"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 16 agosto 2019

Storiedallitalia. 82 «Io faccio e farò sempre politica in classe».


Riporta Siegmund Ginzberg nel Suo straordinario volume “Risse da stadio nella Bisanzio di Giustiniano” (Rizzoli editore, 2008, pagg. 406, € 19.00) - con sottotitolo “le notizie di ieri raccontano il mondo di oggi” - molto esplicativo ed attinente assai alla miserevole, recente storia della politica del bel paese, riporta alla pagina 364 del Suo lavoro – capitolo che ha per titolo “Chiare, fresche e dolci tasse” – quanto l’Aretino – l’Aretino chi? formulerebbe stupito il “capitano della lega” – annotava a proposito dei reggitori della cosa pubblica: «non v’è stoltezza maggiore né cosa più contraria alla conservazione del principato che il volere da tutti essere temuto. (…). …nessuno può essere così stolido e ignorante da non rendersi conto che timore e sicurezza non possono stare insieme».
È come – il sottotitolo del volume rende bene il valore di quel lavoro editoriale - se un arguto argomentatore a noi contemporaneo venisse a dipingerci la figura di quel “capitano” con le aggettivazioni del grande poeta. E più oltre – alla pagina 368 - Siegmund Ginzberg riporta di quel grande quali debbano essere le preoccupazioni dell’uomo pubblico e da cosa lo stesso dovesse convenientemente riguardarsi per il bene del suo ufficio: «Fin qui delle cure che ad un principe si convengono per provvedere alle cose più necessarie non so se poco o se troppo abbia io parlato. Del lusso nei banchetti, nei teatri…ed in altrettanti spettacoli che nulla apportano di vantaggio, e e recan solo breve, non sempre onesto né di animi onesti degno diletto, benché assai se ne piaccia quel falso estimatore delle cose che è il volgo, io son d’avviso doversi un buon principe dare alcun pensiero». L’Aretino chi? blatererebbe quel “capitano” di sventura. Mi giunge dall’amico carissimo Gerardo C. una lettera fortunosamente sottratta all’oblio della Rete, lettera a firma di un insegnante della scuola pubblica del bel paese. Scrive l’insegnante a firma Enrico Galiano: Caro Ministro dell’Interno   Matteo Salvini, ho letto in un tweet da Lei pubblicato questa frase: “Per fortuna che gli insegnanti che fanno politica in classe sono sempre meno, avanti futuro!”. Bene, allora, visto che fra pochi giorni ricominceranno le scuole, e visto che sono un insegnante, Le vorrei dedicare poche semplici parole, sperando abbia il tempo e la voglia di leggerle. Partendo da quelle più importanti: io faccio e farò sempre politica in classe. Il punto è che la politica che faccio e che farò non è quella delle tifoserie, dello schierarsi da una qualche parte e cercare di portare i ragazzi a pensarla come te a tutti i costi. Non è così che funziona la vera politica. La politica che faccio e che farò è quella nella sua accezione più alta: come vivere bene in comunità, come diventare buoni cittadini, come costruire insieme una polis forte, bella, sicura, luminosa e illuminata. Ha tutto un altro sapore, detta così, vero? Ecco perché uscire in giardino e leggere i versi di Giorgio Caproni, di Emily Dickinson, di David Maria Turoldo è fare politica. Spiegare al ragazzo che non deve urlare più forte e parlare sopra gli altri per farsi sentire è fare politica. Parlare di stelle cucite sui vestiti, di foibe, di gulag e di tutti gli orrori commessi nel passato perché i nostri ragazzi abbiano sempre gli occhi bene aperti sul presente è fare politica. Fotocopiare (spesso a spese nostre) le foto di Giovanni Falcone, di Malala Yousafzai, di Stephen Hawking, di Rocco Chinnici e dell’orologio della stazione di Bologna fermo alle 10.25 e poi appiccicarle ai muri delle nostre classi è fare politica. Buttare via un intero pomeriggio di lezione preparata perché in prima pagina sul giornale c’è l’ennesimo femminicidio, sedersi in cerchio insieme ai ragazzi a cercare di capire com’è che in questo Paese le donne muoiono così spesso per la violenza dei loro compagni e mariti, anche quello, soprattutto quello, è fare politica. Insegnare a parlare correttamente e con un lessico ricco e preciso, affinché i pensieri dei ragazzi possano farsi più chiari e perché un domani non siano succubi di chi con le parole li vuole fregare, è fare politica. Accidenti se lo è. Sì, perché fare politica non vuol dire spingere i ragazzi a pensarla come te: vuol dire spingerli a pensare. Punto. È così che si costruisce una città migliore: tirando su cittadini che sanno scegliere con la propria testa. Non farlo più non significa “avanti futuro”, ma ritorno al passato. E il senso più profondo, sia della parola scuola che della parola politica, è quello di preparare, insieme, un futuro migliore. E in questo senso, soprattutto in questo senso, io faccio e farò sempre politica in classe. Ma cosa ne può sapere quel “capitano” lì dell’essere insegnanti? Nulla. Come può percepire quel “capitano” lì la tensione propria di chi nella scuola ambisce a non essere un meccanico trasmettitore di sterili nozioni ma quel punto di riferimento ben evidenziato nella lettera affinché i ragazzi non siano indotti erroneamente «a pensarla come te a tutti i costi». Lo capirà mai quel “capitano” lì che lo sforzo di tanti professori nella scuola è di superare lo stadio dei trasmettitori di nozioni per ambire a divenire “Maestri” di vita? Lo capirà mai quel “capitano” lì? Ne dubito. Ha scritto il pedagogista Raniero Regni sulla rivista “School in Europe” in “Essere insegnanti, divenire maestri”: «(…). Un maestro ti aiuta a conquistare uno stile, ovvero il contrassegno di quello che sei in quello che fai. Possedendo e mostrando il suo ti aiuta a conquistare il tuo. I grandi maestri (…) arano a fondo nel terreno dell’umano, sono primitivi e inattuali, non si gingillano con le cose senza peso, escono e fanno uscire dal quotidiano, non fermano quando li si incontra, né inducono a fare la loro strada, ma invogliano a cercare liberamente ognuno la sua e percorrerla. (…)». Quel “capitano” lì non lo potrà mai e poi mai comprendere. Scrive Siegmund Ginzberg alle pagine 381-382 di quello straordinario volume a proposito del lavoro teatrale “Aspettando Godot” Samuel Beckett: «Vivere è attendere. Politica è attendere. Si può attendere con fiducia, speranza, addirittura fede, e attendere con disperazione. O anche solo con rassegnazione, perché tanto non si può fare altro che attendere. Si può attendere la salvezza, o attendere catastrofi, senza che vangano né l’una né le altre. Quando qualcosa viene si ricomincia da capo, ad attendere qualcos’altro. Tutto è attendere, tutti attendiamo. Il problema però non è solo cosa attendiamo e se verrà (l’unica cosa assolutamente certa tendiamo a non attenderla, e quando viene spesso è inattesa). Ce n’è un altro, che emerge con prepotenza dalle battute del Godot: la noia dell’attesa».   

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