"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 17 settembre 2018

Riletture. 19 “Scoprirsi clandestino per caso in Oregon”.


Tratto da “Scoprirsi clandestino per caso in Oregon” di Vittorio Zucconi, pubblicato sul settimanale D del 17 di settembre dell’anno 2016: All'età di trentadue anni, stanco del proprio monotono lavoro da commesso in un grande magazzino dell'Oregon, Justin Hong decise di fare il salto verso una vita più gratificante. Dopo il liceo e l'università, Justin aveva seguito corsi di informatica prima nel tempo libero e poi, in maniera più organizzata, studi online presso un college che offriva master nella sua materia. Armato del diploma si presentò in un'azienda di Portland che fornisce servizi di sicurezza informatica e il colloquio andò benissimo. Fu soltanto al momento delle formalità per il contratto che la verità si rovesciò sulla testa di Justin Hong come quei secchi di acqua gelata che fecero furore due estati or sono per beneficenza: tu, gli disse l'ufficio personale, non sei cittadino americano. Non sei neppure un residente legale. Tu non esisti. Per trent'anni, da quando una coppia di americani lo aveva prelevato da un orfanatrofio di Seul quando aveva due anni e lo aveva portato con sé nell'Oregon, Justin Hong aveva dato per scontato che lui, come figlio legalmente adottato, fosse diventato americano quanto i nuovi genitori. I suoi gli avevano fatto avere il numero di Sicurezza sociale, l'equivalente del nostro codice fiscale. Aveva frequentato ogni ordine e grado di scuola, dall'asilo fino all'università. Aveva preso la patente di guida. Aveva pagato le tasse. Si era arruolato nell'Esercito, prestando servizio in Kuwait ed era stato congedato con onore. E mai nessuno, nelle scuole, nel Comune, nel grande magazzino che lo aveva regolarmente assunto e neppure al Pentagono che lo aveva messo in uniforme, si era mai preso la briga di verificare se quel ragazzo, poi quell'uomo che parlava senza alcun accento straniero non avendo mai appreso alcuna altra lingua che non fosse quella di genitori, amici, insegnanti, fosse americano. Ma nemmeno il padre e la madre adottivi, degnissime persone oggi scomparse che credevano di avere compilato tutti i formulari e triplicato tutte le copie, si erano mai preoccupati di scoprire se l'adozione avrebbe automaticamente fatto di lui un cittadino Usa, come sarebbe stato nel caso di un figlio naturale. Nella melmosa vaghezza delle mutevoli leggi sull'immigrazione, nella foresta amazzonica della burocrazia indifferente, la vita di Justin Hong era scivolata via nell'ignoranza. Fino alla diga di un'azienda scrupolosa che, impegnata nel mondo della sicurezza informatica, e attenta a leggi - in teoria - durissime con chi assume "clandestini", gli aveva chiesto dove fosse nato - in Corea - e quando fosse stato naturalizzato cittadino Usa. Cioè mai. Sono 18mila soltanto i coreani d'origine da anni residenti negli Stati Uniti senza avere uno "status" legale, soltanto perché chi li adottò, negli anni in cui la Corea, ancora povera, era una fonte ricchissima di bambini, non aveva pensato che i suoi figli sarebbero rimasti "clandestini". L'associazione legale che li rappresenta e sta spingendo per una sanatoria non solo di coreani, ma di iraniani, brasiliani, vietnamiti, cinesi, rumeni e altri adottati e mai divenuti formalmente cittadini per l'equivoco di legge, ha ricostruito i casi di persone che, per avere commesso piccoli reati, o per essere stati coinvolti in incidenti stradali, sono stati deportati nelle nazioni di origine. Una coreana, medico radiologo in un ospedale del Texas, oggi vive della carità di una famiglia di lontani parenti a Seul, dove fu prelevata quando aveva sei mesi, cercando di imparare una lingua che non hai parlato. Un altro ex militare, convinto che il servizio nella US Army avrebbe certificato la cittadinanza della nazione per la quale ha combattuto, vive da clochard sotto i ponti di Seul, anche lui senza conoscere una parola di coreano. Justin,come altri 18 mila, come decine di migliaia di altri come lui, vive nel terrore di sentir bussare alla porta e di essere rispedito in una nazione che è teoricamente la sua patria e che non conosce. Trema al pensiero che il nuovo capo dello Stato mantenga l'impegno preso con i suoi elettori e deporti chiunque non abbia un pezzo di carta per certificare quello che lui è da trent'anni. Un cittadino, tanto americano quanto chi lo vorrebbe cacciare.

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