"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 20 settembre 2019

Uominiedio. 26 «Il peccato e la speranza».


Ha scritto Umberto Galimberti in “Non diamo a Dio la colpa per i nostri peccati” (trascritto nel post di ieri): (…). ...talvolta la fede può distruggere la morale, alla base della quale c'è sempre e in ogni caso l'assunzione di responsabilità nei confronti delle proprie azioni e/o omissioni. Ha scritto la carissima amica Agnese A. a commento di quel post: La coscienza morale serve all'uomo per scoprire ciò che è giusto e buono fare nella realtà concreta della vita e serve soprattutto per compiere scelte che gli permettano di rimanere in pace con se stesso. La coscienza retta è la massima sicurezza per essere fedeli alla vita morale. Mi appresto ad addentrarmi in una disputa vecchia come il mondo: del peccato e del reato. Discussione ostica assai, da far tremare le vene ed i polsi.
Quando non sorretta, la discussione medesima, dalla conoscenza approfondita della dottrina di Dike, la giovinetta che presiedeva, tra i greci antichi, alla giustizia e che si accompagnava alle mitiche altre fanciulle, le Ore – dal greco horai, dal latino horae –, personificazioni delle stagioni, che avevano l’ingrato compito di sottrarre il divenire degli umani all'arbitrio e al disordine. Alla occlusione delle menti. Le mitiche tre Ore: Dike, la giustizia; Eunomia, il buon governo; Irene, la pace. Se ne sono perse le tracce, nel mondo cristianizzato e non più pagano e non più politeista. Un progresso? Figlie divine le Ore, poiché generate dai divini lombi di Zeus e di Temi. Quando non sorretta d’altronde, l’ostica discussione, da una fede nel trascendente che non mi appartiene. Lontano “ ab imis fundamentis “, ignudo come mi presento nella ostica discussione, se non sorretto da un lume, flebile alquanto ahimè, della ragione. Ma non per questo è disdegnoso ragionarne. Di seguito trascrivo, in parte, un’interessante riflessione di Aldo Schiavone che ha per titolo “Il peccato e la speranza”. L’illustre ne scrive “da non credente, da italiano e da cittadino del pianeta”, testuale nel Suo prezioso lavoro. La riflessione è stata pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 16 di aprile dell’anno 2010. Ove si accenna ad una chiesa penitente, così come la si invoca oggigiorno da più parti. Non è nel novero delle cose una chiesa penitente. È verità assodata questa. Non certo la chiesa del potere. Altra cosa è la chiesa del cosiddetto popolo di Dio. È di tutt’altra sostanza la chiesa del popolo di Dio. La chiesa del potere non si dispone alla penitenza. Ai tempi oscuri della sua inquisizione, sacra per i penitenti di comodo e per i non dubbiosi, perseguitava per l’appunto i dubbiosi, i recalcitranti, i deboli, gli inermi, con i suoi interni codici, incunaboli e manuali, per affidarne poi la manovalanza delle esecuzioni al potere civile. Che prono, eseguiva. Il tentativo della chiesa del potere di rinserrarsi in quegli angusti ambiti da inquisizione, per quanto a suo dire sacra, nel terzo millennio avanzato,  è sotto gli occhi di tutti, sol che lo si voglia vedere. Ambirebbe, quella chiesa del potere, rinserrare all’interno dei suoi palazzi sontuosi i problemi scottanti che non sanno più o tanto di peccato, per la qualcosa essa chiesa del potere ne dirimerebbe le insussistenti questioni, quanto di reato, ché la qualcosa non può assolutamente essere riservata alle sue approssimative, complici verifiche e determinazioni. Sublime è la chiesa del potere nell’arte fine della “sublimazione” che è arte non già dell’alchimia ma della chimica moderna. Ove la “sublimazione” vede i corpi solidi trasformarsi in puro “aere” senza passare per lo stato intermedio di liquido. “Sublima”, o tenta di sublimare, la chiesa del potere i reati verso la persona umana in peccato. Allora diviene giurisdizione sua. E salva gli adepti suoi dai giusti rigori delle leggi terrene. Alle quali restano sottoposti tutti gli umani mortali che non appartengano alla chiesa del potere. Altre accolite di umani ambirebbero ad un tale privilegio; ciascuna di disporre delle sorti dei propri adepti, con quali esiti sarebbe facile prevedere. Al rogo – non virtuale ma sostanziale - finirebbe la tanto auspicata divisione della sfera religiosa dalla sfera pubblica e della politica; al rogo finirebbe l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge degli uomini. Di un’improbabile legge di un improbabile dio non è dato sapere. Né si vuol coglierne la sostanza in queste poche righe. Ciascuna accolita quindi a giudicare i “casi suoi”. Un bell’arretramento in fatto di giustizia, ma soprattutto in fatto di umanizzazione anche del cosiddetto inerme popolo di Dio. Ha scritto Aldo Schiavone: (…). C’è qualcosa di ancora più decisivo e radicale che sta venendo alla luce; di più strutturale, se posso esprimermi così: una sconnessione di cui le vicende che abbiamo sotto gli occhi (i casi di pedofilia tra i rappresentanti della chiesa di Roma ed il tentativo maldestro di sviarne la denuncia alla pubblica opinione n.d.r.) sono solo il segno e l’annuncio. Questi disastri non capitano mai per caso. Quel che sta davvero emergendo è - mi sembra - un atteggiamento di fondo, un’intermittenza di pensiero e di azione che spiega e illumina quanto è accaduto: la definirei come la paura della Chiesa di fronte alla storia che ci sta innanzi - una sua vertiginosa caduta di speranza, sostituita da un sentimento persistente di smarrimento e di ripiegamento nel passato, che si colora a volte di una non trattenuta tragicità. Con la conseguenza gravissima che le gerarchie cattoliche stanno mettendo a rischio il proprio rapporto con il mondo, con il tempo, e anche con il loro stesso popolo. Far penitenza, vuol dire cominciare a rendersene conto. (…). La sconfitta del comunismo - il mortale nemico affrontato in tante battaglie - aveva aperto al cattolicesimo vittorioso una prospettiva straordinaria. Esso si presentava, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, come un centro spirituale in grado di parlare all’interezza della nostra specie, portatore di un messaggio che stava recuperando di colpo quell’universalità a lungo contestata nel corso drammatico del secolo che si chiudeva. La sua missione evangelizzatrice poteva riprendere slancio, e sembrava non avere più confini. Caduta ormai la necessità strategica di dover scavare un abisso fra sé e il comunismo, la dottrina sociale della Chiesa poteva aprirsi con una forza critica insospettata sulle contraddizioni del nuovo capitalismo globale. Per qualche anno, il carisma misterioso e primario del papa polacco diede l’impressione che davvero si stesse varcando un nuovo confine. La rivoluzione tecnologica non spegneva il bisogno di spiritualità e di soprannaturale - come i vecchi materialisti avevano creduto - ma spingeva grandi masse di donne e di uomini - soprattutto fra le giovani generazioni - a porsi nuove domande sul senso della loro esistenza, e a stabilire nuovi rapporti con l’immateriale. La Chiesa sembrava avere le parole giuste. Se la politica deludeva dovunque, bisognava guardare altrove per ritrovare la fascinazione di un annuncio di salvezza. Ma poi, qualcosa non ha tenuto; o per meglio dire, la proiezione in avanti non ha retto. Come mai? Innanzitutto perché la Chiesa ha avuto la percezione precoce che si stava aprendo un tempo storico del tutto nuovo, dominato da un’inaudita potenza dell’umano - quale mai era stata finora sperimentata - grazie alla capacità trasformatrice della tecnica; e ha intuito che varcare questa soglia implicava la costruzione di una nuova antropologia dell’emancipazione, e dunque una nuova idea di destino e di speranza, della vita e della morte, diciamo anche una nuova escatologia; ma ha temuto che tutto ciò mettesse in discussione il suo primato e una larga parte del suo impianto dogmatico, e insieme che le nuove potenzialità tecnologiche potessero rivelare il loro lato letteralmente satanico - e si è ritratta. Ha intravisto, e ha avuto paura. Ha commesso, come si dice, un peccato di speranza. Invece di elaborare una teologia della liberazione dell’umano dalle sue schiavitù millenarie, le regole di un nuovo patto fra l’umano e il divino, una revisione della sua idea di persona, ha preferito riscoprire le sue antiche vocazioni antimoderne, determinando così un penoso vuoto di senso, una rischiosa zona d’ombra fra il suo pensiero e il nostro tempo: in questo scarto poteva verificarsi di tutto - sottovalutazioni inconcepibili, fraintendimenti abissali, gaffes culturali che lasciano allibiti, e anche la formazione al suo interno di grandi strutture di peccato - e così è esattamente successo. I punti di caduta sono stati la sessualità e la tecnica: non a caso i due livelli - peraltro fra loro collegati da mille fili - attraverso i quali è passato gran parte del cambiamento che sta ridisegnando ogni giorno la forma delle nostre vite. (…). Penitenza vuol dire oggi per la Chiesa sapersi rivoluzionare, nel nome di un Dio di speranza, d’amore, di libertà e di eguaglianza. Nel nome di una fuga epocale dalla politica: si abbandoni a Cesare quel che gli spetta. Nel nome di una riconciliazione con la modernità e con la scienza; nel nome di un nuovo, integrale umanesimo.

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