"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 27 dicembre 2019

Strettamentepersonale. 26 «Gli inganni dell'io».


Ha scritto Umberto Galimberti in “Gli inganni dell'io”, pubblicato su di un supplemento al quotidiano “la Repubblica” dell’8 di maggio dell’anno 2010: Recita la sapienza greca: - Chi conosce il suo limite non teme il destino -. Incominciamo a dire che, a differenza di tutti i mammiferi, ma qui potremmo dire anche di tutti gli animali, gli uomini non hanno istinti, ma solo pulsioni a meta indeterminata. Non potremmo altrimenti concederci a tutte le perversioni, cosa che non sembra sia concessa agli animali, e tantomeno alle sublimazioni che consentono di trasformare una pulsione sessuale in un'opera poetica o d'arte. Grazie a questa indeterminatezza biologica, l'uomo è libero. La libertà, infatti, non scende dal cielo, ma dipende dal fatto che l'uomo non è codificato da istinti, che sono risposte rigide agli stimoli. In questo modo abbiamo fatto un po' d'ordine tra le illusioni dell'uomo che trae vanto della sua libertà e di tutte le creazioni che la libertà gli concede. Tra queste, la più potente, la più significativa è quella che abbiamo chiamato io, che di fondo, come dice Derrida, è solo uno pseudonimo con cui cerchiamo di tenere a bada quel baccano indiavolato di demoni che ci abitano. Quando ci riusciamo, affidiamo all'io il compito di costruire la nostra biografia, nella ricerca disperata di un senso che la morte sconfigge, riportandoci alla nostra vera realtà che è poi quella di essere semplici funzionari della specie, la quale ci fornisce per un certo tempo una sessualità per la procreazione e un dose di aggressività per la difesa della prole. Finché la morte non azzera tutti i nostri progetti, riconducendoci alla verità che il nostro io ha cercato in tutti i modi di tenerci celata, per consentirci di vivere per il tempo che ci è stato concesso. La nostra morte, quella che non riusciamo mai a pensare, quella per cui un paziente di Freud, un giorno ebbe a dirgli: - Ho fatto un patto con mia moglie. Quando uno di noi due morirà, io vado a Parigi -. Inganni dell'io, inganni d'amore che noi pensiamo sempre rivolto agli altri, quando invece è sempre amore di sé. Ed è per il terrore che ci incute l'idea di perdere l'amore che abbiamo durante la vita maturato per noi stessi, che ci atterrisce la morte. Diventare consapevoli di tutto questo non induce alla disperazione (sentimento appropriato a tutti quanti hanno sperato, esagerando nel loro desiderio al di là della condizione umana), ma piuttosto alla consapevolezza del proprio limite, attenendosi al quale, come dice la Sapienza greca, non si teme il destino. Quanta più grande bontà circolerebbe se non cadessimo vittime della tracotanza dell'io e quanti inganni d'amore eviteremmo se diventassimo consapevoli della sua caducità come caduca è la nostra vita. Solo da queste premesse può nascere l'entusiasmo nei momenti alti della nostra esistenza e la capacità di sopportare il dolore che ci consegna alla nostra ineludibile mortalità. Del resto, ce lo ricorda Nietzsche, se riuscissimo a immaginare “il giorno in cui si spegnerà quella stella dove ha fatto la sua comparsa l'uomo, ci renderemmo conto che fu l'attimo più tracotante e menzognero della storia dell'universo, perché in quell'attimo l'uomo pensò che i cardini dell'universo ruotassero intorno a lui”. È stato rileggendo la dotta riflessione del professor Galimberti, che ho prima trascritto nella sua interezza, che mi sono ricordato di un incontro fatto tanti anni or sono nel mezzo, come poeticamente potrebbe dirsi, della “mia giovinezza” che è trascorsa oramai. E ripassano nella mia mente quelle straordinarie parole di allora allorché, stupefacendomi, quel mio canuto interlocutore ebbe a dirmi – sarebbe giusto che nella nostra vita non si facessero promesse – aggiungendo subito dopo, scoprendo forse il mio stato di enorme sorpresa suscitato da quelle Sue parole, - poiché più che le promesse sarebbe bene nella nostra vita farci carico dei desideri dell’altro e delle persone amate e quei desideri realizzarli senza avere promesso nulla -. È stato per questo che nella mia vita ho cercato, forse non riuscendoci sempre ed appieno, di indovinare i desideri delle persone care o a me vicine facendomene carico senza apparirne il realizzatore. È stato un bell’esercizio per il mio ”io”. Un “io” al quale mi è stato difficile, nel corso degli anni, sottrarre il mio vivere quotidiano. È accaduto anche che le onerosità della vita, le convenienze sociali, la condizione alla quale tendo d’istinto di “cittadino riflessivo”, abbiano posto sotto ferreo controllo quell’”io”, lo abbiano spesso “ristretto” in ambiti angusti affinché concedesse l’emergere degli altri “talenti”, seppur ce ne fossero, che la mia realtà psico-fisica, al di là della pura e semplice mia complessione, doveva pur contare. È spesso accaduto. Ma l”io” latente, ristretto e/o costretto, non ha tardato a farsi sentire, a porsi in seria competizione/lotta con quella parte del mio essere che per educazione, cultura, esercizio o quant’altro lo aveva posto nelle condizioni di non esorbitare occupando nella sua interezza la mia esistenza, condizionandone il rapporto con gli altri o meglio con il “prossimo” tutto. Non nascondo i tormenti derivanti a seguito dell’intestina violenta lotta tra quell’”io” tante volte mortificato, combattuto e costretto a starsene buono buono affinché fossero soddisfatte le richieste e le necessità derivanti dalla onerosità propria del vivere o dall’impegno mio per una cittadinanza attiva e responsabile, e la razionalità propria dell’essere portatore fortunato di quei pochi “talenti”, che ha cercato caparbiamente di mettere in atto, nel quotidiano,  quelle parole di vita che sono state come una flebile ma non spegnibile  fiammella nel non sempre facile percorso della vita.
Non sempre la lotta intestina ha avuto il risultato voluto o sperato. In tante occasioni quell’”io” mortificato e sottoposto alla più ferrea vigilanza dai “talenti” della ragione ha avuta vinta la sua battaglia, ha avuto il suo sopravvento non senza lasciare tracce profonde e laceranti nel mio essere. E negli altri pure, la qualcosa mi arreca oggigiorno ancora un grande perenne affanno.

2 commenti:

  1. Carissimo Aldo, questo meraviglioso post affronta un tema che considero molto importante. Sarebbe un mondo perfetto se ciascuno di noi solo provasse a farsi "carico dei desideri dell'altro e delle persone amate e quei desideri realizzarli..." Ma, come tu sai perfettamente, è una scelta che implica un impegno serio e costante, volto a tenere a bada quella parte di noi stessi che sempre prepotentemente vuole avere il predominio su tutto e su tutti. È un impegno serio che pochi, pochissimi si sentono di assumersi, solo i più forti e coraggiosi, coloro che sanno morire, perché di morte si tratta, della morte di noi come eravamo, per rinascere come esseri umani nuovi, degni veramente di tale nome. Non sempre riusciamo a morire e a rinascere, ma, per esperienza personale, so che è un "esercizio" che serve sicuramente a renderci migliori, più forti e felici, sempre se tutto parte da una nostra libera scelta. Grazie del tuo quotidiano e ammirevole impegno a condividere questi preziosi scritti. Agnese A.

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  2. Rileggo spesso questo tuo "prezioso"post e condivido con piena convinzione quanto tu sostieni,Carissimo Aldo!La meta da raggiungere prevede una strada in salita, ma per chi si è esercitato durante tutta la vita, sarà più probabile giungere in cima.Credo fermamente in questo e non mi spaventa la strada da percorrere. Grazie ancora per la forza che spesso ricevo leggendo i tuoi post e buona continuazione.

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