"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 23 settembre 2019

Letturedeigiornipassati. 47 «La menzogna viene elevata a ordine del mondo!»


Tratto da “Così si spegne la Chiesa” di Giuseppe Genna, pubblicato sul settimanale L'Espresso del 23 di settembre dell’anno 2018: Impressioni di settembre in una piccola chiesa alla periferia est di Milano. Fuori infuria una pioggia pesante, tropicale. Il sacerdote ha appena iniziato l’omelia. I banchi sono occupati da rari fedeli: qualche anziano e, sorprendentemente, una giovane madre che cerca di chetare il figlio piccino, poco più di un anno, che esplode in un pianto strepitante. Non smette di singhiozzare. La madre accenna ad alzarsi, a uscire, per non disturbare la messa. Il prete la ferma, interrompe la predica: «Lasciamo parlare la voce di Dio: è questo pianto». Siamo rimasti minuti così, in silenzio, ad ascoltare i vagiti, nel tempio semivuoto. Quei singulti piccini, in quella desertificazione della messa, ho potuto intercettarli perché da giorni avevo incominciato a girare per le chiese milanesi: per verificarne i vuoti. Le ho scrutate come ventri cavi, ruderi attivi e spazialmente imponenti, proposte di immortalità andate deluse. Mi sono messo a turbinare per templi cristiani, dopo avere accusato uno choc antropologico, durante un incontro in un liceo.
Avevo chiesto alla classe, una trentina di ragazzi, quanti fossero cattolici: circa due terzi avevano alzato la mano. Quando però ho domandato chi ritenesse che Cristo avesse effettivamente sconfitto la morte con la resurrezione, si era sollevata soltanto una timida mano. Era un minimo esempio di scollamento abissale e pervicace tra magistero, fede e fedeli, che solleva l’enorme domanda su quale sia il credo e la sostanza cattolica di questo tempo. Quindi ho preso a girare per chiese milanesi, contemplandole vuote e rischiose, abitate da renitenti luminosi, aree oratoriali infoltite da bambini digitali, popolate da sacerdoti preoccupati dell’insegnamento morale. Un tempo non si doveva circolare per parrocchie per ritrovare il Cristo. Era sufficiente stare immobili e la Chiesa veniva a te, ovunque e chiunque tu fossi. È arduo descrivere oggi cosa fu la Sposa del Cristo in Italia in quel passaggio storico determinante tra Novecento e nuovo millennio. Si può procedere per emblemi, per impressionismi personali, come è tipico di uno scrittore, che non è mai un sociologo. Per esempio: quando il Papa entra per la prima volta nella mia vita non è al battesimo, a cui i miei genitori, fieramente amendoliani, non si sognano di sottopormi. Il pontefice è in quegli anni, ovvero i Settanta, una figura ubiqua, quasi carceraria, che respira ovunque nella nazione, imprimendovi il suo fragile battito cardiaco e il vasto immaginario storico che gli piega le spalle. È un italiano riluttante e io lo vedo affacciarsi dolente al balcone di San Pietro, la stola rossa risalta nei primi tv a colori, sgranata ed eccessiva, un lussurioso scarlatto che stona e completa il volto da geometra accigliato di Paolo VI. La sua voce non tuona, è piuttosto una pasta sonora farinosa e incerta, però rimbomba nella mente mia e degli allora bambini, fino a oggi. La sua figura magra e incerta spalanca le braccia in un gesto drammatico, pronunciando parole terribili: «Uomini delle Brigate Rosse, vi prego in ginocchio: liberate l’onorevole Aldo Moro! Tutti dobbiamo temere Iddio vindice dei morti senza causa e senza colpa». Se quel momento non è mai realmente esistito, poiché l’appello di Papa Montini fu scritto e mai interpretato nell’udienza domenicale, non è una valida ragione per smentirne la consistenza, tutta fantasmatica, con cui io l’ho visto e vissuto. Era così pervasiva la Chiesa a quei tempi, che non si sfuggiva a un surplus di immaginazione, a una percezione dilatata della sua influenza, a un condizionamento collettivo e a una guida politica indefessa, da seguire o contro cui scagliarsi. La Chiesa c’era. Era ovunque. Esisteva politicamente, nel volto piagato dalla sofferenza del segretario democristiano Benigno Zaccagnini, un doppio laico della riluttanza papale, o nella gravosa proattività del giovane Bettino Craxi. Irradiava nella cultura pop dai manuali di ricette per torte detestabili e luganeghe stracotte, su cui si sporgeva il volto rustico ed euganeo di Suor Germana, la suora cuoca, un’anticipazione religiosa e casereccia di Masterchef. La Chiesa rifrangeva dai jeans prelatizi dei giovani sacerdoti, che in tutti gli oratori intonavano l’inno vaticanosecondo Symbolum ’77, una nenia persecutoria in cui Dio è la mia vita e altro io non ho. Era una saturazione del nostro spazio vitale, declinato a un apostolato diffuso. Non c’era zona del vivere civile che non fosse religiosa, ovvero cattolica. E non si trattava di una dittatura, bensì della presa di consapevolezza che l’Italia è imprescindibile nella storia infinitamente postuma del Cristo. Da qui, immense strategie sociali e politiche, estetiche ed esistenziali, in un’espansione infinita della relazione col reale: la Chiesa, a differenza del Cristo, è nel mondo ed è pure del mondo. Facendo mente locale, il che è oggi un esercizio sempre più difficoltoso, ci si accorge che la Chiesa ha espresso negli ultimi decenni un ciclo leggendario, mentre la percezione dell’elemento cattolico andava nebulizzandosi nella società. Da Paolo VI a Benedetto XVI, è una sequenza di fatti storici che compongono una mitologia clamorosa. Chiudendo il Concilio, Papa Montini appone la sua firma a un mutamento senza precedenti nel messale. Il suo successore, Giovanni Paolo I, muore dopo 33 giorni di pontificato, aprendo l’istituzione ai venti del complottismo, che è un’anticipazione del nostro presente avanzato. Giovanni Paolo II subisce addirittura un attentato in mondovisione e opera nella sostanza stessa del complotto, contribuendo al crollo del comunismo. È però il pontefice apparentemente più schivo e più esile a segnare l’apice di un’epopea contemporanea senza pari: Ratzinger cancella dalla dottrina il limbo dei non nati e arriva a dimettersi. La storia dei papati più recenti lascia a bocca aperta ed è forse da qui, che bisogna partire per comprendere: dal fatto che i papati si disgiungono non soltanto dalla storia della Chiesa, ma anche dalla sua percezione collettiva. Se i pontefici sembrano efficaci atleti di Dio e allestiscono un climax oggettivamente sconvolgente, la percezione diffusa della presenza della Chiesa sfuma, si dilata, si omeopatizza, fino a farsi sempre meno simbolica, sempre più laicale, giocata precipuamente sul dogma della carità sociale. La Chiesa secondo il modello planetario dell’ospedale da campo è di fatto la conferma di fosche analisi, come quella del teologo e filosofo Ivan Illich: «La povertà istituzionalizzata è una invenzione che la Chiesa ha trasmesso allo Stato e alle istituzioni e che ha condotto a una trasformazione della compassione in qualcosa che è oggi nelle mani degli assicuratori, delle corporazioni professionali della salute, dell’assistenza». Diffondersi nelle intercapedini e fare diaspora ha probabilmente comportato la vaporizzazione progressiva dell’istituzione cattolica, almeno nella percezione generale che se ne ha. Negli intenti, era una strategia eminentemente politica, nobilitata dall’insegna della “Chiesa extraparlamentare” che il cardinale Ruini teorizzò e fu argomentata in un acuto saggio di Sandro Magister: una Chiesa che, al crollo della Democrazia Cristiana, non vuole più compromessi e rapporti politici preferenziali. Negli effetti, questa strategia ha determinato invece una sclerosi diffusa e dannosa nel corpo politico, realizzando una “Chiesa ultraparlamentare”, le cui istanze si sono offerti di rappresentare adepti variamente settari, obliqui, perennemente non memorabili. Non stare più direttamente sul palcoscenico politico, tendere piuttosto a condizionare la cultura di massa, a praticare benemeritamente l’assistenza generalizzata: fuori del Palazzo la Chiesa si è fatta carsica, interstiziale, pudica, ma all’interno risulta da vent’anni opprimente, varicosa, lugubremente imprescindibile. Nella basilica dedicata a San Giovanni Bono, alla periferia sud di Milano: un edificio isoscele a cuspide, che impone il paradosso di una incipiente agorafobia al suo interno. Alla prima messa mattutina sembra di abitare un utero cementizio, un tempio del transumanismo. I fedeli sono radi, invariabilmente anziani. Su quello che dovrebbe essere il sagrato e sembra invece una piccola Cape Canaveral da cui il tempio sta per decollare verso spazi interstellari, una fedele novantenne mi folgora con un inatteso giudizio storico: «Che bei tempi erano quelli del divorzio e dell’aborto!». Pilucca un grappolo d’uva da un sacchetto in plastica biodegradabile, cava vinaccioli e bucce, dice di non essere colta e risulta invece nitida e categorica: «Divorzio e aborto non sono stati una sconfitta per la Chiesa: era materia che creava problemi a chi non credeva e che discendeva da articoli di fede, una conclusione logica a cui arrivava ogni cattolico. Ma già allora non erano abbastanza, i cattolici…». E oggi i cattolici sono abbastanza? I numeri, che sono ormai una patologia endemica della nostra contemporaneità, in questo caso non spiegano nulla. I cattolici censiti in Italia sono tantissimi: il 60 per cento della popolazione. E tuttavia sono pochi: vent’anni fa erano al 79 per cento. Si contrae il popolo che pratica: solo un quarto dei fedeli partecipa puntualmente alla funzione domenicale, il 47 per cento si reca a messa saltuariamente, il 27,4 per cento non frequenta. Papa Francesco si è detto letteralmente disperato per il numero di sacerdoti che abbandonano la tonaca, più di duemila ogni anno nel mondo. In poco meno di un secolo i sacerdoti in Italia sono scesi da 15 mila a 2.700. Non è una crisi vocazionale: è un’emorragia. Tra i fedeli all’uscita dai vesperi, presso la chiesa di Dio Padre a Milano 2, un’architettura scalena che sembra partorire un figlio astratto dell’uomo, nessun giovane e ancora volti anziani dagli sguardi stupiti. Discutono dell’attualità. «Il male è l’attualità interpretata dalla Chiesa!» e dibattono fitti, quindici, venti, trenta corpi corruttibili in cerca dell’eterno, qui e ora, e mi tirano per un braccio, mi chiedono di ascoltarli, sperano nella domanda successiva, pensano che io sia un giornalista, uno vuole pronunciarsi sulla calamità dei preti pedofili, un’altra mi infila un bigliettino in tasca ed è la formula di una benedizione, c’è chi insiste che Padre Pio è il più amato dagli italiani e chi fa il nome della mistica Natuzza Evolo - hanno necessità di mistica, reclamano una parola sull’immortalità, si sentono implicitamente abbandonati dal magistero, caracollano tra omelie morali e nichilismo dei tempi attuali, preludono a una fine imminente di se stessi e della sterminata chiesa che si stende sul mondo. Non smettono di criticare, ce l’hanno con il ministro della famiglia Fontana e con il suo collega regressista Pillon, i quali cianciano di divorzio e aborto, ancora il divorzio e l’aborto… Confutano le vesti transitorie del corpo di gloria, credono che il superamento della morte sia definitivo, conculcabile: lo esigono in forma non provvisoria, questo magistero, lo vogliono letterale e cristico. E così, in ogni chiesa milanese in cui ho vagabondato in questi giorni tumultuosi, la domanda su Dio ha rimbalzato su pareti primonovecentesche e contro vetrate istoriate con un’estetica da Pio Manzù, che il piano per la costruzione di “Ventidue chiese per ventidue concili”, promulgato dal decisivo pontefice Paolo VI, ha conferito alla mia infanzia e pubertà di ateo inverecondo e imbarazzato. Ho attraversato gruppuscoli di fedeli resilienti, pensionati dall’aspetto diaconale, che al prete non hanno il coraggio di chiedere quella parola assoluta di verità: vorrebbero che fosse loro impartita gratuitamente, concessa senza bussare alla comprensione del sacerdote. Di tutti i cattolici praticanti che incrocio di chiesa in chiesa mi colpisce un elemento. I morti fanno paura o confortano ben più di quanto ci riescano Dio e la preghiera coriacea, che bisbigliano quando non c’è nessuna funzione e le chiese appaiono ancora più vuote ed emblematiche, in qualche modo mute e indifferenti. Sono penetrato ovunque in questi vuoti, in ogni punto cardinale. La forma aeronautica di San Francesco d’Assisi al Fopponino, progettata dall’architetto Gio Ponti, la capanna sbagliata di Sant’Ignazio di Loyola a Trezzano, San Pio V, Sant’Eugenio, Sant’Andrea, decine di parrocchie - e le loro comunità, rigogliose la domenica, così come durante i camp estivi, quando si autorappresenta la linfa di una Chiesa che opera socialmente ovunque e vicaria lo Stato che non soccorre più o non ha mai soccorso. La domenica la congrega è vasta e intergenerazionale. Sono partecipatissimi gli oratori, stimati in più di ottomila in tutta Italia, dove però per il 52 per cento non si svolge formazione liturgica, si pensa che non serva. Torna a essere, guardando i numeri, una Chiesa sconcertante, che emette verità amorevoli, ma non produce più figure politiche delineate e stenta nella sua catechesi. In Sicilia, a Piazza Armerina, il 15 settembre scorso, Papa Francesco ha affrontato le piaghe dell’ecclesia, dell’impoverimento culturale, dell’usura e della disoccupazione, ha inveito contro la mafia e sorprendentemente ha fornito indicazioni perché le omelie non durino più di otto minuti. Un rimedio contro l’abbandono delle funzioni, è stato detto. «Se anche predichiamo nel vuoto, non smettiamo di farlo: il Verbo si è fatto carne, la carne deve interpretare il Verbo!», risuonano nelle navate deserte di una chiesa nell’hinterland le parole di Padre Steiner. Si fa chiamare così, ma probabilmente è un soprannome. Mi hanno parlato di lui, nessuno sa nemmeno se sia davvero un sacerdote. Forse è un paziente psichiatrico aiutato dal parroco, che lo lascia predicare quando nessuno ascolta. Oppure è un marginale, un eretico, un vicario che non celebra la messa e non smette di apparire nel boato di silenzio del pomeriggio, quando nessuno dei fedeli si sottopone ai suoi sermoni, che scuotono il nervo e frustano l’accidia del credente troppo accomodato nelle verità indiscusse. «Non si deve prendere tutto per vero, si deve prenderlo solo per necessario. Questa è un’opinione ben triste: la menzogna viene elevata a ordine del mondo! Oggi subiamo troppo la dittatura del prossimo tuo, ci siamo concentrati sul suo benessere e la sua ricollocazione lavorativa, dimenticando che esiste il me stesso: è al me stesso che non forniamo più indicazioni, comandamenti, sensitività. Gli altri sono diventati un’ossessione. La spesa solidale è il modo con cui conduciamo nel mondo la buona novella? La congrega sembra contagiata dal medianismo, il rito dei defunti è l’unico con cui ci si presenta qui, sotto la Croce, motivati da un’ansia di verità finalmente inquieta, tremante, traumatizzata: cerchiamo come ossigeno la certezza che chi ha abbandonato le spoglie mortali sia ancora vivente. Non c’è altro male, se non questo. Le riforme socialiste della Chiesa che si è statalizzata non fanno per me! L’imperativo, per cui ciascuno deve sottomettersi alle autorità costituite e pagare le tasse dovute, ha forse altro fine che non ricordarci quanto sia ormai tempo di svegliarci dal sonno? La nostra salvezza è più prossima di quando diventammo credenti? La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e non ci lasciamo prendere dai desideri della carne. La carne, questo mistero! Quanta ce ne tocca ancora? Quanto rotolano per i secoli fino a noi le sue tentazioni… Continuiamo a parlarne, ad accusarla. Abbiamo bisogno di una Chiesa profetica, che sembri capace addirittura di apostasia. Ogni istituzione che non suppone il popolo buono e il prete corruttibile è viziosa. E tu: tu non hai abbastanza rispetto per la Scrittura e alteri la storia». È pazzo, forse? È catecumenale? Scompare accelerando i passi a destra nel transetto, scarta le panche vuote, gesticola nell’aria, le chiome biancoargento della capigliatura folta, nordica, luterana… Prima di uscire dalla chiesa, vuota, dove sono l’unico corpo che si aggira tra i banchi deserti, mi fermo ad accendere una candela elettrica. Il filamento è incandescente a tratti, si spegne e si riaccende, crepita, e mi sembra che sia tutto il mio, il nostro tempo ora.

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