"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 16 aprile 2018

Capitalismoedemocrazia. 63 “Il valore economico del lavoro”.


Scriveva il “Moro” di Treviri in “Salario, prezzo, profitto” (1898) a proposito del “valore” economico del lavoro, un’idea che il grande pensatore tedesco aveva anticipato nel corso delle conferenze del 20 di giugno e del 27 di giugno dell’anno 1865, conferenze tenute a margine del Consiglio generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori: “Poiché i valori di scambio delle merci non sono che funzioni sociali di queste e non hanno niente a che fare con le loro proprietà naturali, dobbiamo innanzi tutto chiederci: qual è la sostanza sociale comune a tutte le merci? È il lavoro. Per produrre una merce bisogna impiegarvi o incorporarvi una quantità determinata di lavoro, e non dico soltanto di lavoro, ma di lavoro sociale. L’uomo che produce un oggetto per il suo proprio uso immediato, per consumarlo egli stesso, produce un prodotto, ma non una merce (…). Una merce ha un valore perché è una cristallizzazione di lavoro sociale. (…). Preso in se stesso il prezzo non è altro che la espressione monetaria del valore (…). Ciò che l’operaio vende non è direttamente il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro, che egli mette temporaneamente a disposizione del capitalista (…).
Supponiamo ora che la produzione della quantità media di effetti correnti necessari alla vita di un operaio richieda sei ore di lavoro medio. Supponiamo inoltre che sei ore di lavoro medio siano incorporate in una quantità d’oro uguale a tre scellini. In questo caso tre scellini sarebbero il prezzo o l’espressione monetaria del valore giornaliero della forza-lavoro di quell’uomo (…). Pagando il valore giornaliero o settimanale della forza-lavoro del filatore, il capitalista ha acquistato il diritto di usare questa forza-lavoro per tutto il giorno o per tutta la settimana. Perciò, egli lo farà lavorare, supponiamo, dodici ore al giorno (…). Il capitalista, dunque, anticipando tre scellini, otterrà un valore di sei scellini, perché, anticipando un valore in cui sono cristallizzate sei ore di lavoro, egli ottiene, invece, un valore in cui sono cristallizzate dodici ore di lavoro. Se ripete questo processo quotidianamente, il capitalista anticipa ogni giorno tre scellini e ne intasca sei, di cui una metà sarà nuovamente impegnata per pagare nuovi salari, e l’altra metà formerà il plusvalore, per il quale il capitalista non paga nessun equivalente. (…).” Nella sua schematica, pedagogica rappresentazione è il perverso meccanismo dell’accumulo capitalistico contro il quale il movimento operaio ha dispiegato la sua forza affinché tutto il rapporto di lavoro venisse “contrattualizzato”, senza nulla lasciare alla disponibilità delle parti, in verità della parte più forte, senza ombra di dubbio, il capitalista (di fine ottocento, nella rappresentazione che ne fece Karl Marx). Una premonizione la Sua per i tempi correnti? Che dire a proposito della vicenda dei contratti “nuovi” creati per le nascenti new-company che si vogliono imporre a parità di ore lavorate ma con un “salario” minore, senza diritti garantiti e con un permanente stato di precarietà del lavoro ma anche delle vite personali e familiari dei nuovi “servi” del capiatle? Lo si è visto nella contrapposizione datori/operai dell’industria americana, nella quale i nuovi assunti, a parità di impegno lavorativo con i più anziani, otterranno un “salario” ridotto alla metà. Infatti, la nuova parola d’ordine dei grandi padroni delle ferriere del secolo ventunesimo, resa globale, è oggigiorno “l’estrazione del valore”, e non già la “produzione del valore”, espressione con la quale si intende la creazione di “una casa o una scuola” oppure di “un posto di lavoro stabile e ben retribuito”.  Sono le idee del tempo che siamo chiamati a vivere. Idee che sembravano essere state debellate con la forza di un robusto movimento operaio e l’azione delle forze della “sinistra” che anche in tempi difficili non è arretrata nella difesa del lavoro e dei ceti degli esclusi. Idee del tempo a venire. Sono le idee che Massimo Giannini illustra in una Sua attenta analisi pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” dell’8 di marzo dell’anno 2011 (non fa specie la data che oggigiorno appare remota poiché le cose sono ancor più peggiorate) col titolo “Il demone della finanza”, che di seguito trascrivo in parte: (…). …un sistema economico basato sull’azzardo morale e sull’irresponsabilità del capitale, sul debito che genera debito e sul denaro che produce denaro. E che ci conduce a un capolinea drammatico: la completa svalorizzazione del lavoro, la devastazione delle risorse industriali e naturali, la desolazione di una massa di donne e di uomini che ormai non sono più ceto medio, ma classe povera. (…). Ora siamo alla fase più evoluta: il finanzcapitalismo, mega-macchina sviluppata allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e potere, «il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli eco-sistemi». E questa estrazione di valore è diventata il meccanismo totalizzante e totalitario che ormai abbraccia «ogni momento e ogni aspetto dell’esistenza». Dalla nascita alla morte: come il vecchio Welfare, arrugginito e inservibile secondo la vulgata occidentale dominante, abbracciava un tempo l’individuo dalla culla alla bara. Il salto di qualità è nel passaggio cruciale dalla produzione alla estrazione del valore. Si produce valore quando si costruisce una casa o una scuola; si estrae valore quando si impone un aumento dei prezzi delle case manipolando i tassi di interesse. Si produce valore quando si crea un posto di lavoro stabile e ben retribuito; si estrae valore quando si assoldano co.co.pro. mal pagati o si aumentano i ritmi di lavoro a parità di salario. Bruciati capitali e persone. Se la mega-macchina del vecchio capitalismo industriale fordista aveva come motore l’industria manifatturiera, la mega-macchina del finanzcapitalismo ha come motore l’industria finanziaria. La prima girava grazie al lavoro, che generava reddito, diritti, cittadinanza. La seconda gira grazie al denaro, che genera altro denaro, e poi ancora denaro, e sempre e solo denaro. Finanza creativa, abbiamo imparato a chiamarla in questa inebriante stagione di culto pagano per il dio mercato. Non ci siamo accorti che, nel frattempo, è diventata finanza distruttiva. Per rendersene conto basta esaminare, (…), l’inventario di tutto ciò che è andato distrutto in questi ultimi anni. Nell’immane falò della Grande Crisi sono bruciati gli attivi del mondo, cioè la ricchezza costituita da azioni, obbligazioni, derivati, case, edifici commerciali, impianti industriali, capitali e fondi. Un autodafé stimato da un minimo di 25-30 trilioni di dollari (la metà del Pil del pianeta) a un massimo di 100 trilioni (1,8 volte il Pil mondiale). Ma nel fuoco, con la ricchezza, sono bruciate persone in carne ed ossa: secondo l’Oil, oggi abbiamo 50 milioni di disoccupati in più, e 200 milioni di lavoratori precipitati nell’area della povertà estrema. (…). Gli esseri umani, ormai trasformati in robot o in esuberi, dovrebbero ribellarsi. Se lo facessero, priverebbero la mega-macchina del finanzcapitalismo dei servo-meccanismi che la fanno funzionare. Dalla dimensione individuale a quella collettiva: la missione sarebbe quella di sconfiggere il demone della finanza con l’esorcismo della ragione. La più affascinante, ma purtroppo la più difficile delle rivoluzioni. Ha scritto in “È la New Economy, stupidi e non è vero che non potete farci nulla...” Curzio Maltese nella Sua rubrica “Contromano” curata su “il Venerdì di Repubblica” del 3 di marzo dell’anno 2017: (…). Andiamo verso un’economia che produce grandi profitti per pochi e disoccupazione per troppi. Naturalmente si può vederla anche in maniera ottimistica. L’ex premier Renzi per esempio è appena andato in gita in California e in pochi giorni ha capito che non ci sarà un mondo con meno lavoro, ma con milioni di lavori nuovi e reddito creato dal contatto diretto fra produttori e consumatori. Purtroppo si tratta di una favola un po' invecchiata. Vent’anni fa, quando è partita la rivoluzione della rete, hanno raccontato ai creatori di contenuti – scrittori, musicisti, giornalisti eccetera – che le nuove piattaforme avrebbero creato posti e ricchezza, attraverso appunto il rapporto diretto per esempio fra giornalisti e lettori. Hai un milione di lettori? Bene, ciascuno ti pagherà direttamente un centesimo o meno, quasi nulla insomma, senza passare per intermediari e tu diventerai ricco. È accaduto l’esatto contrario. Oggi un giornalista, uno scrittore, un musicista, ha tre o quattro volte l’audience di prima, ma guadagna un quarto o un quinto o nulla, gli editori licenziano, i giornali chiudono. In compenso Google e Facebook, raccolgono da sole l’85 per cento della pubblicità, senza produrre nulla, dando pochissimo lavoro e oltretutto pagando o non pagando le tasse dove preferiscono. È la new economy, stupidi. Non ci possiamo fare nulla. Ma non è vero. In tutta Europa si cerca finalmente di arginare il Far West illegale della nuova economia di rete. Non è facile, bisogna studiare la realtà e la politica ormai non studia altro se non le tecniche del consenso. Occorre coraggio, perché gli interessi e le lobbies sono potentissimi. Basti dire che in Europa non si riesce a rivedere le norme sull’e-commerce, (…), da ben 16 anni, quando era un neonato. Ora è il colosso di Rodi. Bisogna intervenire ora ed è già tardi. Nessuno per fortuna crede più alle magnifiche sorti e progressive di un libero mercato che doveva produrre maccheroni per tutti come nei sogni di Pulcinella e invece sforna oligopoli e disperati in piazza.

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