"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 10 luglio 2018

Sullaprimaoggi. 4 “L’art. 53, Salvini e la sclerosi multipla”.


Tratto da “Io, la mia malattia e il patto spezzato” di Francesca Mannocchi, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 1° di luglio 2018: La settimana scorsa ero in coda alla farmacia territoriale del quartiere in cui vivo, a Roma. La farmacia territoriale è quel posto in cui le persone affette da malattie che prevedono una terapia coperta del tutto o in parte dal sistema sanitario nazionale si recano per ricevere i farmaci previsti dal proprio piano terapeutico. La farmacia territoriale è un luogo tristemente democratico. Ci sono giovani e anziani, professionisti e operai, uomini e donne. Ci sono credenti e atei. C’è chi ha votato a destra, chi a sinistra, chi cinquestelle. Purtroppo a volte ci sono genitori con i propri figli. E i figli sono i malati. La farmacia territoriale del quartiere in cui vivo, a Roma, è un sottoscala di un ospedale. C’è poca luce, fatta eccezione per quelle artificiali, al neon. Si accede attraverso una scala laterale dell’ospedale in una stanza al piano menouno, che ha una sola finestra, in alto sulla parete, da cui filtra una luce appena accennata. C’è una sala d’aspetto, di solito molto affollata già dalle prime ore del mattino. Qualcuno si lamenta, qualcuno parla del calcio o del tempo, qualcuno parla di politica, qualcuno cammina lungo il corridoio con il catetere vescicale. Qualcuno non cammina, e si muove con la sedia a rotelle. Qualcuno parla della propria malattia, altri invece no. Hanno pudore. Come se volessero dimenticare la propria condizione di malati. Qualcuno vive quel luogo come una catarsi, a guardarci intorno siamo tutti uguali, siamo malati. Qualcuno esce dalla stanza dopo aver ricevuto i farmaci con il sorriso sulle labbra, portando le scatole di medicine come fossero normali oggetti che costruiscono il mosaico della vita quotidiana. Qualcuno invece i farmaci li nasconde, in una borsa, uno zaino, qualcuno usa le buste del pane, per camuffare la cura, per camuffare una condizione vissuta come invalidante, o peggio, vergognosa. La condizione di malato. C’è chi deve prendere l’ossigeno liquido, chi le sacche nutrizionali, c’è chi ha la fibrosi cistica, chi la talassemia, chi le nefropatie. Io devo prendere i farmaci per la sclerosi multipla. Per questo ero in coda alla farmacia territoriale del mio quartiere, a Roma. Poco più di un anno fa mi sono svegliata una mattina con la parte destra del corpo addormentata. Poi la parte sinistra del corpo ha cominciato a sovrareagire agli stimoli nervosi. Sono seguite visite specialistiche, risonanze magnetiche, una rachicentesi, cioè il prelievo del midollo spinale. E infine, la diagnosi: sclerosi multipla recidivante remittente. È una malattia cronica del sistema nervoso centrale, cervello, nervi ottici, midollo spinale. «Ho il sospetto che tu abbia una sindrome demielinizzante», mi disse il medico di famiglia dopo i primi sintomi. Demielinizzante? E che vuol dire? Vuol dire che le fratture create dalla malattia alterano la trasmissione dei messaggi nervosi dal cervello alle altre parti del corpo. Significa che quando hai ricadute cammini male, oppure rischi di avere disturbi della vista, oppure non riesci a deglutire, oppure peggio ti svegli e non ci vedi. Oppure ti svegli e non cammini. È una malattia di cui non si conoscono precisamente le cause, ma su cui la ricerca, cioè la ricerca sulle terapie che ne bloccano il peggioramento, la ricerca che doma la bestia che può diventare la malattia, ha fatto progressi incredibili. Sono i progressi che fanno sì che da quando ho iniziato a curarmi, da quando ho iniziato il mio piano terapeutico convivo con Lei, con la malattia, come se fosse un ospite non gradito.
Nessuno l’ha invitata, certo. Ma lei è entrata nella mia vita dalla porta principale e senza bussare. Si è sistemata in casa mia, nel mio corpo, per ora convivo con lei, come con un fastidio. Un mese fa quando sono andata a prendere le medicine l’ultima volta, uno degli addetti della farmacia territoriale mi ha detto: «Ne è rimasta ancora una scatola, sei fortunata, le ho ordinate ma ancora non arrivano, e se non mandano i soldi per i prossimi mesi non arriveranno le medicine, speriamo bene», ha detto e ha sorriso. Speriamo bene ha detto, con il sorriso obliquo, per metà rassicurante e per metà rassegnato, che ho visto tante volte in questi mesi. L’ho visto nelle ore di anticamera del reparto di neurologia dell’ospedale presso cui sono in cura, tra stampelle e carrozzelle e persone che stanno male ma non lo diresti mai. Speriamo bene, ha detto. E quando sono uscita dalla farmacia territoriale, con le mie punture sotto il braccio, le punture di interferone che mi faccio da sola sulle gambe o sulla pancia una volta ogni due settimane, mentre intorno a noi la Lega e i Cinque Stelle ancora guerreggiavano tra loro e con il Quirinale per la formazione del governo, per la prima volta ho avuto paura. E se tutto questo salta? - mi sono chiesta - se salta questo patto che permette a me e alle migliaia come me di prendere il numeretto alla farmacia territoriale, una volta al mese un mercoledì mattina, e ritirare le medicine che costano più di mille euro al mese e che non pago, perché sono coperte interamente dal sistema sanitario nazionale - mi sono detta - se salta questo patto, che succede?
Ho 36 anni, lavoro a partita Iva, pago le tasse regolarmente, ho un figlio di quasi due anni. E ho una malattia neurologica degenerativa. Ma sono fortunata, mi sono detta, uscendo un mese fa dalla farmacia territoriale, insieme ad altri uomini e donne, malati di altre malattie ma malati come me. Sono fortunata perché vivo in un paese che partecipa oppure copre le mie spese sanitarie. Un paese in cui - in linea di principio - tutti abbiamo accesso alle cure. In cui possiamo entrare in un pronto soccorso, e aspettare otto ore certo per una lastra, e correre il rischio di finire degenti in un corridoio su una barella anziché in un letto, certo - ma entriamo in un pronto soccorso, pubblico, senza alcuna assicurazione sanitaria, uomini e donne, italiani e non italiani, anziani, giovani e bambini e veniamo curati. Tutti allo stesso modo. Su cosa si tiene questo patto? Questo patto si tiene sull’articolo 53 della Costituzione: «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Progressività significa che chi ha di più deve contribuire di più alla spesa pubblica, per garantire a chi ha di meno di potere accedere ai servizi, che devono essere uguali, per tutti. Progressività significa che chi guadagna di più contribuisce alle spese pubbliche anche per me, che senza ospedali e piani terapeutici e farmacie territoriali coperte dal sistema sanitario nazionale, non potrei permettermi una terapia costosa ed efficace come quella che sto seguendo. Progressività significa che posso fare una risonanza magnetica per controllare se la bestia della mia malattia è domata oppure no, e lo Stato, cioè le tasse di tutti noi, coprono le spese. Progressività significa che chi ha di più, chi guadagna di più, aiuta la comunità ad avere i medesimi diritti che ha lui, affinché restino diritti, e non diventino privilegi. È un patto sociale quello della progressività delle imposte, un patto che rischia di dissolversi nella propaganda della flat tax.
In Italia i malati di sclerosi multipla sono 118 mila. 3400 casi ogni anno. Uomini e donne che convivono con una disabilità progressiva. Il costo medio per un paziente è di circa 45 mila euro l’anno, che moltiplicato per 118 mila fa cinque miliardi di euro. A cui va aggiunto il peso per le famiglie, la perdita della qualità della vita, la necessità crescente di assegni e pensioni di invalidità e indennità di accompagnamento. I centri per la riabilitazione ricevono fondi insufficienti, un solo neurologo in Italia gestisce un numero di pazienti che varia dai 141 nei centri più piccoli agli 837 nei centri più grandi. Come si sostengono i numeri del Sistema sanitario nazionale? Con le tasse. Con l’apporto della comunità alla comunità. Con il sostegno degli uni verso gli altri, «informato a criteri di progressività», come dice la Costituzione. Su cui i ministri giurano, entrando nell’esercizio delle proprie funzioni.
Lo scorso 6 giugno il Censis ha pubblicato un rapporto in cui si calcola che il valore complessivo della spesa sanitaria privata degli italiani arriverà a fine anno a 40 miliardi di euro contro i 37,3 dello scorso anno. Nel periodo 2013-2017 la spesa sanitaria privata è aumentata del 9,6%, e nell’ultimo anno 44 milioni di italiani hanno speso soldi di tasca propria per pagare prestazioni sanitarie. Scrive Repubblica che «per gli operai l’intera tredicesima se ne va per pagare cure sanitarie familiari: quasi 1.100 euro all’anno. Per 7 famiglie a basso reddito su 10 la spesa privata per la salute incide pesantemente sulle risorse familiari. E c’è chi si indebita per pagare la sanità. Nell’ultimo anno, per pagare le spese per la salute 7 milioni di italiani si sono indebitati e 2,8 milioni hanno dovuto usare il ricavato della vendita di una casa o svincolare risparmi». Lo stesso giorno, il 6 giugno, il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini rispondendo alle critiche sull’iniquità di una flat tax ha risposto: «Io spero che ci guadagnino tutti, il nostro obiettivo è che tutti riescano ad avere qualche lira in più nelle tasche da spendere». La flat tax è giusta, dice il vicepresidente del Consiglio, e poco importa se i ricchi pagano meno tasse, poco importa se chi ha di più contribuisce meno di prima alla spesa pubblica, perché se gli lasciamo - ai più ricchi - più soldi in tasca, magari si rimette in modo l’economia. Escono a cena, mangiano una pizza, comprano una macchina in più. Insomma, consumano. Ma se chi guadagna di più paga di meno, alle spese pubbliche, ai diritti di tutti, chi ci pensa? Se si rompe quel patto che è sociale ma è anche generazionale, come si garantiranno i diritti? Me lo chiedevo e me lo chiedo anche oggi, in sala d’aspetto di un ospedale qualunque di questo paese, un ospedale di anticamere affollate e nervose, di barelle nei corridoi, ma anche un ospedale di eccellenze, di medici che hanno deciso di restare a fare ricerca in Italia, nonostante l’Italia. Di giovani uomini e giovani donne, mie coetanee, madri e dottoresse, che instancabilmente e pazientemente si prendono cura di tutti. Che cercano per tutti la terapia giusta, coperta dal sistema sanitario nazionale. Cioè dal contributo che tutti noi diamo ai diritti degli altri.
Il 20 giugno il Ministro dell’Interno ha proposto di chiudere le cartelle esattoriali sotto i 100 mila euro, l’ha chiamata pace fiscale ma è ben più appropriato definirlo condono tombale, l’ennesimo. In un paese in cui i grandi evasori sottraggono alle casse dello Stato - cioè a tutti noi - 2,3 miliardi di euro l’anno e i piccoli sono per esempio quelli che hanno chiesto e ricevuto rimborsi non dovuti per il terremoto del 2016: mezzo milione di euro. I 120 furbetti del rimborso, li hanno definiti i giornali locali. Forse quegli stessi furbetti del rimborso si lamentano delle attese al pronto soccorso, o protestano per l’assenza di asili nido, oppure sono sdegnati dalla mancata manutenzione delle strade. Dalla poca cura della cosa pubblica. Di nuovo: come si tiene il patto sociale che garantisce i servizi? Con le tasse. E con la responsabilità di ognuno di noi. Perché se c’è una cosa che è davvero democratica, davvero flat sono i bisogni. (…). Forse il ministro Salvini dovrebbe - con la medesima forza con cui chiede solidarietà per una emergenza migratoria che non esiste nei numeri - chiedere all’Europa un processo di armonizzazione fiscale. Cioè fare sì che non esista un’Unione in cui in uno stato si paga il 40% di tasse e in quello confinante il 15%. Anche questo significa non essere lasciati soli. Perché - di nuovo - le tasse pagano le nostre strade, le scuole, gli ospedali. Il diritto alla cura. Ci pensavo meno, prima della diagnosi, prima di scoprire e di scoprirmi nello stato di malata, altra condizione tristemente democratica. Pensavo agli ospedali e alla sanità più per le sue lacune e i suoi scandali e i suoi malfunzionamenti, la corruzione, le commesse truccate che per la sua eccellenza. Poi nella mia vita è arrivata Lei, la sclerosi multipla. E piano piano, nelle ore passate alla farmacia territoriale, o al terzo piano del reparto di neurologia dell’ospedale, nel tempo di attesa in mezzo agli altri diversi da me ma come me perché malati, ho capito cosa significhi la parola comunità, e quale sia il rischio spaventoso di perderla. Comunità significa pensare all’altro. Pensare l’Altro. Tutelarlo oggi e tutelare i suoi bisogni di domani. Perché di fronte ai bisogni dovremmo poter essere tutti uguali. Questo significa comunità. Non lasciare più soldi - da consumare - nelle tasche di chi ha di più.

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