"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 11 luglio 2019

Sullaprimaoggi. 96 «Non sappiamo un bel niente. Ma siamo convinti di sapere tutto».


Ha scritto Alessandro Robecchi in “Matteo e le parole vietate. Al senso del ridicolo manca il “quanto mangi!” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 3 di luglio 2019: (…). Fa abbastanza ridere che nell’era della comunicazione totale, della libertà d’espressione totale, della rete totale, ci sia da qualche parte una “lista nera di parole” che non si possono usare perché Salvini si irrita. Ma insomma, per qualche minuto ognuno ha fatto le sue prove: “49 milioni” no, il commento sulla bacheca salviniana non passa; “Quarantanove milioni” sì, passa. E naturalmente via con i 48+1, i 50-1, a esaurimento scorte, e si sa che la matematica è inesauribile (personalmente, suggerisco sette al quadrato, ho controllato, non è nella lista nera).
Altre parole che erano nella lista nera ora sono uscite dalla lista nera, potete scriverle sui muri, sulle fiancate della macchina, nelle lettere alla fidanzata, e persino sulla pagina FB di Salvini, parole come “Siri” (il sottosegretario dimissionato) o “Trota”, l’indimenticato pargolo. Dentro e fuori, parole permesse, parole vietate, parole amnistiate, a seconda del momento e della bisogna. Risultato: applicare una censura così rozza (vietare una parola) è sempre una fesseria, perché per due giorni si è parlato molto di quella parola, dei 49 milioni e, in subordine, di quanto sono scemi i censori di ogni ordine e grado. Come sempre, il diavolo sta nei dettagli: brutta l’idea di creare un piccolo universo di parole sgradite al Capo e quindi vietate, ma decisamente grottesco il gesto in sé, l’esecuzione dell’opera, diciamo. Cioè uno si alza la mattina, raggiunge il suo posto di lavoro, accende il computer e digita la parola vietata: una triste vicenda umana (ancora più triste, se considerate che è pagato da noi tutti, essendo lo staff della disinformatsijasalviniana passato al libro paga del ministero). Insomma, che alla fin fine Salvini sia il grande comunicatore circondato da geniali comunicatori è dura da credere: al momento si registra un passaggio dalle cose commestibili ritratte insieme al leader (aperitivi, mozzarelle, cotechini), a piante e fiori, in vaso o recisi (azzurri, rosa, gialli), sempre naturalmente seguiti da “bacioni” o domande retoriche (“Faccio bene?”). È questione peregrina e di poco conto: il sentimentdel paese è di battagliera contrapposizione, e la sensazione è che Salvini potrebbe farsi immortalare mentre bastona un cucciolo di foca o annega dei gattini e “i suoi” lo applaudirebbero comunque, quindi non sarà l’astuzia un po’ nordcoreana di vietare una parola a farlo sembrare ridicolo agli occhi dei suoi. E però la cosa resta lì, sospesa, minacciosa. Vietare le parole, le espressioni sarcastiche, i motti di spirito, le barzellette, ha sempre portato ai censori una sfiga notevolissima. Non saremo alla melma maleodorante del breznevismo, quando il Kgb batteva i bar alla ricerca di barzellettieri d’opposizione, ma insomma, c’è una vena di ridicolo nel parlare costantemente a nome del popolo (che è di 60 milioni, e non di 9, come i voti della Lega) e poi vietare al popolo di scrivere “49 milioni”. Anche senza tirare in ballo Orwell, la neolingua, gli algoritmi, le strategie, la censura e l’apocalisse, rimane il fattore umano: un tizio è andato lì e con le sue manine ha inserito una parola “vietata”. Magari l’ha fatto sentendosi molto furbo, magari ha solo “eseguito un ordine”, oppure pensa che siamo tutti scemi: tre cose, anche queste, che prima o poi ti fanno finire male. Bene, ma perché ricorrere all’“astuzia un po’ nordcoreana” come fa l’ottimo Robecchi per capire lo stato delle cose nel bel paese quando ci soccorre egregiamente il post di Fabio Amato, pubblicato sul sito www.ilfattoquotidiano.it il 7 di giugno dell’anno 2018, che ha un titolo illuminante assai sulla natura e caratura della politica nel bel paese, politica del momento e non: “Non è il fascismo di governo che mi terrorizza, ma quello dentro di noi”. Scriveva a quel tempo nel Suo post Fabio Amato: In questi primi giorni di governo (il 6 di giugno dell’anno 2018 la Camera accordava la fiducia al governo Conte con 350 voti favorevoli, 236 contrari e 35 astenuti ed anche l’inatteso “sì” di Vittorio Sgarbi che nella sua dichiarazione di voto ha sostenuto: “Dove c’è il disordine io prospero” n.d.r.) in molti stanno sentenziando sui primi vagiti dell’esecutivo Conte. Lascio volentieri a loro l’esercizio della certezza, da cui mi astengo sollevato. Certo, la mole di interrogativi è abbastanza ampia da non essere benaugurante. Tralascio i grandi temi come Europa, giustizia, tasse, lavoro e scuola, perché ho la sensazione che si stiano sprecando fiumi di parole sul nulla, se momentaneo o eterno si vedrà. Gli interrogativi che mi agitano sono molto più triviali. Forse persino sciocchi. Mi chiedo, con tenerezza, se il presidente del Consiglio Giuseppe Conte abbia ritrovato i suoi preziosi appunti, e che cosa ci fosse scritto di così importante da agitare così palesemente l’alfiere del cambiamento che, da professore, dovrebbe avere anticorpi potenti contro lo stress da esame orale. Mi chiedo se le sue dotte citazioni – Dostoevskij, Beck – fuse a freddo e per giunta accazzo, fossero concordate con i suoi padroni o se non li abbia invero indignati facendo sfoggio di cultura letteraria. Mi chiedo poi se il Matteo Salvini con la cravatta conosca quello senza cravatta e perché il primo abbia messo i calzini da boscaiolo dandy di fronte a Mattarella. Mi chiedo se il ministro Luigi Di Maio abbia una idea in testa che non sia “siamo al lavoro per creare lavoro”. Quantomeno uno slogan nuovo, da esibire a giorni alterni per non sgualcire la parola Lavoro in modo così fastidioso, dopo avere sgualcito le istituzioni con l’arroganza de “Da oggi lo Stato siamo noi”. Mi chiedo come siamo arrivati ai congiunti senza nome e ai congiuntivi senza futuro. Se siete arrivati fino a qui e non avete ancora avuto la tentazione di chiamarmi Piddino o forzaitaliota, vi dirò che – sarò sincero – il programma non mi turba. Forse perché attribuisco al nuovo esecutivo una capacità di tradurlo in fatti pari a zero: i geni della lampada possono esaudire fino a tre desideri, non 40 pagine di sogni. Quel che mi spaventa, e lo avrete capito dal tenore dei miei interrogativi, non è l’approssimazione nei fatti, ma l’approssimazione delle idee, del contegno, della forma di questo governo. Non incapperò nella tentazione di dare del fascista a Salvini perché non è questo che temo. Né gongolerò nel tantopeggiotantomeglio di uno Sgarbi sinceramente divertito e compiaciuto da dominio “del disordine e dell’ignoranza”. Quel che temo è che queste persone abbiano rovinato il mio Paese, prima. Che siano essi stessi figli di un Paese rovinato, degradato, rotolato a valle come una frana di fango che parte da Craxi e arriva fino a Berlusconi, Renzi. Chi li ha votati e ora li sostiene gioisce perché condivide la retorica semplificatoria, l’accattonaggio elettorale, la demagogia a ideologia variabile, lo strepitare, il minacciare costante, il nuovismo fine a se stesso. Condivide le dirette Facebook senza contraddittorio spacciate per trasparenza e i proclami di sovrani smaccatamente razzisti che fingono di essere Salomone. Sono terrorizzato non dal fascismo che è nel governo, ma dal fascismo dentro di noi che queste macchiette svegliano e agitano costantemente. Consumatori di politica come di prodotti, totalmente privi di una idea stabile del mondo, figurarsi del futuro, di una aspirazione comunitaria invece che solitaria. Analfabeti della lingua e delle culture del mondo, viaggiatori di esistenze low-cost che vanno da punto a punto senza mai attraversare gli spazi intermedi che separano le realtà. Non sappiamo un bel niente. Ma siamo convinti di sapere tutto. E delle due cose la seconda è la peggiore: difendiamo strenuamente il vuoto dall’invasione di concetti più lunghi di 140 caratteri, siamo avvitati in un linguaggio misero per pensieri altrettanto miseri. Cosicché se anche avessimo pagine e pagine bianche per poterci esprimere non avremmo niente da dire. E questa forse è la conseguenza più drammatica: non crescono più i Berlinguer, non crescono i Carniti (grazie a chi me lo ha fatto conoscere), non crescono le Segre (un qualunque dio la preservi a lungo in quel Senato), perché la terra che li aveva coltivati è abbandonata da tempo, la lingua che li animava sta morendo. E le idee che ne erano la linfa sono quotidianamente sbeffeggiate e derise da chi avrebbe dovuto esserne il guardiano.

Nessun commento:

Posta un commento