», la difesa del posto di lavoro doveva essere sostituita da una volatile «garanzia della continuità delle occasioni di lavoro», ma soprattutto il lavoratore, i cui salari erano ormai ridotti al minimo, non necessitava più del «tempo libero in cui spendere quei salari», ma doveva solo pensare a soddisfare le maggiori richieste della controparte (teoria ripetuta dal Prof. Deaglio a Radio24 tra le 17.30 e le 18.00 di Martedì 27 Luglio 2010). Pensare che un uomo di cultura, pur con tutte le argomentazioni di cui è capace,arrivi a sostenere che il tempo libero di un operaio non abbia alcun valore perché non è correlato al denaro mi ha tolto l’aria. Sono salito sull’auto, costruita dagli operai della Mirafiori di Torino. Sono corso a casa dei miei genitori, l’ho visto per l’ennesima volta. Era curvo, la labirintite, causata da milioni di colpi di pressa lo faceva barcollare, era debole a causa della cardiopatia, era mio padre, operaio al reparto presse per 35 anni in cui aveva sacrificato tutto, tranne il tempo libero con la sua famiglia, quello era gratis. Odorava di dignità.

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