Da “Dove
nasce la rabbia da stadio” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale “D” del 14 di giugno dell’anno 2014: La violenza giovanile è solo un
sintomo di quello che Freud chiamava "il disagio della civiltà". Per
questo ha radici profonde, e per combatterla si deve partire da lontano. Il
filosofo Gomez Dàvila ha ragione quando dice che l'entusiasmo dell'imbecille degrada
il mondo, ma la domanda che oggi dobbiamo porci è perché ci sono così tanti
"imbecilli" che scambiano una competizione sportiva per una guerra.
Il calcio (…) apparteneva a un tempo che per i giovani era pieno di promesse,
mentre oggi, come scrive Miguel Benasayag in “L'epoca delle passioni tristi”
(Feltrinelli), è gravido di minacce. E quando il futuro non promette niente,
perché non vivere l'assoluto presente, scaricando ogni domenica tutta
l'aggressività covata per un futuro senza speranza? Paradossalmente mi verrebbe
da dire che gli ultrà che popolano le curve nord o sud degli stadi sono molto
più in sintonia col mondo attuale, quello che abbiamo loro preparato, di quanto
non lo sia chi depreca il loro comportamento. Non li giustifico, ovviamente, ma
mi chiedo perché i genitori hanno rinunciato al principio di autorità e
stabiliscono con i figli un rapporto simmetrico offrendosi come loro amici, per
poi dover giustificare ogni loro divieto, che se il genitore è un amico non ha
alcun effetto. Quando poi i genitori si accorgono che il rapporto amicale ha
concesso ai figli una libertà che non sanno gestire, allora recuperano
l'autorità perduta con l'autoritarismo, macchina perfetta per creare conflitti
che allontanano i figli dalla famiglia e li spingono in compagnie il più
possibile violente, ove poter scaricare l'aggressività che dentro hanno covato.
E poi la scuola, dove gli insegnanti si lamentano di non riuscir più a
insegnare (non dico "educare", missione impossibile) a giovani che
non credono in se stessi e nel mondo che li attende, e che vanno a scuola solo
per socializzare con quanti, simili a loro, si allenano al gioco
dell'adolescenza, che ha come suo motore propulsivo la trasgressione. Ho
conosciuto il medico di un Sert che, dopo essersi occupato di tossicodipendenza
in carcere, aveva pensato di intervenire anche per gli studenti di un istituto
professionale vicino alla prigione, dove si spacciava droga. Disse che sarebbe
stato opportuno spostare la sede del Sert in quell'istituto. Se le trasgressioni
e i conseguenti richiami all'ordine in famiglia fanno parte della normale
dialettica che contrappone la forza del desiderio giovanile al principio di
realtà, una volta trasportate nei quartieri, nelle manifestazioni e negli
stadi, le trasgressioni diventano ciò che una volta si chiamava "rito di
passaggio", con la differenza che l'Edipo non consumato con i genitori
viene scaricato sulla polizia, che non ha il compito di supplire le carenze
educative di famiglia e scuola. E a quel punto si gioca alla guerra. Allora,
(…), invece di rimpiangere i vecchi tempi, vediamo di capire se la
trasformazione dei nostri stadi in luoghi di violenza non sia il sintomo di
quello che Freud chiamava il disagio della civiltà, di cui i giovani di oggi si
fanno interpreti. Va da sé che per porvi rimedio non bastano, se pur necessari,
provvedimenti repressivi, perché le cause sono molto più profonde.
Nessun commento:
Posta un commento