"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 4 maggio 2018

Primapagina. 89 “Purtroppo, ieri, Martina non è pervenuto”.


Ha scritto oggi su “il Fatto Quotidiano” - dopo la funambolica direzione del Pd di ieri 3 di maggio, funambolica in virtù dell’esito finale di quella assise che è stato (l'esito) in perfetta linea con la definizione che ne da il Sabatini-Coletti, ovvero essere “funambolico” nel senso di “Opportunista, spregiudicato: le manovre f. di un deputato” - Marco Travaglio in “Il reggente non ha retto”Una sera, a Parla con me, Paolo Villaggio se ne uscì a freddo, mentre Serena Dandini lo intervistava su tutt’altro, con una delle sue sortite insieme surreali, feroci e geniali: “Mi scusi, signora, ma Brunetta è un nome d’arte?”. Fosse ancora vivo, ora domanderebbe: “Ma Martina è un nome d’arte?”. (…). Purtroppo, ieri, Martina non è pervenuto. Non che non ci fosse, anzi: il guaio è proprio che c’era e, come sempre accade quando c’è, nessuno se n’è accorto. Quando va al cinema, per dire, e prende posto su una poltrona, c’è sempre qualcuno che si siede sopra di lui. Lo schiaccia e rimane lì per tutto il film, malgrado le sue reiterate proteste. Inizialmente lui pensava che ciò dipendesse dalle luci spente, infatti cominciò ad andare al cinema con largo anticipo per sedersi a luci accese: “Così mi vedranno e siederanno nei posti liberi”. Ma niente: la gente continuò ad accomodarsi nel posto già occupato da lui, a non udire le sue lamentele (direttamente proporzionali al peso dell’occupante abusivo) e a restargli sopra.
Gli uomini della scorta tentavano di far notare che il posto era già occupato dal ministro Martina, ma si sentivano rispondere: “Appunto, non c’è nessuno”, “Se questo signor Martina vuole occupare un posto, ci mettesse almeno il cappello, la giacca, il maglione, altrimenti per me è libero”, cose così. Ieri tutti, a cominciare da Mattarella e Fico, attendevano che l’autoreggente desse seguito al proposito di avviare il dialogo col M5S per vedere le carte. Anche a costo di arrivare alla conta temuta da Renzi. Invece niente. È riuscito a tenere un’intera relazione senza dire assolutamente nulla, tant’è che alla fine erano tutti d’accordo e nessuno riusciva più a capire da cosa fosse nato il disaccordo: “Il punto della sconfitta non è che gli italiani non hanno capito. È che non abbiamo capito alcuni bisogni degli italiani. Bisogna rifondare la cultura e il pensiero di fondo”. Ecco di fondo: perbacco, ad averci pensato prima. (…). E la rispostina su quella faccenduola del governo, attesa da Mattarella, Fico e qualche decina di milioni di italiani? È arrivata, solo che non era quella di Martina, ma quella di Renzi: “Il capitolo 5Stelle è chiuso” prim’ancora di aprirsi. E perché, visto che la Direzione doveva decidere proprio su quello? “Per quello che è successo”. E cos’è successo? Che Renzi è andato in tv e gli ha fatto “bu”. E il reggente non ha retto. (…). Matteo, torna: sei tutti loro. È da leggere ora, per completare il pietoso quadro di quel partito,“Il Pd deve discutere col M5S. Anche l’Spd ci ha ripensato” di Walter Tocci, già parlamentare del Pd, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 1° di maggio 2018. Buona lettura. «Ha fatto bene Martina a proporre una trattativa con i 5Stelle impegnandosi a sottoporre i risultati al referendum tra gli elettori del Pd. In un sistema proporzionale nessun partito è collocato automaticamente all'opposizione. La Spd si era presentata agli elettori dicendo “mai più” al governo con la Merkel, ma dopo la sconfitta l'esigenza di dare un governo al Paese ha riaperto la trattativa. I cui risultati hanno ottenuto la maggioranza nel referendum tra gli iscritti socialdemocratici. Una parte del PD, invece, vorrebbe stabilire una pregiudiziale assoluta contro i 5Stelle, pur non avendo mai fatto lo stesso verso Forza Italia. I dirigenti che oggi sollecitano la rivolta della base contro l'ipotesi di accordo con Di Maio sono gli stessi che non hanno mai sentito l'esigenza di ascoltare gli iscritti prima di stipulare con Berlusconi accordi di governo, patti del Nazareno e sostegni informali nelle votazioni critiche al Senato. Perché tale diversità di trattamento? Il programma di governo dei 5Stelle non è più distante dal PD di quanto non lo sia quello della destra. L'affidabilità di Di Maio è un'incognita, ma è un fatto che tutti i leader della sinistra - D'Alema, Veltroni, Bersani e Renzi - abbiano provato a fare accordi con il Cavaliere rimanendo sempre con il cerino in mano. Infine, il berlusconismo non è stato solo un fenomeno politico: per un quarto di secolo il suo leader, dai vertici delle istituzioni, ha incoraggiato la gente a non rispettare le leggi, a far vincere l'egoismo contro il bene comune, a trattare le donne come una merce. Di questi veleni iniettati nel corpo sociale ancora si sentono le conseguenze. All'inizio di questo decennio, però, il fenomeno ha perso la sua spinta sotto i colpi della crisi economica. Il PD ebbe la possibilità di batterlo in campo aperto, ma evitò la competizione elettorale per andarsi a impantanare nel governo Monti, creando le condizioni per il trionfo di Grillo. Il sistema politico è diventato tripolare perché il bipolarismo non ha fornito l'alternativa. Da quasi dieci anni siamo costretti alle larghe intese perché il PD non ha assolto il compito fondativo, cioè costruire l'alternativa al berlusconismo. Ciò non significa che il movimento 5Stelle sia una costola della sinistra; è piuttosto una forza di centro che esprime l'inedita radicalizzazione di questo luogo politico pur decisivo per l'equilibrio del sistema. I democratici e i pentastellati sono quindi molto diversi e tuttavia connessi: sono insieme la causa e l'effetto del fallimento del breve bipolarismo italiano. Questo intreccio rende molto difficile ma anche suggestivo il confronto. In un certo senso, avrebbero bisogno l'uno dell'altro. Il nuovo corso dei 5Stelle, di responsabilità europea e di credibilità di governo, sarebbe corroborato dall'intesa col PD, il quale di rimando avrebbe l'occasione per ripensare le sue politiche migliori, domandandosi perché non abbiano ottenuto il consenso popolare. Il reddito di inclusione si poteva approvare due anni prima - nella versione del governo Letta, senza dover ricominciare daccapo in nome dell'ossessione renziana per l’anno zero - e soprattutto sostenendo tutte le persone aventi diritto, utilizzando i soldi che sono stati sprecati per togliere l'Imu ai più ricchi. Il PD si sarebbe presentato alle elezioni con il risultato storico della lotta alla povertà, e avrebbe svuotato la propaganda 5Stelle che parlava di reddito di cittadinanza pur avendo scritto un disegno di legge più simile al reddito di inclusione. Bene ha fatto Renzi a lottare in Europa per ampliare i margini di manovra del bilancio. Peccato che abbia poi speso decine di miliardi per incentivi alle imprese illudendosi che avrebbero creato lavoro stabile, ripetendo lo stesso errore del famoso cuneo fiscale di Prodi. I nuovi posti di lavoro, sempre più precari, sono venuti dalle politiche europee di Draghi. Invece di sprecare soldi per incentivi si potevano rilanciare gli investimenti nell'ambiente, nella scuola, nella ricerca scientifica, nella sanità, nei trasporti. Sarebbe aumentata molto di più l'occupazione e ne avrebbe avuto un grande beneficio la produttività del sistema paese. Bene ha fatto il governo a mettere molto impegno nella scuola, che però si è tradotto in un'alluvione normativa e burocratica: la legge 107 con i provvedimenti attuativi si avvicina alle centomila parole, mentre la riforma della media unificata che fu la grande novità degli anni sessanta si fermava a tremila. Si è messo inutilmente in subbuglio il mondo scolastico, senza neppure toccare i nodi strutturali: la revisione dei cicli, l'educazione per tutta la vita, la rivoluzione della didattica per il nuovo secolo. Bisogna guardare avanti senza rimestare la legge, anche perché gli aspetti più spinosi - la chiamata dei presidi e i premi degli insegnanti - sono già stati corretti dal governo Gentiloni, tramite perfino qualche eccesso di neoconsociativismo sindacale. Tutto ciò non fa svanire completamente i dubbi sull’effettiva praticabilità di un accordo tra 5Stelle e PD, in primo luogo per questioni oggettive di scarsi numeri in Parlamento e dell'impossibilità di un appoggio esterno. C’è però anche il tema dei limiti soggettivi dei due partiti. Nei momenti difficili ci vorrebbe la grande politica: la Dc di Moro riuscì a contenere l'avanzata comunista imbrigliandola con l'intesa per poi riconquistare la centralità politica. Purtroppo l'attuale gruppo dirigente non solo non è all’altezza di simili compiti, ma non è stato neppure capace di arrestare il cupio dissolvi di Renzi nelle sue tappe dolorose: il referendum costituzionale perso per la pretesa di farne un plebiscito personale, gli ostacoli al governo Gentiloni che poteva offrire una riscossa, la campagna elettorale priva di proposte al Paese e schierata a difesa del Giglio magico, e infine l’aver ostacolato qualsiasi proposta per il dopo voto, lasciando il PD esposto a una nuovo appuntamento elettorale che potrebbe travolgerlo. Ritorna la profezia di Moretti: con questi dirigenti non vinceremo mai. Ma è ancora un partito ricco di risorse inespresse: giovani appassionati, elettori esigenti, amministratori innovatori, competenze disponibili, energie sociali da mobilitare. Di questa linfa si alimenterà la nuova classe dirigente che farà davvero i conti con le sconfitte e rimetterà in cammino il PD».

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