"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 31 dicembre 2018

Memoriae. 05 «L’Italia in cui viviamo».


Non vi tragga in inganno il titolo di questa “memoria”, che essa non vi meni come “can per l’aia”. Essa risale al 21 di settembre dell’anno 2004, ma essa è come se fosse stata scritta nell’anno primo del governo del “cambiamento”. Sono solamente pensieri di un fine anno tra i più difficili da catalogare, ma con l’auspicio che il prossimo possa essere decisamente diverso e migliore. Tanto per non dire che i quasi tre lustri trascorsi da quel settembre dell’anno 2004 siano gattopardescamente trascorsi affinché nulla cambiasse: Ammiccano da una immagine apparsa di recente sui maggiori settimanali del bel paese tre belle e oneste facce di tre famosi conduttori di programmi televisivi di approfondimento o di intrattenimento. A quelle loro facce belle e oneste la terza rete del tubo catodico del servizio pubblico si affida per un rilancio o meglio in qualche caso per una riconferma presso la gente dei programmi  prodotti, e che vengono fortunatamente riproposti nella imminente stagione televisiva, ché una volta le stagioni in verità erano legate a ben altri avvenimenti e scenari della natura; ai tre programmi, che saranno condotti come sempre magistralmente dalle belle ed oneste tre facce, si affida il compito, ahimè invero ingrato, di raccontare il bel paese, tanto è che l’immagine in questione si presenta con un titolo che la dice lunga sulla sua filosofia di fondo, “L’Italia in cui viviamo” e con un sottotitolo “Tre programmi che danno voce al Paese”. Il proposito è dei più meritevoli di incoraggiamento e di gratificazione da parte del pubblico, e così  si spera. Sono anni oramai che il servizio pubblico ha di fatto rinunciato a svolgere convenientemente e doverosamente  il suo ruolo direi istituzionale, essendosi posto in concorrenza alla televisione commerciale con la stessa sua spregiudicatezza ed insensatezza; per i soccombenti utenti è rimasta pur tuttavia una nicchia di salvezza nella terza rete del che, sfidando in tante occasioni l’ordine televisivo costituito, ha cercato di assolvere al meglio la propria funzione di voce del servizio  pubblico. I guasti creati da una fallimentare politica di programmazione del servizio pubblico ha fatto sì che lo stesso sia deperito in fatto di ascolti e di raccolta pubblicitaria, a tutto vantaggio della concorrenza commerciale che si è ingrassata sino all’inverosimile e con i ben noti ed enormi ritorni finanziari. E non poteva che essere altrimenti.  Torna allora utile e saggio rileggere ad oltre trenta anni dalla loro pubblicazione, ancorché attualissime, le parole scritte da Pier Paolo Pasolini il 9 di dicembre dell’anno 1973 sul quotidiano “Corriere della sera” a proposito di acculturazione e dell’ uso dei moderni mezzi di comunicazione per la creazione del consenso popolare: (…). La responsabilità della televisione, (…), è enorme. Non certo in quanto mezzo tecnico, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (…)che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, (…), non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…(…). Cronista dei giorni nostri è invece Tobias Jones, inglese di nascita, ma che alberga nel bel paese dall’anno 1999. Grande conoscitore ed osservatore severo e disincantato dello stile di vita del popolo italiano, ha scritto un interessantissimo volume dal titolo “Il cuore oscuro dell’Italia” per i tipi Rizzoli, di cui si consiglia la lettura. Di recente è apparso un suo resoconto su di una sua personale esperienza di come fare televisione di pubblico servizio dal titolo “Ricchi d’Italia”, che troverà spazio dal prossimo 26 di settembre sempre nella nicchia del tubo catodico monopolizzato, ovvero Rai3:
Dopo aver scritto, qualche tempo fa, che la tv italiana non mi piace più di tanto, alcuni amici mi hanno lanciato una sfida. Se ne sai così tanto, perché non ci fai vedere cosa sai fare? Be’, non è né la mia lingua né il mio mestiere. Però mi scocciava ignorare la sfida. Ci pensavo. Mi chiedevo cosa avrebbero voluto vedere in tv. Con un regista geniale (Andrea Salvadore che ha fatto, tra l’altro, L’elmo di Scipio) e una casa di produzione solida (Palomar, quella di Montalbano) abbiamo messo insieme un’idea che mi convinceva: passare ventiquattr’ore con ventiquattro tra gli imprenditori, padroni e uomini ricchi più interessanti della penisola. Non per fare salamelecchi, non in stile “vippissimi” come farebbe Mediaset; ma neanche per fare critiche trotskiste, tipo “tutti i ricchi sono malvagi capitalisti”. E non volevo fare il protagonista. Volevo solo porre domande schiette e ascoltare le risposte. Domande tipo: come va l’economia? Che ne pensa del governo Berlusconi? Come se la vede con i sindacati? Quanto guadagna? Cosa mi dice del ruolo delle banche in Italia? E della burocrazia? Lei vota a sinistra o a destra? La lista era notevole: da Edoardo Garrone (Erg e Sampdoria) alla famiglia Panini (figurine); da Lapo Elkann (Fiat) a Paolo Bolici (robustissima azienda omonima di barche e alberghi). Questa è gente che di solito non parla, che non appare in tv. Le risposte, ovviamente, sono state varie e affascinanti. Non ho voluto entrare mai in uno studio televisivo. Abbiamo girato la penisola in furgone per mesi: da Mantova a Matera, da Palermo a Milano. Gli imprenditori erano cortesi. Alcuni, più nervosi, si tenevano molto vicino alla loro addetta alla comunicazione. I vecchi erano forti, pieni di energia, rabbia e garbo. Abbiamo intervistato le segretarie, i figli, gli operai, le mogli. Ho chiesto spesso quanto è pulito il business in Italia. Alcuni dicevano pulitissimo. Altri, lontano dalle telecamere, raccontavano storie allucinanti. Però, paradossalmente, il programma mi ha fatto cambiare idea su una cosa. La “razza” dei ricchi in Italia spesso ha una reputazione, come dire, non buona. Invece, facendo il programma, ho visto con i miei occhi tanti imprenditori corretti e genuini. Inoltre, mi ha fatto cambiare idea sulla ricchezza. Non sono avaro, ma chiaramente mi interessava capire cosa vuol dire avere alcuni miliardi in banca. Adesso lo so: vuol dire avere pochissimo tempo libero. Su ventiquattro, soltanto due o tre mi davano l’idea di essere ricchi in entrambi i sensi. E ho capito cosa vuol dire avere veramente poco tempo. In televisione i tempi sono pazzeschi: per esempio otto secondi per descrivere un’azienda con cinquemila dipendenti. Già posso prevedere le critiche. Innanzitutto sarò accusato d’ipocrisia. Non credo di aver commesso questo peccato, perché lo scopo del programma è molto serio, ma posso capire la critica. Spero, almeno, di essere stato altrettanto coraggioso. Diranno che il mio italiano è zoppicante. Qui sono davvero colpevole perché ho deciso, per essere naturale, di parlare a braccio. Altri diranno infine che per fare il conduttore televisivo uno dovrebbe possedere più di tre camicie e, come minimo, un pettine. Colpevole. Avrei anch’io delle critiche. Mi dispiace molto che non ci siano più donne tra i ricchi imprenditori intervistati. O più stranieri, se non extracomunitari. Purtroppo il programma riflette la realtà dell’economia italiana. Comunque, se almeno contribuisse al dibattito sulla qualità della tv – anche a costo di sentir dire che io, personalmente, faccio schifo – mi farebbe molto piacere.

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