"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 27 giugno 2018

Quodlibet. 90 “Il «tempo perso» di Ingrao”.


Da “Il tempo perso di Ingrao. Il valore della contemplazione” di Pietro Ingrao, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27 di giugno dell’anno 2017: (…). Io nutro ancora una speranza, la mia unica speranza, senza la quale sarei veramente disperato: che le cose possano cambiare. Nel corso della mia lunga vita ho ricevuto tanto dagli altri, ben più di quanto meritassi, per cui non ho una visione funerea dell’attuale società. Credo però che effettivamente si sia aperta una grande questione, che si prospetti un grave pericolo. Io sono vissuto tutta una vita nella lotta per la tutela e la salvezza del lavoro, di quel grande fatto umano che è il lavoro. Fin da bambino ho imparato che il valore dell’esistenza era inscindibilmente legato al lavoro. Sono del resto due secoli che si parla di espressione della propria identità nel lavoro: è un concetto che accomuna capitalisti e comunisti. Anche nella cristologia si possono trovare visioni simili. Ora, tuttavia -  (…) -, sento sorgere un dubbio su questa scala di valori, che in passato ritenevo tanto assoluta. Un evento fondamentale è stato per me lo sviluppo della macchina, prodotto dell’industria moderna. Chi verrà dopo di noi scriverà che nel XX secolo le macchine hanno straripato, si sono diffuse inondando il mondo, a seguito di una rivoluzione sconvolgente che ha posto al suo centro l’atto meccanico del produrre. Io sono stato addentro a questa logica e ho combattuto questa battaglia. Ora, però, temo che tutti dormano, che si siano dimenticati momenti ulteriori dell’esperienza umana, che ritengo invece essenziali al pari del lavoro. Ciò significa che è necessario un grande passo in avanti. Non basta più chiedere una ulteriore settimana di vacanza, bisogna invece spostare l’intero asse dei valori. Non bisogna più avere soltanto la scala del reddito medio o minimo, oppure del tempo con cui si produce qualcosa. Mi spavento quando sento il poco valore assegnato alla “perdita di tempo”, quando vedo l’inganno che rappresenta l’espressione stessa: “perdita di tempo”. Allo stesso modo mi spaventa il disprezzo verso il notturno, verso quel che è l’io, che a me pare una soglia e che è in fondo l’aprirsi di un’altra sfera, il liberarsi di qualcosa di sé, inteso però anche nel suo senso più preciso e letterale, come disse Freud. Mi spaventa una società che non se ne cura, che lo manda al diavolo se la macchina ha bisogno di lavorare durante la notte. Al diavolo però vanno non solo le ore che si perdono, poiché non si tratta soltanto di quantità di tempo: è la qualità di quel tempo a essere perduta. Si perdono l’inoltrarsi nel sogno, il vagabondare, il contemplare. Di nuovo, il contemplare.
Come ho detto, sono ateo, ma credo che l’esperienza dei cristiani sia importante per comprendere meglio questa dimensione. Cosa guardano, ad esempio, tutti i grandi mistici della storia cristiana? Cosa fissano? Per me contemplare è una parola multipla, polisensa. Qual è il suo reale significato? Guardare l’oltre? Rispecchiare? È o non è un elemento attivo? È solo rispecchiamento dell’oltre o è anche un’attività? E di che tipo, allora? Ho citato la bella espressione di Leopardi, “sedendo e mirando”, il cui fascino si vive grazie alla cadenza del verso. Non dice però “guardando”, bensì “mirando”. Mirare è cosa diversa dal guardare, c’è di più. Come lo raccontiamo? Come lo spieghiamo? E come lo spiegano i credenti? È poi importante anche l’utilizzo del gerundio, usato pure nel Canto notturno, che ha una sua temporalità, indica il prolungamento di questo stato. La contemplazione è quindi una particolare forma di rapporto, di sguardo, ma è anche un modo di durare di questo sguardo. Tant’è che il pastore errante attraversa i deserti, come il monaco contempla nel cenobio.

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