"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 19 ottobre 2019

Ifattinprima. 14 Quel “trilione” sottratto al benessere comune.


Avete idea di cosa sia un “trilione”? Siamo nel campo delle misure non facilmente intuibili. Ci chiarisce Wikipedia che un “trilione” è un numero naturale – enorme scoperta - che equivale a un miliardo di miliardi, ossia ad un milione alla terza potenza (1 000 000 000 000 000 000) o, ancor meglio - secondo sempre Wikipedia – al banalissimo 10 di diffusa conoscenza elevato però alla diciottesima potenza. Insomma, il “trilione” equivale anche a un milionesimo di quadrilione. Ed il “quadrilione”? Avendo a cuore la nostra salute mentale è il caso di chiudere immediatamente la pagina di Wikipedia. Un “trilione” di cosa? Non certo di ricchezza distribuita per il benessere collettivo. Nulla di tutto ciò al tempo del rampante capitalismo finanziario. È quanto si sottrae al benessere comune per depositarli nei cosiddetti “paradisi fiscali” per quell’un per cento di umani che vive a sbafo con la finanza creativa (copyright l’allora ministro Giulio Tremonti). Ma la cosa che sorprende è che tra quei “paradisi fiscali” si annoverano financo il Lussemburgo, che ha espresso l’ultimo presidente - uscente - della Commissione europea ed il paese – virtuoso quanto? - dei tulipani. Il danaro non “olet”, a tutte le latitudini. E pensare che la denuncia arriva dal “Fondo monetario internazionale” presieduto sino a qualche mese addietro dall’ineffabile signora Christine Lagarde che, vedi un po’, è stata imbarcata di recente nella Banca centrale europea in qualità di presidente. Ne ha scritto in “La bolla dei fondi fantasma” Eugenio Occorsio sul settimanale A&F del 14 di ottobre 2019:
Una voragine da 15 trilioni di dollari, quanto il Pil cumulato di Cina e Germania e quasi quanto quello americano, minaccia alle fondamenta la finanza internazionale. Sono i fondi "fantasma" accumulati dalle multinazionali negli ultimi vent'anni per limitare al minimo le tasse quando non (accade spesso) evitarle del tutto. Dieci paradisi fiscali li ospitano, ma per metà sono localizzati nei soli Olanda e Lussemburgo. Sono ormai il 40% degli investimenti diretti esteri complessivi (38 trilioni) e la loro quota cresce esponenzialmente: i fondi phantom, così li definisce in un allarmato rapporto appena sfornato il Fmi, erano il 30% del totale solo 10 anni fa. Mentre gli investimenti esteri finanziano fabbriche, occupazione, tecnologia, competenze, i phantom sono improduttivi, frutto appunto dell'elusione fiscale quando non di evasione. Se portati allo scoperto darebbero un contributo decisivo al benessere globale. I fondi fantasma aumentano a un ritmo che dopo la crisi finanziaria ha superato quello del Pil mondiale, molto più rapido degli investimenti "genuini". È importante - scrivono gli economisti danesi Jannick Damgaard, Thomas Elkjaer e Niels Johannesen che hanno redatto lo studio per il Fondo monetario - capire di cosa si parla: "Nei Foreign direct investiment non sono comprese tutte le transazioni finanziarie in giro per il mondo (che assommano a cifre anche superiori, ndr) e neanche gli acquisti di quote di società inferiori al 10%". Lo stock indicato, puntualizza il rapporto, si riferisce alla somma di tutti gli investimenti degli ultimi vent'anni, depurato dei disinvestimenti, cioè dei merger rientrati, dei fallimenti, di retrocessioni insomma di vario tipo. Assimilabili agli Fdi, perché di dimensioni cospicue e perché comportano importanti manovre di denaro da un Paese all'altro, sono i profitti che le multinazionali "intestano" a loro filiazioni in qualche paradiso fiscale. Big tech ma non solo. Il caso più celebre è quello dei giganti della tecnologia, ma non è neanche il più clamoroso: multinazionali farmaceutiche, energetiche, meccaniche, commerciali, dell'abbigliamento e via dicendo sono tutte impegnate nella grande corsa ad imboscare i profitti in qualche paradiso fiscale. "I fondi occulti aumentano esponenzialmente perché si affina l'ingegno di amministratori con pochi scrupoli per sfuggire alle maglie del fisco dei rispettivi Paesi", dice Paolo Guerrieri, economista della Sapienza e di SciencesPo. "Un meccanismo tipico è il seguente: intesto un brevetto a una piccola controllata presso un Paese compiacente. Poi dalla casamadre acquisto questo brevetto con una transazione infragruppo, solo che anziché un valore logico lo pago dieci, venti, trenta volte di più. Tutta la parte eccedente il valore di mercato, dichiarato, viene accantonata presso la filiazione e gode del trattamento fiscale di favore del Paese phantom friendly. La casamadre per finanziare l'acquisizione ha impegnato una parte più o meno grande dei suoi profitti evitando quindi di denunciarli come utili e di pagarci le tasse". Flussi in calo. Gli Fdi nel loro complesso l'anno scorso non hanno superato gli 850 miliardi di dollari, contro i 1.480 (un trilione e mezzo) del 2017, i 1.572 del 2016 e addirittura i 1.683 del 2105. Quest'anno tutte le previsioni dicono che andrà ancora peggio: ma non per i fondi fantasma che invece continuano a salire all'interno di questa che è la cifra complessiva. In dieci Paesi si concentra l'85% del tesoro occulto. Caratteristica comune, la tassazione super-ridotta e praticamente azzerata nel caso di holding di partecipazioni, e poi la riservatezza assoluta, la facilità di creare e gestire società, l'efficienza della burocrazia, perfino una governance "flessibile" che rende più facile per un gruppo dirigente imporre le sue decisioni - scrive l'Fmi - pur in mancanza di una maggioranza ben definita. In testa alla top ten degli Stati, con la metà del totale (7 trilioni e mezzo di dollari in cassaforte) sono Lussemburgo e Olanda. "Due Paesi dell'area dell'euro, il che la dice lunga sulla difficoltà e soprattutto sulla volontà politica di modificare questa situazione profondamente ingiusta", commenta Angelo Baglioni, economista internazionale della Cattolica. "Andrebbero rivisti i trattati per poter armonizzare le politiche fiscali, senonché una revisione del genere richiede l'unanimità". Nel Granducato, una nazione di 600 mila abitanti, si annidano almeno 4 trilioni di Fdi, quanto negli Stati Uniti e molto di più della Cina. E ad Amsterdam fa parte ormai della letteratura l'anonimo palazzone della fiduciaria Intertrust dove c'è la sede di 2.812 società compresi colossi internazionali, da Ikea a Uber, da Nike fino ai Rolling Stones e agli U2 (che sono stati gli apripista visto che sono domiciliati lì rispettivamente dal 1972 e dal 1981). Qui si gestiscono formalmente attività che vanno dalle Filippine al Cile. Non mancano, appoggiate presso vari studi legali della città, le multinazionali italiane, dalla Fca fino alle recentemente trasferite Mediaset Holding e Cementir del gruppo Caltagirone. Il ruolo di Dublino. Anche l'Irlanda gioca la sua parte. La tassazione sulle società che era in tempi recenti del 50% continua a scendere e ha raggiunto il 12,5% (contro il 30% della media europea). Fuori Europa, i nomi dei Paesi phantom friendly sono noti. C'è un buon numero di atolli caraibici per i quali la gestione delle società fantasma rappresenta più ancora del turismo la prima fonte di entrata (non fiscale per carità ma come lavoro per studi legali, banche, fiduciarie): Cayman Islands, Barbados, Bermuda, British Virgin Islands (ma il Regno Unito può contare anche sulle più vicine isole della Manica). E poi a seguire Hong Kong, Singapore e la "new entry" Mauritius. In ribasso, per una serie di motivi concernenti soprattutto la segretezza delle attività, sia la Svizzera che gli emirati del Golfo. "Va considerato che all'interno di questa massa indistinta di "fondi fantasma" si muovono anche i capitali della malavita organizzata", aggiunge l'economista Mario Baldassarri, che è stato viceministro dell'Economia all'inizio degli anni Duemila. "È quindi doppiamente importante agire in fretta". Avvocati senza scrupoli. Qualunque sia l'origine di questi capitali, nei vari "paradisi" frotte di avvocati spregiudicati e iperconcorrenziali fra di loro sfornano continuamente nuove tecniche per ridurre ulteriormente il già esiguo carico fiscale. Dei brevetti superpagati si è detto, ma il più celebre frutto di una spericolata ingegneria finanziaria, e della toponomastica più fantasiosa, è il giochetto del "Double Irish with a Dutch sandwich", ricordato dal Fmi nel suo rapporto, inventato pare da Google, che permette di canalizzare i proventi realizzati in tutto il mondo dapprima in Olanda e Irlanda pilotandoli infine nei Caraibi dove spariscono definitivamente. E ci sono decine di tecniche ancora più esoteriche e misteriose. Quello che davvero risulta arduo da credere è che la comunità internazionale tolleri tutto questo. Non si contano più i proclami dei G7 e G20, dell'Onu, dei singoli governi, perché venga ripristinata l'etica fiscale. Ora è in corso un tentativo dell'Ocse di architettare un sistema più giusto e razionale, ma il negoziato riguarda 129 Paesi e l'Ocse, che non ha capacità cogente, vuole muoversi con una unanimità assai ardua da conseguire. Le incertezze degli Usa. L'America di Trump mantiene un atteggiamento ambiguo, e forse una speranza verrà dalla nuova Commissione europea. Certo che finché era presidente Jean-Claude Juncker, ex premier proprio del Lussemburgo, non era possibile aspettarsi alcunché. Non a caso, il ministro dell'Economia italiano, Roberto Gualtieri, ha già preannunciato una richiesta di direttiva. Anche perché nel frattempo le iniziative nazionali arrancano: "Il caso della web tax è esemplificativo", commenta Giovambattista Palumbo, direttore dell'Osservatorio sulle politiche fiscali dell'Eurispes. "Già è stata inserita in due leggi di Bilancio rimandandone però l'operatività ai decreti attuativi mai varati. Ora bisogna riproporla, e con l'occasione migliorare la codificazione e l'accertamento della "stabile organizzazione" sul territorio nazionale, ancora generici, che è la chiave di tutto".

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