"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 24 agosto 2019

Letturedeigiornipassati. 33 Paolo di Tarso: «O morte dov'è la tua vittoria, dov'è il tuo pungiglione?».


Tratto da “Una fine serena è possibile” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del 24 di agosto dell’anno 2013: (…). Per comprendere l'esperienza di una morte serena occorre uscire dalla tradizione giudaico-cristiana (dove si muovono credenti, atei e agnostici) e tornare alla cultura greca, che, proprio sul problema della morte, ha perso la partita con la cultura cristiana.
A differenza dei cristiani, infatti, i Greci ritenevano che l'uomo non è al vertice dell'ordine naturale, con tutti i viventi a lui subordinati, ma, al pari di tutti i viventi, appartiene alla natura, da loro pensata come "quello sfondo immutabile, regolato dalla legge della necessità, che nessun uomo e nessun dio fece" (Eraclito). Per questo, pur avendo due nomi: ánthropos e anér per dire "uomo", non li utilizzavano quasi mai, preferendo i termini brotós all'epoca di Omero e thnetós all'epoca di Platone, che significano "mortale". I Greci prendono sul serio la morte e non si concedono quelle che Eschilo chiama "cieche speranze (týphlàs elpídas)". Qui sta l'essenza tragica della cultura greca, secondo la quale l'uomo per vivere è costretto a costruire un senso, in vista della morte che è l'implosione di ogni senso. Per i Greci la contrapposizione non è tra la vita e la morte, come nella concezione cristiana, secondo la quale, dopo la resurrezione di Cristo, San Paolo può dire: "O morte dov'è la tua vittoria, dov'è il tuo pungiglione?" (1 Cor. 15,55), ma tra la vita della natura, che per la sua economia esige la morte dei singoli individui, e la vita degli individui, che rifiutandosi di consegnarsi alla morte cercano di allontanarla con il sapere e la conoscenza (máthesis). E di dominare il dolore con la virtù (areté), intesa come forza e coraggio di vivere. Per il greco antico, infatti, non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché fondamentalmente si deve morire. E perciò, quando la natura ti concede la vita, espandila più che puoi, e quando sopraggiunge il dolore reggilo e astieniti dal metterlo in scena (substine et abstine). Promettendo una vita oltre la morte (Nietzsche ne parla come del "colpo di genio del cristianesimo"), la cultura cristiana supera la dimensione tragica della grecità e vince la sua partita nella storia, senza tuttavia convincere i Greci, che, quando ascoltano San Paolo che nell'Areopago di Atene annuncia la resurrezione dei morti: "Alcuni risero, altri dissero: questa storia ce la vieni a raccontare un'altra volta" (Atti degli Apostoli 17, 31-32). Per morire serenamente non è interessante essere atei o agnostici, ma aver interiorizzato la cultura greca, secondo la quale i singoli individui non sfuggono alla legge della natura, che nella sua crudeltà innocente esige per la sua economia la morte delle singole esistenze. E chi ha dedicato la sua vita alla conoscenza della natura, (…), queste cose le sa e muore serenamente. Ma occorre ribaltare il dibattito tra atei e credenti: ritornando ai greci antichi. Scriveva il teologo Hans Kung in “Resto cristiano anche se scelgo come morire” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 25 di febbraio dell’anno 2015: (…). Continuo a professare la prima delle quattro "norme immutabili" dell'etica mondiale, quella sul "dovere di una cultura del rispetto per ogni vita", proclamata dal Parlamento delle religioni mondiali a Chicago nel 1993: «Dalle grandi tradizioni religiose ed etiche dell'umanità apprendiamo la norma: Non uccidere. O in forma positiva: Rispetta ogni vita. Riflettiamo, dunque, di nuovo sulle conseguenze di questa antichissima norma: ogni uomo ha il diritto alla vita, all'integrità fisica e al libero sviluppo della personalità, nella misura in cui non lede i diritti di altri. Nessun uomo ha il diritto di tormentare fisicamente e psichicamente, di ferire o addirittura uccidere un altro uomo ». Tuttavia, proprio perché «la persona umana è infinitamente preziosa e deve essere assolutamente protetta», e questo sino alla fine, occorre riflettere con attenzione sul significato di queste parole nell'epoca della medicina tecnologicamente avanzata, che è in grado di provocare la morte in modo perlopiù indolore ma, in molti casi, anche di protrarla in misura considerevole. (…). Nella vita di tutti i giorni, l'individuo può provare la piccola felicità di un istante di soddisfazione, per esempio quella data da una parola gentile, un gesto cordiale o il ringraziamento per una buona azione. A volte può anche conoscere la grande felicità di un'esperienza momentanea esaltante, come il trasporto della musica, il contatto travolgente con la natura o l'estasi dell'amore. C'è solo una cosa che l'uomo non è in grado di fare: prolungare il buonumore. La supplica che Faust rivolge al momento del massimo gaudio – «Fermati, sei così bello!» – non è pronunciata per caso e resta inascoltata. All'uomo, tuttavia, anziché una felicità perpetua, sembrerebbe possibile un'altra cosa: una serenità di fondo stabile che gli impedisca di perdere la speranza, persino nelle situazioni disperate, e che alimenti la sua fiducia. In altre parole, accettare, in linea di massima, la vita così com'è, ma senza rassegnarsi a ogni cosa. Una serenità di fondo consente pertanto di vivere in armonia, in pace con se stessi. Mi domando allora: un simile atteggiamento non si può conservare anche di fronte alla fragilità e alla caducità umane, fino alla morte? (…). L'intenzione di non protrarre a tempo indeterminato la mia esistenza terrena è un caposaldo della mia arte del vivere e parte integrante della mia fede nella vita eterna. Quando arriva il momento, ho il diritto, qualora ne sia ancora in grado, di scegliere con la mia responsabilità quando e come morire. Se mi venisse concesso, vorrei spegnermi in modo consapevole e dire addio ai miei cari con dignità. Per me, morire felici non significa morire senza malinconia né dolore, bensì andarsene consensualmente, accompagnati da una profonda soddisfazione e dalla pace interiore . Del resto, è questo il significato della parola greca euthanasia , entrata in molte lingue moderne, ma storpiata vergognosamente dai nazisti: "morte felice", "buona", "giusta", "lieve", "bella". Un autentico Requiescat in pace ( «Riposi in pace»), insomma. (…). …questa eutanasia non ha nulla a che vedere con un "auto-assassinio" arbitrario ed empio, pianificato per provocare l'autorità ecclesiastica, come mi accusano alcuni sia sui media sia con lettere personali. Evidentemente, però, certi rappresentanti della "dottrina ecclesiastica", da cui la mia concezione si dissocia, non hanno ancora capito che anche la nostra visione dell'inizio e della fine della vita umana si trova al centro di un mutamento di paradigma epocale, che non si può penetrare e dominare con l'immaginario e la terminologia della teologia medievale né con quelli della teologia ortodossoprotestante. Oggi è necessario prendere in considerazione il notevole prolungamento della vita consentito dai progressi, prima inimmaginabili, della medicina moderna e dell'igiene, ma bisogna tenere conto anche delle idee successive, che sottolineano i limiti di una medicina basata su argomenti e criteri esclusivi delle scienze naturali e della tecnica. È aumentata la percezione della necessità di dare un fondamento etico a una medicina globale che tuteli l'umanità del paziente. (…).

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