"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 10 agosto 2018

Lalinguabatte. 59 “La crisi infinita, e poi?”


Scriveva Jacques Attali in “La crisi, e poi?”, pubblicato da Fazi editore (2009): “È venuto il momento di capire che i contribuenti pagano oggi i bonus dei banchieri che li hanno gettati in una simile situazione. E che questa crisi è un ultimo avviso su tutti i pericoli di una globalizzazione anarchica e sprecona”. Non è per una ricorrente nostalgia di un tempo che è stato, o per ideologie che mal sopporterebbero l’impatto della globalizzazione delle economie e delle finanze, che ho pensato di titolare in tal modo - “La crisi infinita, e poi?” – il post di oggi. È che in questa melassa sociale, di idee ed idealità, di memorie e di coscienze, si è persa da tempo la memoria anche più prossima di ciò che è sempre stato il movimento operaio in questo disastrato paese ed ovunque esso abbia avuto modo di organizzarsi e manifestarsi. La melassa sociale divora memorie e coscienze. È la “poltiglia” di cui ha parlato qualche tempo addietro il De Rita insigne e fine sociologo. La memoria persa delle condizioni disumane che determinarono il sorgere e l’affermarsi dei movimenti operai; la coscienza persa di appartenenza ad una classe sociale che diede sostanza e sostegno a quei movimenti in quasi tutte le aree del globo. Memorie e coscienze sparite? O forse solo momentaneamente tacitate dagli abbagli della modernità globalizzata? È la “poltiglia” montante e stagnante. È la melassa dolciastra e zuccherosa assai che attira ed appaga. Urgono riletture importanti. Urgono riscoperte di idealità che sono state. Quelle che hanno orientato nel tempo passato schiere e schiere di uomini coraggiosi e di buona volontà. Ed una lettura importante mi sento di suggerire ancor oggi e nel contesto attuale. È un lavoro oramai da considerassi datato (2008) del sociologo Raffaele Simone che ha per titolo “Il mostro mite”, edito da Garzanti. Ed il mostro mite, per l’illustre Autore, è per l’appunto il capitalismo sprezzante delle regole che, con le potenti sue armi soprattutto mediatiche messe in campo, ha spinto affinché si realizzasse ed omogeneizzasse l’indistinta zuccherosa melassa sociale che ha portato alla recente storia, storia di impoverimento delle popolazioni di sterminate aree di questo pianeta, storia che ha visto ricacciata nella sacca della povertà quella classe media e medio-piccola che ha costituito, per lunghi decenni, la struttura portante di un capitalismo sostenitore del consumo illimitato e sfrenato.
Ora che è necessario raccattare i cocci prodotti e disseminati in ogni direzione dalla insensatezza di un liberismo sfrenato, saranno tutte le masse, anche quelle dei più diseredati, che continueranno a patire per la scarsità delle risorse, a pagare il conto salato per il ravvio dell’economia planetaria, riavvio che abbisogna di una condizione economico-finanziaria che abbia recuperato in pieno i normali parametri di gestione, ma che abbia anche recuperato e reintrodotto le necessarie idealità etiche, proprie dei movimenti operai, di giustizia sociale e di redistribuzione della ricchezza planetaria tra i singoli esseri umani e tra tutte le comunità di questo mondo. Ma non potranno essere di certo i responsabili dell’attuale disastro globale i manovratori di questo avvio di un processo nuovo dell’economia globalizzata. Suggerisce, con grande sensibilità ed intelligenza, un ritorno ai sacri testi Umberto Galimberti con questa Sua analisi che ha per titolo “Ricordo con rabbia”, analisi pubblicata su di un supplemento del quotidiano la Repubblica del 5 di aprile dell’anno 2008. Si era allora al primo stormir di fronde di quella tempesta denominata semplicisticamente “crisi” che stancamente trascina la vita di milioni di esseri umani verso approdi sempre più difficili da interpretare, se non con l’utilizzo di quella straordinaria intuizione – la “stagnazione secolare” - coniata ed utilizzata dall'economista americano Alvin Hansen negli anni trenta del secolo ventesimo e rilanciata dall’ex capo economista della Banca Mondiale Larry Summers. Ne siamo ancora nel bel mezzo. “La crisi, e poi?” era la domanda angosciante di Jacques Attali. A quasi dieci anni da quell’interrogarsi inquietante e doveroso sembra necessario trovare una risposta: E se Marx avesse sbagliato solo per difetto? Abbiamo liquidato con molta fretta e con la gioia di tutti il comunismo, per gli scenari truci che ci provenivano dall'Unione Sovietica e dalla Cina. E con il comunismo abbiamo liquidato la nozione di classe operaia che, nella retorica diffusa, era associata al comunismo. A vincere è stato il capitalismo che ha moltiplicato la sua potenza con la globalizzazione, il cui effetto non è solo l'aumento dei prezzi come conseguenza della concorrenza mondiale, ma anche e soprattutto la svalutazione del lavoro operaio che, per effetto della concorrenza della mano d'opera, è diventato, al pari di tutte le cose, merce, da trattare, come vuole la logica del mercato, al pari di tutte le merci. Alla luce di questo scenario è forse il caso di tornare a meditare su quella considerazione di Marx secondo la quale - il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengono dotate di vita spirituale e l'esistenza umana avvilita a forza materiale. L'umanità diventa signora della natura, mentre l'uomo diventa schiavo dell'uomo o schiavo della propria infamia -. Se questo era vero nella metà dell'Ottocento dove ancora sopravviveva la speranza di una possibile rivoluzione, a me pare ancor più vero oggi dove questa speranza si è spenta, perché, come ci insegna Hegel, la rivoluzione è possibile quando si è in presenza del conflitto tra due volontà: quella del servo e quella del signore, ma oggi, sia il servo sia il signore si trovano dalla stessa parte, perché come controparte hanno quella non-volontà che è la logica del mercato globalizzato. Una sorta di Nessuno, anche se Omero ci ha insegnato che questa parola nasconde sempre il nome di qualcuno. Ma questo qualcuno è invisibile. E la sua invisibilità determina quella rassegnazione che, chiunque abbia uno sguardo appena attento, può leggere sul volto dei giovani. (…).

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