"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 16 settembre 2018

Cronachebarbare. 59 Le due Italie.


Sosteneva il giornalista e scrittore Michele Serra sul quotidiano “la Stampa” del 15 di agosto dell’anno 2008: “Il fatto che l’uomo più ricco d’Italia sia anche capo del Paese è qualcosa di smisurato… Trovo ridicolo accusare qualcuno di avere l’ossessione di Berlusconi. È come accusare un beduino di avere l’ossessione della sabbia. Non è colpa mia se Berlusconi è dappertutto”. Si era al tempo dell’egoarca di Arcore. Al tempo in cui registravo un serio deficit di conoscenza linguistica. Non ero affatto al passo per quei tempi. Lo riconosco a distanza di ben dieci anni. Mi era allora del tutto sconosciuto, per esempio, il lemma “letteronza”. Cos’era una “letteronza“? O meglio, riferendosi forse – come sospetto - ad un essere vivente e del genere umano, chi era costei? Di genere femminile, certamente! Dalle cronache politiche del tempo riguardanti il bel paese, cronache straordinarie ed inimmaginabili solo un quindicennio prima di quella “discesa in campo”, cronache politiche che al tempo soppiantarono la cronaca di costume, o di mal costume, del genere “Grand Hotel”, o “Sogno”, dei tempi della mia fanciullezza ed oltre, sembrava proprio dalla eco che mi giungeva trattarsi la “letteronza” di femmina procace assai. Di gambe lunghe. Di mammelle prorompenti. Di misure notevoli. Non cerebrali. A cranio ridotto, semmai. Di bell’aspetto ed altro. Al servizio del potente di turno. Ignoravo il tutto. E l’etimo pur anche. Un caso da approfondire. Ed uno/a “tronista”? Chi veniva definito/a a quel tempo, nelle ubertose contrade del bel paese, come “tronista”? Femmina o maschio? Non penso si potesse riferire il lemma ad un/una aspirante al trono, reso storicamente e fortunosamente mancante nel bel paese. Sarebbero stati in tanti a contenderselo. Sarebbe stata una magnifica sfida. Mi andava a quel tempo un po’ meglio con il termine “velina”.  La “velina” – ma al tempo in verità sbagliavo assai -, mi rimandava ad un’altra Italia, che poi è sempre la stessa. L’Italia che non cambia mai. Una sicurezza. Mi rimandava all’Italia del Minculpop, ovvero al Ministero della cultura popolare, una bella invenzione del ventennio nero. Stando a quella tragica e farsesca storia del bel paese, nel ventennio dell’impero e dell’orbace dominante, a quel ministero veniva attribuita la prerogativa di diffondere per l’appunto le “veline” di regime che la stampa asservita, doverosamente e coscienziosamente, come sempre, come oggigiorno, diffondeva con zelo grande assai. Con gli entusiasmi e gli “eia, eia, alalà” di dannunziana memoria. Era solo per cantare in coro nel ventennio nero, ma nero assai. Ma delle “veline”, in verità, io avevo ed ho tutt’oggi un altro ricordo, un ricordo a me molto, ma molto caro. Al tempo della mia fanciullezza la “velina” era quel foglio di carta molto sottile e quasi trasparente che serviva ad ottenere copia di un qualsiasi documento dattiloscritto. Al tempo della gloriosa “Olivetti”. La “velina”,  infatti, veniva avvolta al rullo delle mitiche “Olivetti” come secondo foglio di un qualsivoglia documento o lettera si volesse dattiloscrivere.
Tra i due fogli, il soprastante di carta normale, ed il sottostante la “velina” per l’appunto, l’immancabile carta carbone. Altrimenti come si sarebbe potuta ottenere la copia da archiviare gelosamente? Ecco, il ricordo di quelle “veline” mi è particolarmente caro. La mia mamma, impiegata per lunghissimi anni in un pubblico ufficio, quotidianamente ha avuto a che fare con le “veline”, ma quelle di allora. Senza fraintendimenti di sorta! La mia mamma utilizzava le “veline” di allora avvolte al rullo della sua mitica “Olivetti” di colore nero e poi provvedeva a custodirle, le “veline”, gelosamente nell’archivio della pubblica istituzione presso la quale ha lavorato per tutta la sua vita. Delle “veline” del tempo dell’egoarca di Arcore, scomparsa la mia mamma e le mitiche “Olivetti”, immagino ancor oggi le poco commendevoli mansioni. Attorno a cosa o a chi si avvolgevano quelle “veline”? Storie di quest’Italia che non cambia mai, tranne che per il significato delle parole, tanto che esse non sono più pietre, le parole, ma suoni indistinti ed inintelligibili, di questa Italia che cerca di scacciare via la memoria per vivere solo di un presente virtuale ed insignificante. Ne scriveva da par Suo Andrea Camilleri nella rubrica quotidiana “Lo chef consiglia”, allora pubblicata sul quotidiano che fu gloriosamente di Antonio Gramsci, quando l’Unità di quella memoria si faceva per l’appunto vanto e gloria. L’ultima Sua ricetta aveva per titolo “ Le due Italie. Lo sciocco vitalismo dell’una. E l’altra più nascosta, e preoccupata”. Mi ritrovo ancora oggi, perfettamente e pensierosamente, nella visione Sua dell’Italia nascosta, ma non più di tanto, e preoccupata assai. Di seguito trascrivo quella ricetta completa dello chef Camilleri: “Camilleri (è Saverio Lodato, valente opinionista del quotidiano, a parlare n.d.r.), nel 1978 Leonardo Sciascia scrive a Anna Maria Ortese: «Cos’è questo Paese? Un Paese, sembra, senza verità; un Paese che non ha bisogno di scrittori, che non ha bisogno di intellettuali. Disperato. Pieno di odio. E nella disperazione e nell’odio propriamente spensierato, di un’insensata, sciocca vitalità». Ma questo Paese, per Sciascia, non escludeva l’altro: «come nascosto, come clandestino, un Paese serio, pensoso, preoccupato, spaventato». 30 anni dopo, il Paese pieno di odio si è incarognito. Tanto da aver reso l’altro Paese, serio e pensoso, non solo clandestino, ma al limite della legge. Scrivere, serve ancora a qualcosa? - La frase di Sciascia da Lei citata, caro Lodato, è la cartella clinica di un Paese profondamente ammalato. Sciascia aveva il dono della chiarezza e della sintesi, e i punti chiave della sua diagnosi sono due: «un paese senza verità» e «insensata, sciocca vitalità». Siamo nel 1978, ma queste parole sono applicabili tanto al 1935 quanto al 2009. Si potrebbero riferire sia alla mancanza di verità e al vitalismo ginnico dell’era fascista, sia alla menzogna sistematica e al fervore ottimistico dell’era berlusconiana. Il nostro Paese non ha mai voluto guarire, con le cure indispensabili, e anzi, fra un medico severo e uno spacciatore da fiera di toccasana, ha sempre preferito il secondo. L’altro paese, quello preoccupato e che dice di esserlo, è emarginato dal carnevale imperante. Fra qualche anno, le persone serie saranno costrette per decreto ad andare in giro agitando una campanella come erano obbligati a fare i lebbrosi. Berlusconi ha detto che il pessimismo non porta lontano. Temo, invece, che il suo insensato ottimismo ci condurrà a un medioevo prossimo futuro. Quanto all’utilità dello scrivere… non so se non serva più, ma, mi dica Lei, che altro fare -.

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