"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 22 dicembre 2018

Riletture. 54 «Senza risorse per reggere da soli il buio della nostra notte».


Ha scritto Federico Rampini in “Diventare rinoceronti senza accorgersi”, pubblicato sul settimanale “D” dell’8 di dicembre 2018: Chi di noi ricorda la prima volta che vide per strada uno zombie umano camminare con gli occhi incollati allo schermo dello smartphone? Impossibile ricordarlo. Probabilmente la scena ci colpì solo per un attimo. (…). Chi ancora si ostina a camminare guardando gli altri negli occhi è destinato all’estinzione? Ci rendiamo conto della metamorfosi di massa cui ci hanno sottoposti i Padroni della Rete? Esperimenti da laboratorio su miliardi di esseri viventi. Cavie già affette da una mutazione irreversibile, temo: il sequestro dell’attenzione. Ha scritto Umberto Galimberti in “Così, tra un like e l’altro, siamo rimasti soli” - pubblicato sul settimanale “D” del 22 di dicembre dell’anno 2016 -: In quest'era di social network e di spudoratezza ci siamo esposti troppo. E abbiamo cominciato a dipendere dal giudizio degli altri. È questo il quarto flagello che si aggiunge a quelli evidenziati da Ryszard Kapuscinski (1932-2007) nel Suo volume “Imperium” (Feltrinelli) - «Tre sono i flagelli che minacciano il mondo. Primo, la piaga del nazionalismo. Secondo, la piaga del razzismo. Terzo, la piaga del fondamentalismo religioso. Tre pesti unite dalla stessa caratteristica, dallo stesso comun denominatore: la più totale, aggressiva e onnipotente irrazionalità. Impossibile penetrare in un mente contagiata da uno di questi tre mali» -? Un “flagello” non “predicato” ma non per questo meno temibile, anzi molto più subdolo e per questo sub-liminalmente pervasivo. Sostiene nella Sua riflessione Umberto Galimberti: (…). Venendo al tema, diciamo subito che "essere" è più complicato che "apparire", soprattutto in una società dei consumi come la nostra, dove la pubblicità delle merci, necessaria per farle conoscere, ha contagiato anche gli uomini, i quali, degradandosi al livello di merce, hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra, compensando l'individualità mancata con la pubblicità dell'immagine. Siamo diventati tutti "es-posti", ossia "posti fuori da noi" per cui la nostra identità più non ci appartiene, perché è laggiù in ciò che si vede e si dice di noi. Per effetto di questa esposizione chi non si mette in mostra - in un mondo che è diventato una "mostra" che non è possibile non visitare, perché comunque ci siamo dentro - chi non è irradiato dalla luce della pubblicità, non lo riconosciamo, anzi di lui neppure ci accorgiamo, al limite non c'è. Di qui tutto quel darsi da fare per apparire, perché più non riconosciamo un nostro essere e, per via di questo mancato riconoscimento, la nostra identità è affidata agli altri. Siamo infatti nelle mani degli altri, al punto che il nostro pensare e il nostro sentire, la nostra gioia e la nostra malinconia non dipendono più dai moti della nostra anima che abbiamo perso e probabilmente mai conosciuto, ma dal "mi piace" o "non mi piace" espresso dagli altri, a cui ci siamo consegnati con la nostra immagine, che, per non aver mai conosciuto noi stessi, è l'unica cosa che possediamo e che vive solo nelle mani degli altri. Ci siamo espropriati e alienati nel modo più radicale, perdendo ogni traccia di noi. Pur di sentirci al mondo, abbiamo perso il nostro mondo, quello intimo, quello per cui siamo quello che siamo. E col nostro mondo abbiamo perso il pudore, che non è una faccenda di vesti o sottovesti, ma la custodia della nostra interiorità, che certe trasmissioni televisive pubblicamente, e i social network privatamente, ci invitano a consegnare agli altri con intime confessioni, emozioni in diretta, trivellazioni della nostra vita privata, storie d'amore che perdono il loro segreto, in quelle forme sguaiate di "spudoratezza" che vengono apprezzate e fatte passare come espressioni di "sincerità". Una volta che la spudoratezza è diventata una virtù, non abbiamo più vergogna. E siccome "vergogna" significa: "Temo la gogna, la mia pubblica esposizione", non ci si vergogna più della colpa, ma della sua pubblicizzazione, che il nostro pudore, ormai corrotto, avverte più disdicevole della colpa. Di intimo c'è rimasto solo il dolore, la malattia, la povertà, che ciascuno cerca di nascondere per non essere isolato dagli altri. E così abbiamo reso inespressive tutte quelle figure dell'esistenza che avrebbero bisogno del massimo di comunicazione, per trovare quel sollievo che deriva dal non essere inabissati nella nostra solitudine, resa inespressiva per impossibilità di comunicarla. Infatti non si pubblicizza il dolore, la malattia, la povertà, perché gli altri non ne vogliono sapere e noi, che abbiamo dimenticato noi stessi quando ci dedicavamo alla nostra sfrenata esposizione, ci troviamo senza risorse per reggere da soli il buio della nostra notte.

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