"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 14 dicembre 2018

Sullaprimaoggi. 41 «Salvini non è un incidente della storia, non viene dal nulla».


Tratto da “I gilet gialli che qui sono potere” di Marco Damilano, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 9 di dicembre 2018: (…). A Roma, (…), i gilet sono al governo, il loro leader siede al vertice delle istituzioni, dove si sorveglia sull’ordine pubblico, e lo indossa verde (o blu), con la felpa, la maglietta con le stellette, la divisa dei pompieri e della polizia, il caschetto da operaio. La mattina salta su una ruspa, il pomeriggio offende, insulta, stabilisce l’elenco dei buoni e soprattutto dei cattivi: in questi ultimi giorni nella lista sono entrati il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio («non rappresenta i cattolici»), gli industriali e imprenditori riuniti a Torino («vadano a lavorare») e un servitore dello Stato come il procuratore capo di Torino Armando Spataro («vada in pensione»). Terminato il giro, la sera va in televisione e continua a dispensare propaganda. Interrogato da Massimo Giletti, è riuscito addirittura a cambiare il testo del Vangelo, spiegando che «è vero, c’è scritto che bisogna accogliere tutti, ma nei limiti del possibile». Prendano nota esegeti, teologi, parroci e semplici fedeli: il vangelo di Matteo, quello in cui si legge al capitolo 25 «ero straniero e mi avete accolto», è archiviato, sostituito da quello di Matteo Salvini in cui si dirà, più correttamente: mi avete accolto nei limiti del possibile. Sabato 8 dicembre il Gilet al governo ha convocato una piazza a Roma, approvando una campagna di comunicazione giocata tutta “contro”: contro chi non sta con lui.
La manifestazione di piazza del Popolo arriva a quasi quattro anni dalla svolta sovranista operata sullo stesso palco, il 27 febbraio 2015: da prima i padani a prima gli italiani. Restano nella memoria gli scontri di piazza il giorno precedente con i centri sociali che volevano impedire a Salvini di parlare a Roma, la piazza recintata e deserta la sera prima del comizio, i leghisti sbarcati dalla Padania disorientati nei bar del centro della Capitale ladrona, i falangisti di Casa Pound che calavano giù dal Pincio verso la piazza con le bandiere di una formazione messa su per l’occasione, Sovranità, con il simbolo delle spighe, il grano rigoglioso al vento che faceva tanto ventennio. Oggi il passaggio è compiuto, non c’è più bisogno di reclutare un partitino fascista per riempire la piazza di Roma, il popolo è con Salvini, lo confermano tutti i sondaggi, gli applausi degli studi, la tracotanza del leader. Il capo della Lega, il ministro dell’Interno, avrebbe il dovere di rappresentare tutti nell’alta sede istituzionale in cui si trova. Invece da sei mesi spacca l’Italia, ha trasformato la questione della sicurezza in una guerra contro un pezzo di Paese. Come nell’Ungheria di Orbán sui migranti c’è una escalation, un cambio di bersagli: prima gli sbarchi, poi le Ong che organizzano il soccorso in mare, poi la gestione dell’accoglienza, via i 35 euro a migrante, sinonimo di spreco e di malaffare, e pazienza se invece andavano a finanziare i corsi di formazione e di lingua, gli strumenti più utili per l’integrazione, via anche la protezione umanitaria, smantellato lo Sprar, il sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, che sarà limitato ai minori. Con i sindaci e l’associazione dei Comuni italiani che denunciano il pericolo di migranti all’improvviso rigettati per strada. Il Gilet di governo si comporta come se fosse sempre all’opposizione. Di chi non lo fa governare. Di chi esercita il diritto di critica e di dissenso. Gioca con il fuoco delle reazioni, quasi si augura che ci siano. A dirlo, all’inizio della settimana che si è conclusa con la manifestazione di piazza del Popolo, è stato un personaggio straordinariamente prudente, non abituato a lanciare allarmi a caso per finire sotto i riflettori, l’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni: «Si mette addosso a decine di migliaia di persone una lettera scarlatta, una C come clandestino. Queste persone saranno in qualche modo sospinte a comportamenti illegali. Per questo dico che è quasi una strategia della tensione. Si alimenta un’illegalità che è carburante per il proprio consenso», ha detto a Annalisa Cuzzocrea (Repubblica, 3 dicembre). La strategia della tensione, quella vera, cominciò il 12 dicembre di quasi cinquant’anni fa, (…), andava inquadrata negli anni della guerra a bassa intensità che è stata la guerra fredda tra Usa e Unione sovietica, nel periodo della contestazione e dell’autunno caldo, era una tragedia politica, con il suo carico di morti e di vite spezzate per sempre. (…). La nuova strategia della tensione è invece una sensazione di insicurezza privata, di paura personale, che richiede di essere sempre foraggiata. Prima i migranti, poi i ladri, gli spacciatori. Il mito della legittima difesa, il commerciante aggredito trasformato in eroe, l’illusione di poter privatizzare la difesa e la sicurezza che invece dovrebbero essere tutelate dallo Stato, dalle istituzioni. Si parla di armi e di video-sorveglianza, su tutto prevale l’approccio securitario alle questioni, dall’educazione a scuola alla solitudine nelle grandi città e nei piccoli centri, per mascherare i fallimenti del passato e quelli del futuro. «Il decreto sicurezza è l’emblema di una incapacità politica», scrive Aboubakar Soumahoro. È anche la bandiera di una destra che copre con la propaganda e con la ricerca di un nemico la difficoltà a mantenere le promesse elettorali. Sono tardive le reazioni delle associazioni di industriali e imprenditori, (…), riunite a Torino per dire di sì alla Tav e alle grandi opere e per suggerire la costituzioni di un fronte dei produttori contro l’immobilismo del governo gialloverde. Da quelle parti, dalle parti delle leadership delle associazioni, non si è brillato particolarmente negli ultimi anni per senso civico e per la cura dell’interesse generale: i Boccia, i Sangalli e gli altri hanno trasformato le assemblee dei loro aderenti in platee omaggianti per il premier di turno, da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, ancora alla fine di settembre il presidente di Confindustria a Vicenza aveva dichiarato il suo entusiasmo per il capo della Lega e la sua fede nelle capacità di Salvini, oggi provano a mettere in scena la preoccupazione di una classe imprenditoriale spaventata da annunci, smentite, proclami di guerre, riappacificazioni. Lo stesso discorso va fatto per l’altro pezzo di società italiana che in questi giorni si è schierato in polemica con il ministro leghista, quella parte di mondo cattolico che si ritrova nell’associazionismo storico (Azione cattolica, Acli, Comunità di Sant’Egidio, Fuci) e nell’attuale presidenza della Conferenza episcopale italiana vicina a papa Bergoglio. Il capo dei vescovi, il cardinale Gualtiero Bassetti, invoca «un impegno dei cattolici in politica per un’Europa solidale e non xenofoba», come ha titolato “Avvenire” dopo il convegno del 30 novembre in una sala affollata con Filippo Andreatta e Mauro Magatti tra gli intervenuti. Segni di risveglio, anche in questo caso dopo un lungo letargo delle gerarchie ecclesiastiche e delle associazioni che per decenni hanno lasciato incustodita la politica, ritenendo che fosse una cosa da grandi, uno scambio tra vertici, e che ora si ritrovano con un Salvini che sventola il rosario in piazza e insegna ai preti cosa c’è scritto nel Vangelo e con i fedeli della domenica sedotti dal verbo sovranista, abbandonati, come si dice ora nella nuova versione della preghiera del Padre nostro, alla tentazione di votare Lega. Salvini non è un incidente della storia, non viene dal nulla, così come non lo è il Movimento 5 Stelle. È il risultato di anni di incultura politica, di organizzazioni comunitarie che via via abdicavano al loro ruolo, di partiti che svanivano e che lasciavano il posto alla radicalizzazione della rabbia o alla disperazione che prepara brutte avventure. Vale per il centro moderato e vale ancora di più per la sinistra. La sinistra europea in crisi ovunque, oggi a guidare la Commissione per conto dei socialisti europei si candida l’olandese Frans Timmermans (…) e dà conto con sincerità di tutte le difficoltà in cui versa il Pse. In Spagna avanza l’ultradestra del partito Vox, guidato da un Salvini iberico del tutto identico all’originale, anche fisicamente. In Italia, proprio mentre ci si attendeva una riscossa dal congresso del Pd, è arrivata la resa dei conti tra i sostenitori della candidatura di Marco Minniti. E lo psicodramma Pd  ha un solo attore, con un piede dentro e uno fuori, quel Matteo Renzi che si muove da protagonista sulla scena e nel retropalco, consegnandoci un altro paradosso: chi è al governo come Salvini si comporta come se fosse all’opposizione e chi è all’opposizione come Renzi non ha mai fatto i conti con la sconfitta elettorale di quasi un anno fa. A proposito di opposizione: il sindacato è sparito dalla discussione sulla legge di bilancio, non si è vista la Cgil in particolare, alle prese con il suo congresso. Un altro vistoso vuoto a sinistra e nel mondo del lavoro. In molti chiedono, in questa situazione, da dove si ripartirà per ricostruire.  Dal mondo dell’accoglienza (…) o da un fenomeno antico, eppure nuovo. Nelle scuole italiane si occupa, come sempre. Ma la novità è che si parla di politica, non soltanto scolastica. Appena un anno fa avevamo raccontato la generazione dei quasi maggiorenni al primo voto come sfiduciata nella politica, disillusa, vicina ai sentimenti di ripulsa degli adulti, e per di più tentata dal voto per le formazioni di estrema destra. Da questo autunno arrivano segnali di controtendenza (…): nelle scuole si parla di migrazioni, di decreto sicurezza, di costruire una politica diversa da quella che domina nei sondaggi, in Parlamento, nei talk e in una fetta (per ora) maggioritaria del Paese, mentre nel ministero di viale Trastevere arrivano i sovranisti (…). Ancora presto per dire se sarà un movimento nuovo. Di certo è un seme gettato. Chissà se in un deserto.

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