"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 17 luglio 2019

Strettamentepersonale. 22 In morte di Andrea Camilleri.


A lato: il poster dello spettacolo mancato "Autodifesa di Caino".

Abbiamo amato Andrea Camilleri da subito, dalla prima lettura che ne facemmo. Si era in viaggio per quelle “trasferte” che, dal profondissimo Sud, motivi urgenti ci impongono e che molto opportunamente vengono definite “viaggi della speranza”.
Si era nei primissimi anni ottanta. E nel corso di quel lungo, lunghissimo viaggio, acquistammo in un “Autogrill” un lavoro di quel grande: era, “La concessione del telefono”. Non ne avevamo letto sulle riviste e non ne conoscevamo il contenuto. Ma fu un rapimento sin dalle prime righe. E sì che mia moglie, essendo siciliana, aveva modo di apprezzare prontamente le inflessioni di quello scrivere, poiché quello scrivere – che è come un parlato – le faceva vibrare le corde dei ricordi e della nostalgia. Ma al pari suo ne fui rapito immediatamente anch’io. Aprimmo il libro della Sellerio appena giunti a Siena, e la sera, seppur stanchi per il lungo viaggio, non ci addormentammo senza aver portata a termine quella straordinaria lettura. Non potremo mai e poi mai dimenticare le grandi (grasse) risate – ché ci si doveva contenere per non disturbare gli ospiti delle camere confinanti di quell’albergo -. E fu un ridere con i lucciconi agli occhi sino alla notte inoltrata. E sì che all’indomani avremmo dovuto interessarci del motivo urgente di quel “viaggio della speranza”. Ma ridemmo tanto che oggi che il “nostro” Andrea ci ha lasciati sentiamo il dovere – sì, proprio il dovere umano - di dirgli: grazie, grazie Andrea Camilleri! E poi passammo sempre in quel di Siena alla lettura del “Birraio di Preston”; un altro gioiello! E poi, “La bolla di componenda”, “Il corso delle cose”, e tanti, tantissimi altri negli anni. Oggi ci sentiamo di confessargli amorevolmente che da quelle letture non ci siamo mai più distaccati. Una colpa nostra? Una mancanza di “rispetto” per Lui? Sappiamo bene che Andrea non l’avrebbe presa così, per come ce lo fa pensare l’averlo conosciuto attraverso il suo scrivere. E pubblicamente scontiamo la “trascuratezza” – chiamiamola così – nei Suoi confronti che abbiamo avuto allorché il Suo personaggio a furor di popolo ha sfondato nella editoria, nella televisione, nel cinema. Non ce la sentivamo di aggiungerci al codazzo dei turiferari di turno. E così siamo rimasti attaccati a Lui – come con un cordone ombelicale – attraverso le nostre prime, straordinarie - nelle linguistica e nelle invenzioni – Sue creazioni letterarie. Andrea, non avercene a male! Continueremo Andrea a ricordarti, ad amarti, per tutto ciò che di gradevole ci hai elargito in tutti questi anni. Il 15 di luglio – appena due giorni addietro – avresti dovuto recitare il Tuo monologo “Autodifesa di Caino” – poiché Tu stavi dalla parte di Caino”, vero?  – alle Terme di Caracalla in Roma. Invece hai preferito prepararti per il Tuo ultimo viaggio. Ciao, Andrea! Ci è rimasta questa Tua ultima intervista concessa a Marco Cicala e pubblicata sul settimanale “il Venerdì” del 7 di giugno; un ultimissimo Tuo dono per noi che Ti sopravviviamo. Ci mancherai! Il titolo di quella Tua ultima intervista (lo conoscevi?) è “Invito in scena con delitto”: (…). Lei ha debuttato nel romanzo a 53 anni, era il 1978, con Il corso delle cose. Anche lì la trama ruotava intorno a un omicidio. Quasi tutta la sua traiettoria letteraria si snoda sotto il segno del delitto. Come ce e se lo spiega? "A modo mio, mi sono sempre occupato del Male. Come lei sa, non sono scrittore di fantasia, parto sempre dalla realtà. E, quando ho cominciato con i romanzi, la realtà erano i morti di mafia, non si contavano più, non si parlava d'altro. A me questa cosa non andava giù".
In che senso? "Nel senso che nei miei libri avrei voluto parlare anche d'altro. Così, nel Corso delle cose trovai una soluzione che in seguito non avrei più abbandonato. Accanto a quel macigno che è la mafia ho sempre cercato di mettere elementi di controcanto. Nel primo romanzo valorizzavo per esempio il senso dell'amicizia che c'è in Sicilia".
Mafioso o no, mi racconti un fattaccio siciliano che segnò l'immaginario del giovane Camilleri. "Uuuh... Ce n'è un'infinità".
Ne scelga uno. "A metà degli anni Cinquanta c'erano ad Avola due fratelli contadini che si odiavano a morte da sempre, per il possesso della terra. 'La terra significa guerra' dice il proverbio. Beh, un giorno uno dei due sparisce. Nella stalla del fratello trovano tracce di sangue. I carabinieri raccolgono altre prove. Fino a decidere che l'omicidio è stato compiuto a pietrate e il corpo fatto sparire. La gente è inorridita. Sulla spinta dell'emozione, la Corte d'Assise condanna il contadino all'ergastolo".
Anche in assenza di cadavere. "Proprio così. Il morto non si trova. Però qualche tempo dopo, in un paesino a una cinquantina di chilometri, un commissario di Pubblica sicurezza riceve una mezza soffiata e si mette a battere un'altra pista. Indaga e scopre che nessuno è stato assassinato. Il contadino scomparso si è nascosto: aveva architettato una messinscena perfetta per mandare l'odiato fratello a marcire tutta la vita in galera".
A confronto, Caino e Abele erano due paciocconi. Ma ci arriveremo. Prima volevo chiederle se sul Camilleri giallista abbiano inciso, oltre alle letture, anche esperienze personali. Ed eventualmente quali. "Non le ho mai raccontato di quando mi trovai in mezzo a quella strage di mafia?".
A me no. "Ebbene, quando tornavo a Porto Empedocle andavo a farmi un whisky in un certo bar. Il proprietario era un tipo simpatico. Esordiva sempre dicendo: 'Dottor Camilleri, il primo giro è offerto'. Una sera di settembre aveva appena smesso di piovere e la gente era scesa tutta in strada. C'era un'atmosfera di festa. Andai al solito bar, ma lo trovai chiuso. Dopo un lungo giro, mi infilai nell'ultimo caffè del paese. Tra la folla, di spalle, c'era un uomo appoggiato al bancone. Quando ordinai il mio whisky il tizio si voltò e mi disse: 'Lei stasera mi tradisce'. Era il padrone del bar dove andavo di solito. Gli risposi: 'Casomai è lei che tradisce sé stesso'. Lui rise e mi disse: 'Posso avere l'onore di averla al mio tavolo fuori? Vorrei presentarle mio padre e un amico'. Mi precedette. Mentre mi apprestavo a seguirlo col whisky in mano tutte le bottiglie dietro al bancone esplosero. Il rumore era quello inconfondibile delle mitragliette. Un rumore osceno. Assomiglia a quello di certi cagnetti arrabbiati quando si mettono ad abbaiare".
Porto Empedocle come Chicago. "Un massacro. Più che di paura, la mia reazione fu di rabbia. Chiesi al barista una pistola, volevo sparare. Lui mi disse: 'Stasse calatu', stia giù. Mi abbassai, ma non più di tanto, perché c'era sangue dappertutto e non volevo sporcarmi il vestito. Alla fine, sei morti. E il bersaglio sa chi era?".
No, ma un sospetto ce l'ho. "Il barista che mi aveva invitato al suo tavolo. Lui, suo padre e il guardaspalle erano mafiosi di pura razza. Ma io che tornavo in paese per tre giorni l'anno che potevo saperne? Era il momento nel quale i giovani, i cosiddetti stiddari, cercavano di sostituirsi alla vecchia mafia".
Di assassini ne avrà conosciuti. "Questa domanda mi mette a disagio. Assassini... che dirle? Sono cresciuto assieme a un grosso mafioso che sarebbe stato condannato all'ergastolo. Ma come faccio a definirlo 'assassino'? Me lo ricordo bambino... Giovanni era figlio di contadini, io di un proprietario terriero, andavamo a scuola, giocavamo assieme... Un giorno mio padre mi disse: 'È sulla mala strada, cerca di non frequentarlo'. Eppure con me continuava a essere affettuoso, quando arrivavo a Porto Empedocle da Roma mi faceva sempre trovare la ricotta fresca... Assassino? Sa, i rapporti mutano... Giovanni tentò di sfuggire alla morte scappandosene in Canada. Gli chiesi: perché te ne vai? E lui - sempre elegante, un bel ragazzo - rispose: 'Nenè, parto perché questo Paese è diventato ingovernabile'. S'era messo a parlare come un prefetto!".
Perché Camilleri torna a teatro? "Perché sono un contastorie. In fondo non sono mai stato altro".
L'anno scorso il monologo sul greco Tiresia, adesso sul biblico Caino, il prototipo di tutti gli omicidi, un po' il patrono di voi giallisti. Lei lo riabilita. "Nella tradizione ebraica, e in parte anche in quella musulmana, esistono una miriade di controstorie che ci raccontano un Caino molto diverso da quello della Bibbia. Su queste abbiamo lavorato".
Che dicono? "Per esempio che né lui né Abele sarebbero figli di Adamo ed Eva".
E di chi allora? "Abele dell'unione tra la donna e un arcangelo, Caino di quella tra lei e un demonio. Se ne ricava che l'infedeltà coniugale nacque contestualmente alla prima e unica coppia del mondo".
Vatti a fidare. "Non solo. In alcune di quelle antiche narrazioni lo scontro tra i due fratelli ne rovescia in qualche modo le posizioni rispetto al testo biblico. Quando vengono alle mani, Abele, che è il più grosso, sta per sopraffare Caino che per la prima volta nella storia dell'umanità legge negli occhi del fratello l'intenzione di uccidere".
Poi però avviene un ribaltamento. "Sì, ma uccidendo Abele, è come se Caino dicesse: se l'avessi lasciato fare sarebbe stato lui e non io il primo assassino dell'umanità".
Facendolo fuori lo salva dall'empietà dell'omicidio. "E lascia aperto un dubbio: forse non ero io quello condannato al Male in quanto figlio del demonio e lui quello destinato al Bene perché generato da un angelo. Viene fuori così la visione di un Male che non è legato alle nostre origini come una maledizione, ma è una nostra scelta".
Pure Caino è stato un grande incompreso. Il processo va rifatto. "C'è tutta una parte del mito che è affascinante, ma totalmente ignorata. È quella del Caino fondatore di città, inventore dei pesi e delle misure, della lavorazione del ferro... Ma soprattutto quella di Caino inventore della musica. Il Caino che dice: 'Ecco io so, ne sono sicuro, che davanti a Dio l'avere inventato la musica è valso più di ogni sincero pentimento'".
Però una volta lei ha detto: "Sono convinto che gli assassini e in genere i delinquenti siano sostanzialmente degli imbecilli". Ribadisce? "Assolutamente. Chi crede al delitto perfetto che cos'è se non un imbecille? Una minima cretinata lo tradirà. E del resto a che cosa porta il delitto? A nulla. Hai solo momentaneamente eliminato un ostacolo. A meno di non adottare il principio staliniano secondo il quale ogni uomo è un problema ed eliminato lui, eliminato il problema. Era un'idea a suo modo visionaria (risata). Solo che comporta morti a milioni".
Da regista, lei ha lasciato il teatro negli anni 70. Che effetto le fa tornarci adesso da attore? "Sono in tensione, ma relativa. È tale e tanto l'afflusso dell'adrenalina che non soffro più né il caldo né il freddo".
Ho letto che Strehler non apprezzava granché le sue regie. "Non le apprezzava per niente. Che vuole, non ci prendevamo...".
Con chi altri non s'è mai preso? "Con Cesare Garboli. Dei miei versi scrisse: 'Le poesie di Camilleri non resistono a una seconda lettura'. Alé!".
Torniamo a Montalbano. Quest'anno il commissario compie un quarto di secolo. Ma è vero che l'autentico modello del personaggio fu un suo parente? "Allude a Carmelo Camilleri, il cugino di mio padre?".
Lui. Chi era? "Un commissario della questura di Milano. Capo della squadra politica. Fascista brutale. Ma la sua vita cambiò il 12 aprile del '28, quando durante una visita di re Vittorio Emanuele III scoppiò una bomba che fece venti morti. Negli ambienti anarchici e comunisti vennero arrestate sei persone e condannate a morte. Però, indagando, mio 'zio' scoprì che all'origine dell'attentato c'erano faide tra fascisti. E da ligio funzionario mandò il rapporto ai suoi superiori, che lo trasmisero a Mussolini. Il quale, dopo averlo letto, scrisse a margine: 'Liquidate Camilleri', siglando il documento con la famosa Emme puntata. Carmelo Camilleri fu costretto a dimettersi dalla polizia, ma riuscì a far arrivare in Francia la sua relazione con gli atti probatori, che vennero pubblicati dal giornale comunista L'Humanité. Grazie al movimento d'opinione che ne scaturì, la pena di morte fu commutata in ergastolo".
Il whistleblower del Ventennio. "Sì, ma le autorità fasciste scoprirono subito che la fuga di documenti era partita da lui. Fu arrestato e spedito al confino. Lì conobbe dissidenti comunisti come Umberto Terracini. Scontata la pena tornò a casa, però nessuno voleva dargli lavoro e si ridusse a vendere sputacchiere. Dopo la Liberazione fu riabilitato. Sì, almeno inconsciamente, è stato lui il modello di Montalbano".
A 93 anni di che cosa ha paura? "Mi prenderà per vanitoso, e non è escluso che io lo sia, ma mi crede se le dico che in vita mia non ho mai avuto paura di niente?".
E certo. "Mi correggo. Di un solo tipo umano ho sempre avuto paura: 'o fesso. Come diceva Eduardo. Mi terrorizza l'ignorante supponente che ha solo certezze. Io scrivo libri perché sono un cultore del dubbio".
Però qualche anno fa confessò che essere diventato un romanziere di successo le aveva tolto la felicità originaria della scrittura. "Era un piacere, adesso è un lavoro" disse. E oggi che le sue storie è costretto a dettarle perché la vista le è volata via, come si sente? "All'epoca atttaversavo una fase di logoramento. Mi crede se le dico che invece oggi mi sento di nuovo felice?". E certo.

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