"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 31 ottobre 2018

Riletture. 34 «Noi, le rane infelici del consumismo».


Ha scritto Umberto Galimberti in “L’economia ha un’anima nichilista” – sul settimanale D del 16 di giugno 2018: (…). …forse il mercato, che ci visualizza solo come produttori e come consumatori, quindi come funzionari delle merci, ha bisogno della nostra depressione per poter funzionare, crescere, aumentare il fatturato, fin dove? Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo ci informa che noi occidentali, che siamo il 17 per cento della popolazione mondiale, per mantenere l’attuale tenore di vita abbiamo bisogno dell’80 per cento delle risorse della terra. È evidente che una simile sproporzione non può durare a lungo, e ciò nonostante da ogni parte ci dicano che dobbiamo crescere e per crescere dobbiamo aumentate i consumi.
Del 31 di ottobre dell’anno 2017 è la ri-lettura che si propone, lettura tratta da “Noi, le rane infelici del consumismo” di Massimo Fini, pubblicata su “il Fatto Quotidiano”: (…). Nel suo modo paradossale, Wilde definisce la felicità attraverso il suo contrario, l’infelicità: “Felicità non è avere tutto ciò che si desidera, ma desiderare ciò che si ha”. Purtroppo la società moderna ha preso, intellettualmente e concretamente, la direzione opposta. Gli americani nella loro Dichiarazione di indipendenza del 1776 sanciscono “il diritto alla ricerca della Felicità”, che però l’edonismo straccione contemporaneo ha trasformato in un diritto alla felicità che è cosa ben diversa. Perché, come tale, non solo è un diritto impossibile ma si rovescia nel suo opposto. Pensare che l’uomo abbia un diritto alla felicità significa renderlo ipso facto, e per ciò stesso, infelice. La sapienza antica era invece consapevole che la vita è innanzitutto fatica e dolore, per cui tutto ciò che viene in più è un frutto insperato. L’uomo occidentale, che ha creato un modello di sviluppo imperniato sull’inseguimento spasmodico del bene, anzi del meglio, invece che sulla ricerca dell’armonia in ciò che già c’è, come dice indirettamente Wilde, si è costruito, con le sue stesse mani, il meccanismo perfetto e infallibile dell’infelicità. Perché ciò che si ha è un bene circoscritto, invece ciò che non si ha e si desidera non ha limiti. Ma è proprio su questo meccanismo psicologico che si sostiene tutta l’economia dell’Occidente e ormai anche di buona parte dell’Oriente. Rovesciando venti secoli di pensiero occidentale e orientale (“è bene accontentarsi di ciò che si ha”) Ludwig von Mises, uno dei più estremi ma anche coerenti teorici dell’industrialcapitalismo, afferma: “Non è una virtù accontentarsi di ciò che già si ha”. E così prosegue parlando della situazione dei suoi tempi (Mises scrive La mentalità anticapitalistica negli anni 50 del Novecento): il vagabondo invidia l’operaio, l’operaio invidia il capo officina, il capo officina invidia il dirigente, il dirigente invidia il padrone che guadagna un milione di dollari, costui quello che ne guadagna tre. E così via. Mises quindi ammette, come cosa positiva, che l’intero meccanismo economico e sociale è basato sull’invidia che non è certamente un sentimento che ti fa star bene. Però centra perfettamente il core dell’industrialcapitalismo. Oggi la stragrande maggioranza di noi vive di questo sentimento e su questo sentimento si regge tutta la filiera economica. Se noi smettessimo di invidiare il vicino più ricco tutto il castello dell’attuale modello economico franerebbe miseramente su se stesso. Ma c’è un ulteriore paradosso, che era stato già avvertito da Adam Smith che pure è, insieme a David Ricardo, uno dei padri e dei teorici del libero mercato, che oggi è arrivato al suo culmine: noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre, cioè per perpetuare il meccanismo. Siamo i lavandini, i water attraverso cui deve passare il più rapidamente possibile ciò che altrettanto rapidamente dobbiamo produrre. Non siamo noi, poveri o ricchi che si sia, a governare la macchina ma è la macchina a governar noi. L’individuo, nella modernità, è stato degradato a consumatore. Ci sono Associazioni di consumatori che non si vergognano di definirsi tali, hanno accettato, con un realismo che provoca un brivido di orrore, la degradazione. Non siamo nemmeno consumatori coscienti e volontari, ma ranocchie che, opportunamente stimolate, devono saltare anche quando vorrebbero star ferme, per non inceppare l’onnipotente meccanismo che ci sovrasta. Se questo è un uomo… Aggiunge Umberto Galimberti nella Sua riflessione: Il consumismo e il nichilismo a esso sotteso, hanno due potenti alleati. Il primo è la moda ideata per far invecchiare nel modo più rapido possibile tutte le cose, non nel senso che le rende inutilizzabili, semplicemente le rende «socialmente inadatte», per cui se anche il nostro telefonino funziona perfettamente, dopo che ne sono usciti di migliori che fanno mille cose di più, non è più idoneo al nostro prestigio. Facendosi gioco del tempo, la moda afferma il diritto assoluto del presente, dell’eterno presente, per cui quello che era di moda l’anno prima, l’anno dopo non lo è più. principio della distruzione, nichilismo garantito, ottimo per il mercato. Il secondo alleato del consumismo è la pubblicità che non produce beni, di ci siamo già saturi, ma produce bisogni. E quando gli operatori di mercato attestano che il bisogno è abbastanza diffuso e sentito, la pubblicità offre il bene che dura finché non saranno prodotti altri bisogni.

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