"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 15 luglio 2018

Sullaprimaoggi. 5 “La povertà del lavoro nel secolo XXI”.


Da “Il lavoro è più povero, dopo la grande crisi” di Marco Panara, pubblicato sul settimanale A&F del 9 di luglio 2018: (…). La realtà con la quale ci si deve misurare è una mappa del lavoro che nei dieci anni della grande crisi in Italia è cambiata profondamente. (…). Il lavoro che manca all'1,4 milioni di disoccupati in più rispetto al 2007 che sono il problema numero uno del paese ha nome e cognome: è la somma dei 540 mila posti di lavoro distrutti negli ultimi dieci anni dalla crisi delle costruzioni, dei 350 mila cancellati da ristrutturazioni industriali e chiusura delle fabbriche, dei 170 mila eliminati dal blocco del turnover nelle pubbliche amministrazioni e dei 530 mila piccoli imprenditori, commercianti, artigiani, autonomi di varia natura ai quali la crisi, l'evoluzione della distribuzione e la fine dei contratti a progetto ha cambiato il destino. Se confrontiamo l'Italia del 2007, l'ultimo anno prima della crisi, e quella del 2017, scopriamo che il mondo del lavoro ha una mappa diversa, per certi versi più moderna e per altri ancora colpevolmente arcaica. (…). In questi dieci anni la popolazione (ufficiale) è aumentata di circa 670 mila unità, da 59,13 a 59,8 milioni, un aumento che nell'Italia che non fa più figli corrisponde al saldo tra i due milioni di immigrati in più (sono passati da tre a cinque milioni) e il milione e 300 mila italiani che hanno scelto di trasferirsi all'estero (da 3,6 a 4,9 milioni): un saldo demografico positivo ma un saldo negativo sul piano della scolarizzazione poiché un terzo degli emigrati italiani sono laureati e molto numerosi sono i diplomati, mentre i nuovi arrivati hanno livelli di scolarizzazione più bassi. A fronte dei 670 mila abitanti in più, il numero di coloro in età di lavoro sono aumentati di 1,4 milioni di unità (gli immigrati sono prevalentemente adulti) da 38,4 a 39,8 milioni, e soprattutto è cambiata in maniera interessante la struttura: è aumentato infatti di un milione di persone (da 22,5 a 23,5 milioni) il numero degli occupati, di 1,4 milioni il numero dei disoccupati (da 1,5 a 2,9 milioni), mentre è diminuito di un milione (da 14,4 a 13,4 milioni) il numero degli inattivi. C'è una strana simmetria tra questi numeri, con il milione di occupati in più che ha assorbito il milione di inattivi in meno e il milione e quattrocentomila persone in più in età di lavoro finito tutto tra le file dei disoccupati. Non si tratta delle stesse persone, è più probabile che almeno una parte degli ex inattivi siano tra coloro in cerca di lavoro e una parte dei disoccupati abbia trovato una occupazione, ma in termini di flussi l'esito di questi dieci anni durissimi per la società italiana e la sua economia è che se si è ridotto in misura significativa il numero degli inattivi, che è un dato positivo, a fine dicembre 2017 mancavano però all'appello 500 mila occupati perché dopo il terribile decennio il bilancio (la somma dei disoccupati e degli inattivi) fosse almeno in pareggio. Nei primi cinque mesi del 2018 tuttavia il trend di crescita dell'occupazione è continuato e questo numero si è dimezzato. (…). La prima eredità lasciata dalla crisi è quindi l'aumento del numero di persone che pur in età di lavoro non lo cercano o non lo trovano. La seconda, assai più sfaccettata, è nella struttura del mondo del lavoro, all'interno del quale i due passaggi più rilevanti sono la diminuzione dei lavoratori indipendenti e l'impoverimento di quelli dipendenti. La discesa del numero dei lavoratori autonomi in realtà precede la crisi. Come ha documentato il sociologo del lavoro Emilio Reyneri, il calo è cominciato nel 2004, quattro anni prima della crisi, ed è continuato anche nel 2017, quando la recessione era ormai alle spalle: i lavoratori autonomi erano 6,3 milioni nel 2004, poco meno di 6 milioni nel 2007, 5,3 milioni alla fine del 2017. Può essere un segno di modernizzazione dell'economia italiana, che aveva una quota troppo alta di microimprese e di lavoratori autonomi rispetto agli altri paesi industrializzati (25,4 per cento contro il 14,5 della media europea), ora quella quota si è ridotta di tre punti al 22,4 per cento, che resta comunque assai elevata. La riduzione all'interno del mondo degli autonomi non è stata però omogenea, sono cresciuti i liberi professionisti (che però guadagnano meno), sia quelli con dipendenti sia soprattutto quelli senza dipendenti, per un totale di circa 250 mila unità, mentre sono diminuiti (sempre utilizzando i dati di Reyneri) gli imprenditori di 170 mila unità, e i coadiuvanti e collaboratori di 450 mila unità.
Costruzioni, industria, commercio, hanno tutti contribuito massicciamente alla riduzione, un piccolo segno più lo hanno invece i servizi di alloggio, la ristorazione e i servizi all'industria. I buoni risultati del turismo in questi anni hanno avuto il loro effetto sull'occupazione autonoma e assai più forte (quasi 300 mila occupati in più) su quella dipendente. Difficile dire se questo cambiamento di pelle del lavoro autonomo ci consegni un'Italia più efficiente, visto che i dati sulla produttività continuano a non avere il segno più davanti. Certamente indica una trasformazione, che è vistosa nel commercio al dettaglio, con le vetrine vuote nelle strade commerciali delle città, la diffusione di catene dove chi lavora nei punti vendita è assai più spesso un dipendente che un imprenditore in proprio e il proliferare di gelaterie, pizzerie e altre infinite tipologie di locali dove si consuma cibo. (…). Il lavoro dipendente ha seguito un itinerario diverso rispetto a quello autonomo. Dopo gli anni più acuti della crisi ha avuto un recupero che lo ha portato a fine 2017 a superare i livelli del 2007 e nei primi mesi del 2018 a crescere ancora. Il numero complessivo dei lavoratori dipendenti è passato in questi dieci anni da 16,9 a 17,7 milioni, con un aumento di 800 mila unità, ed è salito ancora a 18 milioni alla fine di maggio 2018. Andando dentro questi numeri tuttavia si trovano le conferme a quello che già sappiamo, ovvero l'aumento del precariato e una quota crescente di part time. Dei quasi 800 mila dipendenti in più a fine 2017 infatti, solo 270 mila sono a tempo indeterminato mentre 500 mila sono a termine, con l'instabilità professionale e di reddito che ne conseguono. (…). Ancora più clamoroso è l'aumento del numero dei lavoratori part time, che per la maggior parte dei casi non è volontario ma subìto. In questi dieci anni il numero dei dipendenti a tempo pieno è diminuito di 400 mila unità mentre quello dei dipendenti a tempo parziale è aumentato di un milione e 200 mila fino a raggiungere un totale di 3,6 milioni. 3,6 milioni di persone che hanno più tempo libero ma anche un reddito minore e che avranno una pensione più bassa. In questi dieci anni è cambiata anche la struttura settoriale del lavoro dipendente, con una accelerazione verso la terziarizzazione dell'economia e, come abbiamo visto con il crollo degli autonomi, con una trasformazione del settore terziario. I buchi più grossi la lunga crisi li ha fatti tra i dipendenti del settore delle costruzioni, meno 380 mila; dell'industria, meno 180 mila (la crisi ha cancellato quasi un quarto della capacità manifatturiera del paese), e della pubblica amministrazione, meno 170 mila, uno dei tanti prezzi dell'austerità. Nei numeri delle assunzioni della pubblica amministrazione e delle banche in questi dieci anni si trovano peraltro buona parte delle cause della disoccupazione intellettuale, ovvero dei troppi laureati che non riescono a entrare nel mondo del lavoro. Nel 2008 la Pubblica Amministrazione ha assunto oltre 125 mila persone, in grandissima maggioranza laureati e diplomati, nei sette anni successivi la media è stata di poco superiore a 70 mila: all'appello ne sono mancati 50 mila l'anno. Le banche hanno numeri più piccoli ma sono anch'essi significativi: nel 2008 i neoassunti sono stati oltre 25 mila, nel 2013 6 mila e 500, nel 2016 7 mila. Anche qui all'appello ne mancano circa 20 mila l'anno. Sommando le minori assunzioni della Pa e quelle bancarie, tra il 2009 e il 2016 si sfiorano 500 mila posti "pregiati" in meno. (…). Passando all'altro piatto della bilancia, il nuovo lavoro dipendente, a parte i 60 mila in più in agricoltura, viene tutto dai servizi. Cresce la logistica con un aumento di 100 mila lavoratori che si occupano di trasporto e magazzinaggio, crescono gli occupati in ristoranti e alberghi di 280 mila unità, crescono i servizi alle imprese di 150 mila unità e crescono soprattutto i servizi alla persona, dalle palestre alle badanti, di 420 mila unità. Nel complesso il numero dei lavoratori dipendenti è aumentato, ma non è il caso di brindare. Un lavoro più povero e meno qualificato, un esercito di autisti e magazzinieri, commesse, camerieri e badanti, ha sostituito bancari e statali, commercianti e piccoli imprenditori. Il declino della classe media, del quale tanto si parla, è tutto qui.

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