"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 23 ottobre 2019

Letturedeigiornipassati. 60 «I salari arrancano ecco chi paga il conto della crisi».


Tratto da “Crescita, ma i salari arrancano ecco chi paga il conto della crisi” di Marco Ruffolo, pubblicato sul settimanale “A&F” del quotidiano la Repubblica del 23 di ottobre dell’anno 2017: La ripresa gonfia i portafogli delle famiglie? O li lascia malinconicamente leggeri? In che misura tutti quei “più” che leggiamo davanti a grandezze come Pil, produzione, fatturato, occupazione, si stanno effettivamente traducendo in buste paga più pesanti, in redditi meno magri? Insomma, quando la famiglia italiana media si fa i conti in tasca, può dire di essersi lasciata alle spalle la più grave recessione che abbia mai conosciuto dal dopoguerra ad oggi? Se lasciarsela alle spalle significa tornare ai livelli pre-crisi, a quelli di dieci anni fa, la risposta è certamente negativa. Il potere d’acquisto delle famiglie, dice l’Istat, si è ridotto dell’8 per cento. Dietro questo calo, tuttavia, scopriamo andamenti molto diversi tra loro: un vero e proprio tonfo per il reddito da lavoro autonomo (meno 15%), e una risicata tenuta per salari e stipendi (meno 1,1). Ma anche quest’ultimo dato, come vedremo, nasconde tragitti assai differenti, persino opposti. Al netto dell’inflazione, ci dice l’Istat, la retribuzione media dei dipendenti è scesa dai 29.738 euro del 2007 ai 29.419 del 2016. E le cose non sono cambiate un gran che quest’anno. In sostanza, rispetto a dieci anni fa, il dipendente medio italiano con la sua paga si trova a dover rinunciare a beni e servizi per 319 euro. Dunque, prima conclusione: nei tre anni di crescita del Pil non siamo stati capaci di riprendere la corsa interrotta un decennio fa. Come dieci anni fa. Nel migliore dei casi, siamo tornati ai blocchi di partenza. E non è poco, visto il crollo subito da tutte le grandezze economiche durante la crisi. Ora però ci si chiede se vi siano margini per far ripartire la corsa delle retribuzioni. Ad auspicarlo questa volta sono le stesse autorità monetarie che in passato predicavano la moderazione salariale: la Banca d’Italia di Ignazio Visco, e soprattutto la Bce di Mario Draghi. Visco e Draghi sanno che il fenomeno dei bassi salari non è solo italiano. “In molte economie avanzate, a cominciare dall’Europa – si legge nel nuovo World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale – la crescita dei salari nominali resta marcatamente sotto i livelli precedenti la grande recessione del 2008-2009”. E questo frena sia l’inflazione (che nell’eurozona non riesce ad avvicinarsi all’obiettivo del 2%) sia la ripresa, a causa dell’evidente debolezza dei consumi. Ma quali ostacoli si frappongono in Italia a una crescita dei redditi familiari? Per capirlo bisogna fare un salto indietro. Tra i segni più evidenti lasciati dalla lunga crisi economica, c’è una frattura profonda che ha diviso il mondo del lavoro dipendente. Da una parte il ciclone della crisi si è abbattuto sull’industria manifatturiera, che ha conosciuto una delle più massicce perdite di manodopera. Dall’altra è cresciuto un terziario poco produttivo e di bassa qualità, che ha assorbito una parte di quella manodopera e che continua tuttora a creare nuovi posti, anche se poveri. I "sopravvissuti". Anni terribili quelli tra il 2008 e il 2014 per i lavoratori dell’industria e delle costruzioni: 900 mila occupati in meno, dice l’Istat, con una perdita del 13%, che arriva al 20% se il calcolo si fa sui dipendenti tra il 2007 e il 2016. Eppure qui, nonostante la crisi, salari e stipendi reggono e anzi aumentano. La contrattazione nazionale continua a funzionare. E così nell’ultimo decennio le retribuzioni nominali nell’industria salgono del 24%, e quelle reali (al netto dell’inflazione) dell’8,5, in controtendenza rispetto all’andamento nazionale. Insomma, chi è riuscito a restare a bordo, chi ha conservato a fatica il posto in fabbrica e nei cantieri ha visto il proprio potere di acquisto aumentare, e non di poco. A partire dal 2014, tuttavia, le industrie sopravvissute, e alleggerite dalla grande emorragia di posti, hanno cominciato a contenere l’aumento dei salari per reggere alla concorrenza estera. Certo, teoricamente avrebbero potuto puntare sulla produttività invece che tenere bassi gli stipendi, ma uscivano da una recessione che aveva impedito loro di investire, di sostituire macchinari obsoleti. E la moderazione salariale ai loro occhi rappresentava l’unica via d’uscita per restare sull’unico mercato che tirava: quello estero. La povertà del terziario. Alberghi e ristoranti, servizi alle famiglie e alle imprese: è stato soprattutto questo terziario a fare in qualche misura da ammortizzatore della grande emorragia di lavoratori. Fino al 2014, almeno una piccola parte di quei 900 mila occupati rimasti senza lavoro nell’industria e nelle costruzioni, lo ritrova proprio in quei servizi: poco più di 100 mila. Poi, negli anni successivi, con la ripresa economica, le assunzioni nel terziario accelerano a un ritmo del tutto imprevisto: un altro mezzo milione entro il 2016. Il risultato è che da qualche mese, soprattutto grazie ai servizi, gli occupati complessivi in Italia sono tornati per la prima volta ai livelli pre-crisi, ossia sopra i 23 milioni. In questo forte recupero, giocano un ruolo fondamentale gli sgravi contributivi alle assunzioni stabili, utilizzati dalle imprese nel 2015 e 2016. È proprio grazie ad essi se dalla fine della crisi ad oggi più della metà delle assunzioni è stata a tempo indeterminato. C’è però un rovescio della medaglia in questa ondata di ritorno del lavoro: la maggior parte dei nuovi impieghi è di bassa qualità e mal pagata. Tra il 2007 e il 2016, ci dice l’ultimo rapporto annuale dell’Istat, il già basso stipendio reale dei dipendenti di alberghi e ristoranti (25.046 euro lordi) si è ridotto a 24.402 euro: il 2,6% in meno. E cali anche maggiori hanno riguardano il potere di acquisto di chi lavora nella sanità e nell’assistenza (meno 8%), nell’istruzione (meno 10,4), nel pubblico impiego (meno 7,9%), nelle attività finanziarie e assicurative (meno 9,5), tra facchini, imballatori e addetti alle consegne (meno 4,5). Si tratta proprio di quei mestieri che hanno visto crescere i posti di lavoro. Insomma, più occupazione povera in cambio di minori salari. Come testimonia anche una recente relazione della Commissione Lavoro del Senato. Gli effetti finali Il risultato di questa sconvolgente ricomposizione del lavoro, ce lo dà di nuovo l’Istat: durante gli anni della crisi, fino al 2014, l’occupazione a basso reddito è cresciuta dell’8%, quella di media retribuzione è crollata del 12%, mentre quella a reddito elevato (dirigenti, imprenditori e professionisti) è rimasta stabile.
Il problema è che anche con la ripresa, il grosso degli aumenti di posti ha riguardato lavori mal pagati. Ovviamente, imprese del terziario poco produttive che assumono lavoratori con bassi livelli di competenze e di specializzazione, tendono a firmare con loro contratti di lavoro per lo più instabili. O in alternativa a sfruttare il lavoro di finte partite Iva, lasciandole senza garanzie assicurative. Certo, gli sgravi contributivi e il Jobs Act hanno avuto l’effetto di stabilizzare molti di quei contratti e di crearne di nuovi. Ma questo non ha impedito che crescesse anche il numero dei contratti a termine e del part time, soprattutto involontario, raddoppiato in dieci anni. E proprio la precarietà del lavoro viene indicata dal Fondo monetario come il principale ostacolo – non solo in Italia ma in molte altre economie avanzate – alla crescita dei salari. Ostacolo ingigantito per altro dalla globalizzazione del lavoro. Il caso produttività. Tiriamo ora le fila di questo doppio percorso dei lavoratori italiani. Da una parte abbiamo un’industria manifatturiera che per restare sui mercati esteri, non potendo più contare sulla svalutazione monetaria, contiene i propri salari. Dall’altra, abbiamo un terziario povero che giocando sulla precarietà e sul serbatoio ancora forte di disoccupazione, offre retribuzioni ancora più basse. È ovvio che in queste condizioni, i margini per appesantire le buste paga delle famiglie siano quasi nulli. A meno che in entrambi i settori non risalga la produttività, stagnante in Italia da almeno un quarto di secolo. Impresa titanica, che dipende tra l’altro da fattori esterni alle imprese (burocrazia, fisco, infrastrutture), dalla dimensione e dall’organizzazione delle aziende, dal loro tasso innovativo e tecnologico e dalle competenze dei lavoratori. Il tutto richiede forti investimenti privati e pubblici. I primi hanno cominciato a vedersi con il pacchetto di sgravi di industria 4.0. I secondi ancora no. E questo è un serio problema, non solo perché non si fanno infrastrutture, ma perché per convincere le imprese a investire non basta ridurne i costi, bisogna anche assicurare che ci sarà qualcuno che comprerà i loro prodotti, una volta fatti gli investimenti. Insomma ci vogliono i consumi delle famiglie, i quali, visti gli attuali salari, difficilmente possono ripartire senza opportuni investimenti pubblici e senza una detassazione dell’Irpef, oggi fuori discussione.

Nessun commento:

Posta un commento