"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 3 novembre 2018

Terzapagina. 50 «Ogni essere umano è un mondo irripetibile».


Tratto da “Manuale per sfuggire alla catastrofe”, confronto tra Wlodek Goldkorn e Zygmunt Bauman pubblicato sul settimanale L'Espresso del 19 di marzo dell'anno 2017: (Goldkorn). Caro Zygmunt, parliamo dello straniero, dell’Altro. Vorrei indagare sulla tua “via verso la saggezza”. Una volta, parafrasando Heidegger, mi hai detto che ciò che per gli indigeni, gli autoctoni, coloro che hanno sempre vissuto là dove sono nati, è evidente, per lo straniero risulta invece foriero di domande. Lo straniero non può che interrogare e interrogarsi.
Se interpreto bene il tuo pensiero, il modo di porsi dello straniero di fronte alla realtà ricalca lo stupore del bambino di fronte a un oggetto nuovo: un giocattolo, un libro, un aereo. Ora, lo stupore è un atteggiamento comune a ogni mediatore che si rispetti: un commerciante, se vuole fissare il giusto prezzo della merce, deve guardarla con gli occhi del cliente, di colui che per comprarla deve provare lo stupore. Il dovere del giornalista (altro esempio di mediatore) non è saper tutto, ma porre le domande che altri non fanno; stupirsi che a New York o a Shanghai ci siano tanti grattacieli, riflettere sul senso di quello che scrive e pubblica; ossia mettersi nei panni del lettore. Del ruolo dell’intellettuale (ancora un esempio di mediatore) sai tutto. Secondo te, è un caso che spontaneamente ho elencato tre mestieri considerati “tipicamente da ebrei”? Tre volte hai cambiato Paese, lingua, usi e costumi. Dalla Polonia invasa dai nazisti nel 1939 sei dovuto scappare in Russia. Nel 1968 sei stato costretto a lasciare la Polonia comunista (dove eri considerato nemico del regime, sia in quanto ebreo sia in quanto intellettuale ribelle) e sei arrivato in Israele. Da Israele ti sei trasferito in Inghilterra. La tua non è quindi una biografia normale. Tre volte sei stato uno straniero, un outsider. (…).
(Bauman). Non è una biografia normale», (…). Ma mi chiedo: è mai esistita una “biografia normale”? Dire “biografia normale”, presuppone l’esistenza di un “uomo medio”. Ma la media è una finzione statistica. Gli abitanti del mondo, un luogo dove tutte le dimore sono temporanee e mai eterne e stabili, e dove tutte le indicazioni stradali sono girevoli (a pensarci bene) si aggrappano alle verità delle tabelle statistiche, per sentire un minimo di sicurezza. Sono tabelline che danno la sensazione di certezza e quindi di appartenenza. Il guaio è che l’appartenenza è altrettanto una finzione quanto lo è la media statistica. Mi viene in mente Monsieur Jourdain, protagonista di “Il borghese gentiluomo” di Molière, quando scopre di parlare in prosa. Vedi, la quantità delle biografie è uguale alla quantità degli esseri umani. Jacques Derrida, ricordando gli amici scomparsi prima di lui, notò che con la morte di ognuno scompare irrimediabilmente un mondo. Ne deriva che ogni essere umano è un mondo irripetibile. La statistica invece serve a cogliere e registrare ciò che è ripetibile, e per essere precisi, a distillare la ripetibilità dalla singolarità. L’individuo può far parte di una tabella statistica solo in quanto un esemplare di una specie. Aggiungo: le tabelle sono innumerevoli (genere, età, altezza, peso, colore dei capelli, fede religiosa, possesso, reddito, tifo, vacanze, opinioni su politici ecc. ecc. ecc.). Ma, una volta statisticamente parcellizzato, l’uomo non può essere ricostruito come un insieme. Detto tutto quello che si può dire sulla base della massa delle tabelline, resta non detto ciò che rende l’uomo soggetto e oggetto del mondo, e che verrà sepolto nella tomba, assieme a lui. L’unico uso lecito dunque del concetto di “normalità” è quello insito nella frase: “La normalità dell’uomo è la sua anomalia”. (…). L’indagine biografica deve riprendere tutte le complessità e le sfumature dell’essere umano, tutto quello che non è statisticamente contabile. E per quanto riguarda lo “stupore del bambino” che giustamente evochi nel contesto della sorte di un nuovo arrivato in un mondo sconosciuto. Direi che questo tipo di stupore dovrebbe essere vissuto da chiunque prende in mano la penna per raccontare la vita di un altro uomo (meglio ancora, vivere lo stupore prima che l’incipit della narrazione sgorghi dalla penna). Ma visto che evochi anche una particolare inclinazione degli ebrei per un certo tipo di esperienze, mi permetto di citare la definizione dell’ebreo (in quanto categoria) coniata scherzosamente, ma anche un po’ seriamente dal commediografo inglese Frederick Raphael: “L’ebreo è una persona che in ogni luogo è fuoriluogo”. Aggiungerei che nell’Europa post-illuminista, gli ebrei erano “l’anomalia particolare”, lontana dal progetto della “normalità generale”. Agli ebrei è toccato il ruolo della “norma dell’anomalia”, o forse della sua incarnazione. L’incarnazione dell’anomalia... Dici: «Tre volte sei stato straniero». Sono stato straniero fin dalla nascita e così morirò. Non saprei quando, ma molto presto mi sono convinto che non c’era medicina in grado di guarirmi dalla mia anomalia. Ho accettato questo mio essere straniero (o essere Altro) e in un certo senso me ne sono innamorato. O forse non tanto mi sono invaghito dell’essere straniero, quanto invece ho sviluppato una grande e profonda insofferenza verso l’opposto di quella condizione, ossia verso “l’appartenenza”. Certamente, si tratta di due fattori che hanno influenzato l’un l’altro: mi sono così abituato ai privilegi insiti nello status dello straniero che provo insopportabili i limiti impliciti in ogni appartenenza. Quei limiti, va detto, per gli indigeni, per coloro che non hanno mai fatto l’esperienza dell’essere stranieri, sono naturali, impercettibili e indolori. Caro Wlodek, dalla tua esperienza dovresti aver imparato quanti vantaggi ha l’essere stranieri. Si tratta di privilegi da cui sono esclusi (a loro insaputa e senza che siano stati interpellati in materia) i nativi del luogo. Quali sono questi privilegi? Semplice. Hai la facoltà di prendere alla leggera le opinioni altrui su quello che dovresti fare e su ciò che non devi fare. L’opinione pubblica, ossia il parere della maggioranza, è in genere mutevole. Ma la saggezza e tanto più la virtù non seguono il parere della maggioranza. Le accuse e la calunnie non diventano veritiere perché gridate in coro. E se quello che sto dicendo non è politicamente corretto, il problema è loro; non mio né tuo. Da straniero, da Altro, il tribunale supremo, la cassazione senza appello, è la tua coscienza. È un tribunale severissimo, e le sentenze che emette sono spesso più severe e più dure da sopportare di quelle dei tribunali dei nativi. Però puoi avere fiducia nella sua equità. Di più, da straniero, da Altro, sai bene cosa fare per non essere trascinato nella Corte della tua coscienza. Sei tu l’unico responsabile dei tuoi pensieri e delle tue gesta. Ma attenzione, parlo della responsabilità “per” e non “di fronte a”. Parlo della responsabilità “per” i gesti compiuti e quelli incompiuti causa ignavia, non della responsabilità “di fronte” alle istituzioni che vorrebbero importi le regole di ciò che si deve e ciò che non si deve fare, senza chiedere il tuo parere e il tuo consenso, visto che le istituzioni sono convinte di saper definire meglio di te cosa sia un vizio e cosa invece una virtù. L’assunzione della responsabilità comporta, a sua volta, rischi enormi e talvolta si tratta di un fardello troppo pesante per alcune, troppo fragili, spalle. Ma è più dignitoso misurare le spalle a seconda del fardello delle responsabilità, che non adattare la responsabilità alla tenuta delle spalle. In ogni caso, preferisco la coscienza pulita agli applausi del pubblico. E per quanto riguarda l’appartenenza. Jasia (diminutivo di Janina, la moglie di Bauman, scomparsa nel 2009, sopravvissuta al Ghetto di Varsavia, ndr) scacciata via da ogni luogo dove credeva di star di casa, e che ha vissuto con dolore il suo errare per il mondo, parlava del “sogno di appartenenza”. Con Jasia eravamo una sola anima in due corpi. Ma in questo caso non eravamo d’accordo. Io non ho mai avuto alcun sogno di appartenenza. Anzi, ne ho sempre provato repulsione. Dopo l’espulsione dal branco comunista (un’espulsione dovuta all’iniziativa sia dei comunisti che mia) non ho più cercato nessun gruppo in grado di correggere le mie opinioni o di darmi la giusta linea. E non ho permesso a nessun gruppo di dire che io ne facessi parte. Dopo aver abbandonato il comunismo non ho aderito agli anticomunisti, nonostante abbia avuto molte appetibili offerte. Né ho cercato nell’ospitalità del nazionalismo israeliano la ricompensa per i danni subiti dal nazionalismo polacco. In Inghilterra non pretendo di essere inglese, e del resto gli inglesi non mi considerano tale. E il mio essere straniero non è di disturbo né per me né per loro. Anzi, forse sono una specie di candito, un elemento esotico, nella torta, per il resto povera di sapore, della convivenza quotidiana. Ho il sospetto che qualcosa di tutto quello che ti sto confessando, sia finito per pesare sul mio carattere... Nell’esercizio della mia professione provo fastidio per le parole con il suffisso “ismo”. I miei recensori, sia quelli critici che quelli favorevoli, cercano in tutti i modi di collocarmi all’interno di una scuola di pensiero, ma non ci riescono. I più critici (e i più legati emozionalmente e materialmente a un sapere diviso lindamente in vari campicelli rigorosamente recintati) arrivano alla conclusione che sono un eclettico. Ma per me non si tratta di un’offesa, anzi. Sì, prendo dal pensiero di ogni saggio e intelligente (e talvolta di meno saggio e meno intelligente) autore tutti quegli elementi che trovo innovatori, essenziali, o stimolanti per il mio lavoro. Ma ciò non implica che debba firmare una specie di patto diabolico per cui accetto tutto il resto delle opinioni dello stesso autore. È vero, come hai suggerito in una nostra conversazione, che io stia sulle spalle dei giganti. Ma cerco di non usare le loro spalle come se fossero una comoda poltrona (e certamente non mi nascondo dietro alle loro spalle per fuggire le mie responsabilità).
(Goldkorn). Dalle lettere che ci siamo scambiati, dalle nostre conversazioni pubbliche e private, ma anche da tutto quello che hai scritto, potrei trarre la seguente, in apparenza semplice, in realtà tragica, conclusione: viviamo nell’occhio del ciclone, nel cuore della catastrofe. E nel concreto, nel cuore della catastrofe ti sei trovato, anche se non direttamente (il tuo soggiorno in Russia durante la guerra ti ha fatto risparmiare il peggio, accaduto invece in Polonia). Ma quel peggio lo hai conosciuto attraverso le esperienze di Jasia, tua moglie, attraverso il suoi racconti sul ghetto di Varsavia, e forse non erano solo racconti... Ora, quando i filosofi, gli storici, gli scrittori, tentano di creare una teoria della catastrofe, implicitamente suggeriscono che si tratta di un fenomeno limitato nel tempo e che riguarda situazioni e luoghi specifici. Si parla del totalitarismo (Hannah Arendt), della crisi del pensiero illuminista (Adorno e Horkheimer), della colpa (Jaspers), dell’hybris (Kolakowski, nel caso del comunismo), dei territori dove tutto era permesso (lo storico Timothy Snyder), della menzogna (Solzenitsyn). Potrei aggiungere la questione della tecnica (Günther Anders). Ognuno degli autori citati crede di avere un rimedio o una lezione da dare dopo la catastrofe e per evitare un’altra catastrofe (come se fosse possibile). Per Arendt occorre essere saggi, capaci di distinguere tra il bene e il male e saper agire nella sfera pubblica; Adorno e Horkheimer non hanno mai abbandonato il mito messianico; Jaspers richiamava all’onestà e al senso di responsabilità: Kolakowski chiedeva di non rinunciare al sacro, neanche in una democrazia laica. La tua critica dello stato esistente della cose è invece così radicale da non indicare alcuna via di salvezza. Il mondo secondo Bauman è frammentario. La nostra realtà è un puzzle impazzito, i cui pezzi non comporranno mai un insieme coerente. La sintesi non è data e non lo sarà mai. Ma noi umani, tentiamo sempre di dare una coerenza a quel puzzle che è la nostra vita. La gente ha bisogno di senso e di sintesi, e se noi (noi di sinistra) non riusciamo in questo compito, quella sintesi finiranno per darla gli altri: i fascisti, gli xenofobi. Certo, è il tribunale della coscienza di ciascuno di noi la Cassazione. Ma poi resta il problema: come vivere. Vorrei che rispondessi alla seguente domanda: nell’occhio del ciclone, al centro della catastrofe, la salvezza dipende solo dal carattere e dall’intelligenza individuale? La condizione dell’esiliato, come dici, è un privilegio, ma ho l’impressione che non basti.
(Bauman). Hai ragione dicendo che quando i filosofi, gli storici, i letterati, parlano della catastrofe, implicitamente suggeriscono che si tratti di un fenomeno limitato nel tempo e nello spazio. Ed è per questa ragione che ho sempre cercato di evitare di usare questa parola. Ma c’è di più. Se condividessi la tua opinione per cui “viviamo nel cuore della catastrofe”, accetterei anche la tua critica della mia radicalità che non lascia vie di salvezza. Ma il fatto è che non la condivido. Intanto, la catastrofe è un fenomeno improvviso, inatteso e di regola causato dagli umani, dalle loro azioni o dalla loro inezia. E per quanto crudeli siano le sue conseguenze in termini di vite umane, “catastrofe” significa “fuoriuscita dalla norma”. Ora, sono gli umani a stabilire la norma. In altre parole, sono gli umani a determinare e manipolare la scala e la gamma delle probabilità di ciò che accade, di ciò che è la norma e viceversa l’anomalia. Un po’ ne abbiamo già parlato. Aggiungo quindi una cosa, in apparenza ovvia: se non ci fosse la norma (stabilita, appunto dagli umani), non si potrebbe neanche violarla o fuoriuscire da essa. È noto quanto per gli antichi fosse importante il concetto di catarsi; una funzione dell’azione scenica drammatica che segnava la purificazione dopo aver toccato il fondo della tragedia o della catastrofe. La catarsi permetteva il ritorno alla norma. Ma se, come ci stiamo dicendo, non c’è norma? Se la norma è il rischio e quindi la probabilità permanente di verificarsi di quella situazione che tu chiami catastrofe (ad esempio l’Olocausto, oppure la guerra fratricida tra gli europei, chiamata la guerra dei trent’anni)? E se la norma fosse così disumana e poco attraente che non varrebbe la pena di ripristinarla?.... Ecco perché, quando dici che la mia analisi della situazione non indica alcuna via di salvezza, la tua accusa è ingiustificata. Vedi, io credo profondamente che la via di salvezza esiste e che è nel potere degli umani tracciarla. Però è illusorio pensare che il ritorno alla prassi del “Business as usual”, alla non riflessiva e presunta normalità, possa essere una via di salvezza. È, anzi, dal “business as usual”, che dobbiamo salvarci. Permettimi quindi, anziché di parlare della catastrofe, di riflettere sui “tempi bui”, un termine che prendo in prestito da Hannah Arendt. Arendt a sua volta, nella raccolta dei suoi saggi “Men in Dark Times” (1968) (“L’umanità in tempi bui”, Cortina editore, ndr) restituisce il debito contratto con Bertolt Brecht, che nel poema “An die Nachgeborenen” (“A coloro che verranno”) applicò il concetto di “tempi bui” al periodo in cui gli era stato dato di vivere, tra disordini e fame, tra massacri e carnefici, quando esisteva solo il male e non la resistenza. Arendt spiega, e non c’è nulla da aggiungere, il modo in cui lei stessa utilizza il termine “tempi bui”. Dice: «Se il compito della sfera pubblica è gettare la luce sugli affari degli umani in modo da creare uno spazio di immaginazione in cui gli uomini possano mostrare con le loro parole e con le loro azioni nel bene e nel male, la loro natura, il buio si verifica quando queste luci vengono spente a causa della crisi di fiducia, dell’invisibilità del potere, del discorso che anziché rivelare le cose, le nasconde». Con entusiasmo Arendt cita le parole di Heidegger: «La luce della sfera pubblica oscura tutto», e dice che questa frase è il riassunto più stringato possibile della condizione contemporanea. In tempi bui quindi, secondo Arendt, piuttosto che cercare le rivelazioni nelle grandi teorie, bisogna provare a trovarle «negli incerti e spesso deboli lumini che alcuni uomini accendono, nonostante le condizioni in cui è stato dato loro vivere». Tempi bui, non rari nel corso della storia, non sono quindi altro che una “normalità” gravida di catastrofe, o forse e con più esattezza sono tempi in cui la discrasia tra l’esperienza da un lato e la narrazione dominante dall’altro, fa sì che le narrazioni pubbliche velino l’esperienza anziché svelarla, la oscurino anziché illuminarla. Milan Kundera definisce queste narrazioni come una cortina. E dice che compito della letteratura è squarciare quella cortina (“L’arte del romanzo”, Adelphi, ndr). Scrive Kundera: «Capire con Cartesio che alla base di tutto c’è l’io pensante e con questa convinzione far fronte all’universo. (…) Capire con Cervantes che il mondo è polisemico (ha più significati, ndr) e far fronte non a una verità assoluta, ma alla molteplicità delle verità contraddittorie e relative... Avere come unica certezza, la saggezza dell’incertezza». Non pensare, caro Wlodek, che io mi paragoni a Cartesio o a Cervantes. Sono solo un artigiano. Ma mi sono posto come compito quello di squarciare le cortine. E se non mi riesce di farlo così bene come lo hanno fatto i grandi maestri appena citati, ciò non mi esime dal mio dovere di continuare a provarci.

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