"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 2 luglio 2018

Terzapagina. 35 “Vivere in una fase di «stagnazione secolare»”.


Da “Non sarà la politica monetaria a fermare la grande stagnazione” di Marco Bertorello e Christian Marazzi, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 29 di giugno dell’anno 2016:  Il vivere dentro una fase di «stagnazione secolare» appare un tema molto evocato. Gli attuali tassi di crescita possono far pensare a una fase di stallo, ma per ipotizzare che possa essere lunga non è sufficiente registrare le odierne fatiche economiche. Ci vuole uno sguardo sui processi strutturali. Solo trasformazioni profonde possono spiegare un andamento che inizia, almeno nei paesi dell'Ocse (cioè tra quelli più ricchi), dagli anni Settanta, con tassi di crescita del Pil passati mediamente dal 4% a poco sopra lo zero di questo decennio. Stiamo parlando di un fenomeno avviatosi circa 40 anni fa. Le ragioni, dunque, saranno complesse e molteplici. Una società caratterizzata sempre più da una distribuzione ineguale del reddito favorisce una circoscritta élite con una propensione al consumo, insufficiente per dinamizzare l'economia nel suo complesso. Ma il mancato effetto sgocciolamento non basta a spiegare ciò che sta accadendo. In questi ultimi decenni non solo sono stati trasformati i rapporti sociali a tutto svantaggio del lavoro, ma si è affermato anche un evidente processo di innovazione tecnica combinato con crescenti dosi di internazionalizzazione dell'economia e della finanza. Va messo sotto i riflettori quello che Economist e Financial Times hanno definito rispettivamente il «puzzle» e il «rompicapo» della produttività, di cui esistono più spiegazioni che soluzioni. O meglio tante sono le spiegazioni da rendere improbabili adeguate soluzioni. Una ricerca dell'Ocse raggruppa in tre differenti periodi la crescita del Pil per ora lavorata (1970-96; 1996-2004; 2004-14) e conclude che nella quasi totalità dei paesi tale crescita è stata inferiore nell'ultimo periodo rispetto agli anni Settanta e che solo negli Usa, in Irlanda e in Australia, gli anni Novanta hanno dato risultati migliori rispetto al periodo precedente. In tutti i paesi comunque si è registrato un crollo nell'ultimo decennio. Di solito per produttività del lavoro si intende il Pil per ora lavorata. Ebbene, tra il 2004 e il 2014, specie nei paesi economicamente avanzati, questo indice della produttività del lavoro si aggira mediamente attorno all'1%, circa la metà rispetto alla produttività media dei due decenni precedenti. La crescita della produttività è data dalla crescita demografica oppure dall'aumento del grado di efficienza dell'apparato produttivo. Entrambi questi fattori ora non sono dati. Le tecnologie dell'informazione, nonostante ruolo e ritmo di diffusione, non sembrano favorire un aumento della produttività. Dall'avvento di queste tecnologie gli investimenti sono andati calando, la ricerca, grazie anche a una ritirata strategica della sfera pubblica, è andata diminuendo, il passaggio dal manifatturiero ai servizi in tanti comparti ha ridotto gli addetti mediamente specializzati e ampliato quelli dequalificati. Le nuove tecnologie, infine, spingono fuori dal mercato dosi crescenti di produzioni, socializzandole e non remunerandole più. I criteri di misura dell'economia risentono delle novità intervenute nei processi di creazione del valore dei nuovi assetti produttivi. Quello che è aumentato in misura notevole in tutti questi anni è l'interazione e la cooperazione sociale della forza-lavoro, cioè proprio quella produttività che non viene pagata dal capitale. Se si tenesse conto della cooperazione sociale, e non solo della prestazione individuale, il calcolo della produttività permetterebbe di remunerare in modo assai più appropriato il contributo di tutti alla creazione della ricchezza. A riprova di questa fase di stagnazione è l'inefficacia delle politiche monetarie ultra-espansive. La crisi è stata fronteggiata con l'immissione di una crescente massa monetaria la quale, secondo la teoria economica, avrebbe dovuto creare inflazione. Invece quasi tutte le banche centrali non riescono a centrare l'obiettivo della crescita dei prezzi, anche al netto del prezzo del greggio.
La moneta circolante aumenta, ma non perde valore, per una formidabile pressione sui prezzi che spinge verso la deflazione. È probabile che il combinato di innovazioni tecniche, livelli di competitività internazionale e riduzione dei redditi medio-bassi sia la spiegazione. Il panorama anemico dei paesi più sviluppati, però, va considerato nell'interconnessione col contesto globale. Il rallentamento dell'Occidente ha dato vita alla diminuzione dei ritmi di crescita di paesi emergenti come la Cina e ne ha mandato letteralmente in crisi altri come il Brasile. I Brics da potenziale soluzione della crisi sono diventati un'ulteriore problema. Nei paesi emergenti, inoltre, si va verso una riduzione del tasso di natalità e, soprattutto, è in corso anche qui un rallentamento della produttività, a conferma che nel tempo si è affermata una profonda interdipendenza non solo commerciale, ma produttiva e persino tecnica. La mancata crescita, nonostante l'innovazione, la moneta immessa e il grado di competizione raggiunto, consegna alla teoria dominante un vero e proprio rompicapo e suggerisce di sperimentare strade economiche diverse da quelle fino a oggi battute.

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