"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 29 dicembre 2019

Lalinguabatte. 89 «Siamo bruchi che sfottono farfalle. Siamo farfalle che sfottono bruchi».


È che il “tempo tecnologico” ha preso a correre, da tanto tempo oramai in verità, in una maniera spaventosa. È che le nostre strutture cerebrali, le nostre interconnessioni neuronali, in fondo, sono state create, esistevano ed esistono per un “tempo” che abbia uno scorrere ben diverso. Ho cercato con un banale espediente di aggirare l’ostacolo rappresentato dalla insostenibile velocità del “tempo tecnologico”, per non sentire calare addosso la condizione umiliante del sopravvissuto. È stato quando, ancora calcando le polverose pedane delle cattedre scolastiche, mi sono avvicinato agli strumenti dell’informatica e, come un passeggero ritardatario che afferri all’ultimo istante il tram o bus che parte, agganciando l’immancabile e provvidenziale sostegno metallico di quei mezzi di trasporto pubblico, al pari di quel passeggero mi sono “attaccato alla “rete” per non sentirmi il sopravvissuto di turno del “villaggio globale”. Lo scemo del villaggio. E devo pur dire che il banale espediente mi è servito. Ma in parte. È che il “tempo” in quanto tale, senza aggettivazione alcuna, scorre ineluttabilmente. E se gli sforzi d’afferrare quel benedetto sostegno mi hanno consentito di farmi sentire o illudermi di essere al passo con il “tempo tecnologico”, seppur solamente da utilizzatore – comunque non finale – di quelle tecnologie, lo scorrere del tempo ha segnato e segna inequivocabilmente la condizione del “sopravvissuto”, condizione che, in tante occasioni, si riaffaccia e prorompe impetuosa, implacabile, nella vita quotidiana, per riportarmi alla mia reale condizione dell’esistere. Necessiterebbe da parte mia una rincorsa continua e faticosa assai del “tempo tecnologico”, per la quale rincorsa non ho la “stoffa” e neppure la volontà e la resistenza, se non fisica, neppure cerebrale.  È che “esistono oggetti - l'ombrello, la bicicletta, la caffettiera - che sopravvivono ai tempi che li hanno creati.” Così scrive Giacomo Papi nella Sua riflessione, nella consueta rubrica settimanale su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica” (da un personale indizio nel 2010), che ha per titolo “Un signore d'altri tempi”, riflessione che di seguito trascrivo in parte. È che, da sopravvissuti, si corre il rischio d’essere nella e d’occupare, al tempo nostro che ci è dato di vivere, la condizione propria di quegli oggetti. Anche i cosiddetti mezzi della informazione, della comunicazione di massa, privilegiano coltivare e diffondere le immagini di un “giovalinismo” sfrenato, senza se e senza ma. Al di fuori di quella condizione che buca lo schermo, il vuoto. È pur vero che, quella condizione diffusa mediaticamente senza risparmio di un “giovanilismo” imperante, allude alla, e rappresenta al meglio, la condizione dei “consumatori” per eccellenza, i giovani, condizione che connota anche l’essere e l’apparire ad un tempo dei nostri giorni. “Consumatori” senza cittadinanza, “consumatori” senza futuro certo peraltro, immersi sino al collo nella cosiddetta baumaniana “vita liquida”, stante il futuro negato ai giovani, della età della globalizzazione e della flessibilità senza limiti e freni, dalla stessa società che li vezzeggia e li circuisce, li irretisce nei suoi lusinghieri richiami virtuali, annientandoli nella e denudandoli della loro più intima umanità, che stenta a farsi strada, che stenta ad essere la lanterna accesa, seppur con una fiammella tremolante, che li aiuti e li guidi con sicurezza nel percorso lungo della via tortuosa assai che è la vita. Ha scritto Giacomo Papi: (…). Esistono oggetti - l'ombrello, la bicicletta, la caffettiera - che sopravvivono ai tempi che li hanno creati. Esistono persone modellate dall'epoca che li ha partoriti, che riescono a spingersi in anni estranei, dove non c'è più posto per loro. Nella loro buffa bellezza fuori luogo, i sopravvissuti raccontano che niente è più ridicolo dell'arroganza di chi si sente moderno perché tra breve saremo tutti antichi. Il Parco nazionale del Novecento, se soltanto esistesse, sarebbe un bel posto. Le scolaresche si aggirerebbero tra operai che giocano a briscola e signore borghesi impegnate in tornei di canasta, scorrazzerebbero tra braccianti e casalinghe, sarte, arrotini e impiegati di concetto. Per i bambini sarebbe un buon modo di crescere, per i vecchi un buon modo di salutare. I ragazzi la smetterebbero di desiderare ciò che è nuovo perché è nuovo, e i vecchi si tratterrebbero dall'idolatrare ciò che è vecchio perché era nuovo quando lo erano anche loro. Non si tratta di rispetto dovuto all'età né di stantia retorica della memoria. Si tratta di capire che ogni epoca è un groviglio di abitudini, mode, speranze, simboli, destinati a cambiare e a svanire. Di ricordarsi che anche i morti erano vivi. Se a 33 anni, invece di farsi ammazzare, Gesù avesse avuto un figlio che a 33 anni avesse avuto un figlio e così via fino al 2000, la catena umana necessaria per arrivare fino a noi conterebbe la miseria di 60 individui. Per colmare duemila anni di storia basterebbero, cioè, sei squadre di calcio senza portieri, una pizzeria mezza piena, tre classi elementari, metà della metà della metà della gente in fila a una mostra di Caravaggio. - Dicono che guardiamo più lontano perché siamo nani sulle spalle dei giganti -, annota nel 1937 il cineasta surrealista francese Jules Les Jour in Je n'existe pas, - Risponderei che siamo giganti seduti sui nani, poveri nani. Ma mi fanno ridere queste classifiche. La storia non è una gara, ma un fiume sotterraneo che ci scava e forma da dentro -. Non siamo migliori di chi ci ha preceduto e loro non sono stati migliori di noi. (…). I 60 figli di Gesù per scavalcare due millenni dimostrano che, in fondo, anche i padri e le madri sono fratelli e sorelle. Siamo bruchi che sfottono farfalle. Siamo farfalle che sfottono bruchi.

Nessun commento:

Posta un commento