"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 18 febbraio 2019

Terzapagina. 69 «Umberto Eco: ma c’è qualcosa che non scordo».


Tratto da “Contro la perdita di memoria” (prima parte), la “lectio magistralis” di Umberto Eco (mancato il 19 di febbraio dell’anno 2016) tenuta nel Palazzo di Vetro delle Nazione Unite il 21 di ottobre dell’anno 2013 e riproposta sul settimanale Robinson del quotidiano la Repubblica il 18 di febbraio dell’anno 2018 con il titolo “Ma c’è qualcosa che non scordo”: (…). La necessità della memoria. I mass media sono principalmente interessati al presente.
Accade sempre più spesso che in Italia i giovani (inclusi molti studenti universitari), quando interrogati su fatti che riguardano, diciamo, la Seconda guerra mondiale, non sanno come definire personaggi storici come Badoglio, Churchill o Roosevelt - o che pensino (come è realmente accaduto) che Aldo Moro fosse il leader delle Brigate Rosse. Peggio ancora, non sono in grado di raccontare qualcosa di preciso su eventi avvenuti dieci anni prima della loro nascita. Purtroppo, una tale perdita di memoria si sta verificando anche nel mondo degli eruditi. Se consulto un testo americano pubblicato oggi su un tema specialistico, posso rilevare che la bibliografia non va oltre gli anni Ottanta, cosa che può essere comprensibile per determinate scienze in corso di sviluppo, per esempio quelle che si occupano del bosone di Higgs, ma che è bizzarra se riguarda le scienze umanistiche. Ricordo di aver visto un libro di filosofia che a un certo punto menzionava una determinata idea di Kant e una nota a piè di pagina riportava "Vedere Brown 1982": i testi di Kant erano considerati troppo vecchi persino per essere inseriti in nota. In molti documenti fruibili online manca una data di rif erimento, mentre sarebbe importante sapere se sono stati elaborati nel 2009, 2010 o 2012: si è persa qualunque profondità temporale. Una leggenda dice che alla porta d'ingresso di un celebre dipartimento americano di filosofia era appeso un cartello con scritto "Ingresso vietato agli storici di filosofia". E ricordo una mia conversazione con un amico filosofo il quale mi aveva domandato: "Perché dovremmo conoscere la logica degli Stoici, se la logica formale ha fatto enormi progressi dai loro tempi ai giorni nostri ed è più efficace studiare un manuale contemporaneo piuttosto che una ricostruzione storica?". Gli risposi che: 1) se per caso gli Stoici si fossero sbagliati è importante conoscere anche la storia degli errori passati per evitarli e che per comprendere Copernico è fondamentale sapere perché Tolomeo avesse torto, dal momento che Copernico non iniziò da zero, ma iniziò criticando le idee di Tolomeo; 2) Non ignorare la storia della filosofia antica, o di qualunque altra disciplina, può aiutarci a non inventare l'acqua calda (come diciamo in Italia), e ci sono molti studiosi contemporanei che sprecano la propria intelligenza a riscoprire con sforzi vani idee che erano già state espresse in modo molto chiaro da pensatori antichi; 3) il vecchio detto historia magistra vitae (la storia è maestra di vita) è più serio di quanto comunemente si pensi, perché, se Hitler avesse letto qualcosa su Napoleone (o almeno Guerra e Pace di Tolstoj), avrebbe compreso che è piuttosto difficile per un esercito raggiungere Mosca prima dell'arrivo dell'inverno - e se Bush avesse letto racconti storici documentati sui tentativi inglesi e russi di vincere una guerra in Afghanistan nel Diciannovesimo secolo, avrebbe sospettato che quel Paese presenta molte caratteristiche orografiche e sociali che rendono molto difficile sottometterne il territorio. (…). Il problema che entra in gioco è che nessuna civiltà (nel senso antropologico della parola, intesa come sistema di idee scientifiche e artistiche, miti, religioni, valori e abitudini quotidiane) può sussistere e sopravvivere senza una memoria collettiva. Le società hanno sempre fatto affidamento sulla memoria per preservare la loro identità, a partire dal vecchio che, seduto sotto un albero, raccontava storie sullo sfruttamento dei suoi antenati e sul mito fondatore della tribù. E quando un qualche atto di censura spazza via una parte della memoria di una società, questa società attraversa una crisi di identità. Eccesso di memoria. Permettetemi ora di considerare il lato opposto del nostro tema: ovvero i danni di un eccesso di memoria. Ricordare troppo può finire in tragedia. Jorge Luis Borges ci ha raccontato la storia di Funes el Memorioso, e lasciate che io legga alcuni passaggi dal breve racconto di Borges: "Arrivo, ora, al punto più difficile del mio racconto; il quale (è bene che il lettore lo sappia fin d'ora) non ha altro tema che questo dialogo di mezzo secolo fa. Non tenterò di riprodurre le sue parole, ormai irrecuperabili. Preferisco riassumere con veracità le molte cose che Ireneo mi disse. [...] Ireneo cominciò con l'enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito; Mitridate Eupatore, che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonide, inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l'arte di ripetere con fedeltà ciò che aveva ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede si meravigliò che simili casi potessero meravigliare. Mi disse che prima di quella sera piovosa in cui il cavallo lo travolse, era stato ciò che sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. [...] Aveva vissuto diciannove anni come un sognatore: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, si dimenticava di tutto, di quasi tutto. Cadendo, perdette i sensi; quando li riprese, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così i ricordi più antichi e banali. Poco dopo s'accorse ch'era paralizzato; la cosa appena l'interessò; ragionò (sentì) che l'immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili. Noi, con un'occhiata, percepiamo tre bicchieri di vino su una tavola. Funes, tutti i tralci, i grappoli e gli acini d'una vite. Sapeva le forme delle nubi australi dell'alba del 30 aprile 1882 e poteva confrontarle, nel ricordo, con le venature della copertina d'un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche, ecc. Poteva ricostruire tutti i suoi sogni, tutti i suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva richiesto un'intera giornata. Mi disse: "Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini da che mondo è mondo". E disse anche: "I miei sogni sono come la vostra veglia". E anche, verso l'alba: "La mia memoria, signore, è come un immondezzaio". Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; lo stesso capitava a Ireneo con i crini scarmigliati d'un puledro, con il fuoco cangiante e l'innumerevole cenere, con una mandria di bestiame in una cuchilla, con i tanti volti d'un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo. [...] Mi disse che nel 1886 aveva scoperto un sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il ventiquattromila. Non l'aveva scritto, perché già il fatto d'averlo pensato una volta sola bastava per non cancellarlo. Il primo stimolo, credo, gli venne dal dispiacere che per il 33 in numeri arabi ci volessero due segni e due parole, al posto d'una sola parola e d'un solo segno. Applicò subito questo pazzo principio agli altri numeri. Al posto di settemilatredici diceva (per esempio) "Maximo Perez"; al posto di settemilaquattordici, "La Ferrovia"; altri numeri erano "Luis Melian Lafinur, Olimar, zolfo, i fiori (delle carte), la balena, il gas, la caldaia, Napoleone, Agustin de Vedia". Al posto di cinquecento, diceva "nove". Ogni parola aveva un segno particolare, una specie di marchio; gli ultimi erano molto complicati... Cercai di spiegargli che questa rapsodia di voci sconnesse era precisamente il contrario di un sistema di numerazione [...] Funes non mi sentì o non volle sentirmi. Locke, nel Diciassettesimo secolo, propose (e respinse) un linguaggio impossibile in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes aveva pensato, una volta, a un linguaggio analogo, ma l'aveva scartato perché gli sembrava troppo generico, troppo ambiguo. In effetti, Funes non solo ricordava ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ogni volta che l'aveva percepita o immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a un settantamila ricordi, da definire in seguito con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: la consapevolezza che il compito era interminabile e che era inutile. Pensò che all'ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia. I due progetti che ho detto (un vocabolario infinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini della memoria) sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere o di dedurre il vertiginoso mondo di Funes. Questo, non dimentichiamolo, era quasi incapace di idee generali, platoniche. Non solo aveva difficoltà a comprendere che il simbolo generico cane potesse designare molti disparati individui di varia dimensione e forma diversa; ma lo infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Swift racconta che l'imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d'un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell'umidità. Era il solitario e lucido spettatore di un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato con il loro feroce splendore l'immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade frenetiche, ha mai sentito il calore e la pressione d'una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sull'infelice Ireneo, nel suo povero sobborgo sudamericano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sul letto, nell'ombra, si figurava ogni fessura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era più minuzioso e più vivo della nostra percezione d'un piacere o d'un tormento fisico). Verso est, in un lotto di terra lontano, c'erano case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in quella direzione voltava il capo per dormire. Era anche solito immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annullato dalla corrente. Aveva imparato senza fatica l'inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo brulicante di Funes non c'erano che dettagli, quasi immediati. Il chiarore sospettoso dell'alba entrò per il patio di terra. Allora vidi il volto di quella voce che aveva parlato tutta la notte. Ireneo aveva diciannove anni; era nato nel 1868; mi parve monumentale come il bronzo, più antico dell'Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole (ciascuno dei miei gesti) sarebbe durato nella sua implacabile memoria; mi gelò il timore di moltiplicare inutili gesti. Ireneo Funes morì nel 1889, d'una congestione polmonare". Perciò, proprio per questa infelice virtù, Funes era un perfetto idiota. Non poteva fare più nulla... Ora, se qualcuno crede che il World Wide Web possa contribuire a rinforzare la nostra memoria degli eventi passati, consideriamo che il World Wide Web è già (o presto sarà) simile al cervello di Funes. Fino a ora la società ha filtrato le cose per noi, attraverso i libri di testo e le enciclopedie. Con l'arrivo del Web, tutte le possibili conoscenze e informazioni, persino le più inutili, sono lì a nostra disposizione. Quindi la domanda è: chi sta filtrando? L'estate scorsa stavo lavorando nella mia casa di campagna, senza i trentamila volumi che ho a Milano, e avevo bisogno di alcuni dati sull'Olocausto. Interpellai il Web e trovai un'incredibile quantità di siti. Conoscendo abbastanza bene la storia contemporanea, fui in grado di eliminare i siti che fornivano solo informazioni superficiali e fui lentamente in grado di selezionare, diciamo, i dieci siti che contenevano informazioni vitali. Cosa accade al profano che per la prima volta cerca sul Web delle informazioni elementari sull'Olocausto? L'incapacità di filtrare comporta l'impossibilità di discriminare. Per me, avere diecimila siti sullo stesso argomento equivale a non averne nessuno, perché un individuo (specialmente un giovane) non è in grado di selezionare quelli importanti e affidabili, e anche se fosse in grado non avrebbe tempo di esplorarli tutti. Abbiamo incrementato la nostra capacità di memoria, ma non abbiamo ancora trovato i nuovi parametri di filtraggio. Quando ci confrontiamo con il Web, non abbiamo a disposizione né una regola per selezionare le informazioni né una regola per dimenticare ciò che è inutile ricordare. Possediamo criteri di selezione solo nella misura in cui siamo preparati intellettualmente ad affrontare il calvario di navigare il Web. Necessitiamo di centri di formazione (la scuola, i libri, le istituzioni scientifiche, alcuni siti web) che ci insegnino come operare la selezione: deve essere inventata una nuova arte della decimazione. Altrimenti sette miliardi di abitanti di questo pianeta produrranno sette miliardi di diverse procedure di selezione ideologica. Il risultato potrebbe benissimo essere una società composta da identità individuali giustapposte (che mi sembra un segno di progresso), senza la mediazione di gruppi (che mi sembra un pericolo). Non so se una società di questo tipo sarebbe in grado di funzionare correttamente. Persino per inventare qualcosa di nuovo avremmo bisogno di un'enciclopedia condivisa dalla quale iniziare. (…). Fin dall'antichità classica, il problema del bisogno di dimenticare emerge parallelamente allo sviluppo di tecniche di memorizzazione attraverso le quali affidare alla memoria la quantità massima di informazioni (specialmente nei secoli in cui l'informazione non era facilmente ottenibile e trasportabile come è diventata, con l'invenzione della stampa prima e dei dispositivi elettronici poi). (Fine della prima parte).

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