"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 2 aprile 2018

Eventi. 24 “Leggere «La barca del sale»”.

Il “leggere”, ovvero la lettura come pratica prima ed insostituibile della mente, ha in se un che di magico. Poiché essa, anche nelle sue forme più elementari  ed ingenue, crea quella magia che nessuna arte umana riesce, con la medesima facilità, ad eguagliare.
Poiché attraverso essa, per misteriose e sorprendenti vie neuronali, sensazioni nuove e mai provate prima fanno accesso o ritornano nella mente di colui che legge. Mi è capitato anche in questa navigazione nuova che è stata per me la lettura del volume di Giuseppe Sicari «La barca del sale». Poiché, per quelle sorprendenti, misteriose vie neuronali anzi dette, immagini trascorse e vissute ad essa (la lettura) correlate mi si sono prepotentemente riaffacciate alla mente come per esigere da me quel recupero di cose lette ed immagazzinate, cose lette in un mio passato ma pronte sempre a ritornare a vita nuova. Lo è stato cogliendo nella lettura del lavoro di Giuseppe Sicari quel tema – o sentimento che sia – all’Autore così caro e che potrei ascrivere alla cosiddetta, riconosciuta “insularità” che è propria della gente nata e vissuta in quei lembi di terra circondati completamente dal mare. E la “magia” di questa lettura nuova mi ha riportato ad un Autore che della “insularità” ha ornato magistralmente e prodigiosamente – al pari di Giuseppe Sicari - il Suo scrivere. E sono andato alla ricerca di quella improvvisamente riconquistata - nella mia mente - “insularità” “insularità” che per origini non mi appartiene, ma della quale sono stato conquistato -, che lega tanto Giuseppe Sicari alla Sua terra natia, di quella “insularità” letta altrove ed in altro tempo, scartabellando tra i miei libri e riprendendo il volume – letto tanto tempo addietro - di Marcello Fois che ha per titolo “Sempre caro”, volume che fa della nostalgia - quasi leopardiana - la cifra caratterizzante del Suo scrivere. E quella “insularità” del Fois, seppur geograficamente diversa, mi viene da accostare alla “insularità” del Sicari laddove il primo, in un trasporto, oserei quasi dire di “amorosi sensi”, scrive, in omaggio alla Sua terra, ovvero alla Sua isola “che questa terra è il mio penare e il mio gioire. Insieme. E mi attrae e mi respinge. Insieme. E la maledico, la maledico poi l’adoro. Donna crudele, madre avvolgente, amante esigente. Sterile e scomposta, buttata sul mare come una mondana fra le coltri. Galleggiante in mezzo al mare come un bastimento alla deriva. Terra come mare. Terra come mare limpido di smeraldo tremolante d’oro. Terra come mare aperto che conduce chissà dove, chissà dove. Mare che culla come una madre calda, terra che ti turba appena e fa beccheggiare il paesaggio sotto la fumana vitrea del calore”. Straordinarie sensazioni, straordinarie effusioni “amorose”, effetto per quell’”insularità” che accompagna e traspare per l’appunto anche in «La barca del sale». Sosteneva da par Suo il grande aretino - in quella Sua lettera all’amico Giovanni Anchiseo - che “coi libri si verifica un  fatto singolarissimo: l’oro, l’argento, i gioielli, la ricca veste, il palazzo di marmo, il bel podere, i dipinti, il destriero dall’elegante bardatura, e le altre cose del genere, recano con sé un godimento inerte e superficiale; i libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di famigliarità attiva e penetrante”. Ed il “diletto” che suscita la lettura dell’ultimo lavoro di Giuseppe Sicari è di quelli che vanno giù giù “in profondità” fino a creare, sol che si conoscano di passaggio o anche solamente per poco tempo i luoghi e la gente della solatia Trinacria che lo hanno ispirato, “una sorta di famigliarità attiva e penetrante”. Giuseppe Sicari è sì un eccellente, abile cesellatore della “parola” ma al contempo, ed in questo Suo ultimo affresco ne offre una conferma, si rivela un abilissimo, intrigante (col Suo scrivere) artigiano avendo creato uno stupendo, policromo caleidoscopio entro al quale è tutto un turbinio, un vorticoso frullare di figure di varia umanità, di quella varia umanità che quella benedetta, solatia terra offre in doviziosa quantità. A quel lettore che non sia unicamente decrittatore di una successione di grafemi l’occhio posto su quel caleidoscopio - abilmente creato da Giuseppe Sicari - rivela figure nella pienezza della loro umanità, e poi fatti ascoltati e luoghi visti, immaginati o solamente sognati. Ché di quei fatti tanti se ne disperdono se non raccolti pazientemente ed amorevolmente (per come ha fatto magistralmente Giuseppe Sicari) per divenire alfine memoria di tutti, o di quei luoghi tanti dei quali rimangono “stranieri” se non raccontati, “stranieri” nell’affannoso vivere quotidiano degli umani. Ed in quella straordinaria, policroma costruzione (o ri-costruzione che dir si voglia) di quei fatti, di quei luoghi e di quelle Sue umanissime figure non potrà sfuggire all’attento lettore il rifulgere di una figura – tra le tante – che mi viene da far primeggiare su tutte le altre laddove Giuseppe Sicari presenta il Suo Cicciu Giufà, oggigiorno archetipo auspicato, invocato, per quella sua umanità della quale si avverte quanto mai, nel vivere di questi tempi perigliosi che ci siano dati da vivere, il bisogno, ovvero la necessità di un repentino ritorno: “Era un uomo senza età, imprevedibile e sentenzioso, a volte sventato, birichino e un po’ sciocco, altre volte saggio e prudente come un vecchio. Saggio? Certamente, anche se in molti lo ritenevano soltanto un fessacchiotto. Perché? Perché credeva nella giustizia, nelle regole, nella difesa dei deboli e nell’uguaglianza degli uomini. Una specie di rivoluzionario di quei tempi, insomma”. È in questo brevissimo passaggio del lavoro di Giuseppe Sicari che i tanti, tantissimi “fessacchiotti” abitatori del bel paese, dalle Alpi a Capo Lilibeo, si aprono alfine alla speranza che non tutto sia perduto dell’umano vivere di Cicciu Giufà. Ma, ancora, la caleidoscopica magia de’ «La barca del sale»  sta anche in quella “famigliarità attiva e penetrante” - che il grande aretino consegna quale primato ai libri e solamente ai libri - che Giuseppe Sicari è riuscito a creare - o ri-creare – e per la quale il lettore non può o non potrà in un tempo futuro non riandare alle memorie antiche del luogo narrato, a tutte quelle vite vissute – umili o altolocate che siano, ché oramai non ha importanza alcuna – che ne’ «La barca del sale» sembrano proprio essere come risorte ed inaspettatamente - per noi viventi - tornate a parlare o a parlarci forte ancora.


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