"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 19 febbraio 2018

Terzapagina. 18 “Quando c’era Umberto Eco”.



Quando c’era Umberto Eco, una voce al di sopra dell’inutile chiacchiericcio globale (Alessandria, 5 di gennaio dell’anno 1932 – Milano, 19 di febbraio dell’anno 2016). Un Suo ricordo tratto da “Dai faraoni a internet ecco perché i nostri libri sono fragili” di Umberto Eco, pubblicato sul quotidiano la Repubblica, del 26 di gennaio dell’anno 2017: Come si inventa la scrittura nasce il problema del supporto dove applicarla. Come ci racconta Platone nel Fedro, quando il dio Theuth propone al faraone quello strumento che si chiama scrittura il faraone si inquieta perché pensa che con questo strumento gli uomini perderanno il dono della memoria. Non sapeva che solo grazie alla scrittura avremmo avuto le migliaia di pagine di Alla ricerca del tempo perduto. Ma certamente Theuth aveva inventato la scrittura per supplire alla labilità della nostra memoria e per trovare un modo di conservare l’informazione in modo non perituro e non privato (bensì collettivo, in quanto infinitamente riproducibile). Però c’era un terzo requisito che probabilmente Theuth aveva in mente: che si trovasse un supporto che non fosse solo duraturo ma anche facilmente maneggevole. Il faraone non pare avere compreso il problema nel suo insieme: gli egizi iniziavano a scrivere incidendo su steli e sappiamo quanta fatica costi trasportare un obelisco. Il fatto è che il problema era duplice: uno concerneva la materia del supporto, e riguardava la sua resistenza al tempo, l’altra la forma del supporto, e riguardava la sua trasportabilità e consultabilità. E non era detto che i due problemi si potessero risolvere insieme. Per esempio le tavolette d’argilla su cui incidevano i sumeri erano trasportabili o almeno archiviabili (alcuni testi come il poema di Gilgamesh venivano scritti su più tavolette numerate raccolte in un contenitore), però erano fragili. In compenso, siccome erano piccole credo abbiano incoraggiato l’invenzione di quella stenografia che era in fondo il cuneiforme. Per ovviare alla fragilità, è stata certamente una bella invenzione la tavoletta cerata, che nasce anche prima dei romani, la quale non solo non è delicata come l’argilla, ma è anche cancellabile e usabile più volte. Naturalmente è buona per gli appunti e non per consegnare ai posteri opere immortali. A quelle si penserà col papiro, probabile invenzione aramaica, usato sin dal III millennio a.C. Siamo già a un sistema di trasmissione dell’informazione che è simile ad alcuni che ancora usiamo, o che almeno usavano i nostri padri: c’è una penna (il calamo, segmento di canna di palude, appuntito di sbieco e spaccato a una estremità) e l’inchiostro (che varia a seconda delle epoche o dei luoghi: per esempio gli egizi, i greci e i romani usavano una soluzione di nerofumo prodotto bruciando resina, sciolto in una soluzione acquosa di gomma a cui si aggiungevano miele e noce di galla). Il difetto, ma all’epoca non lo si sapeva, era la labilità: basta fare il conto di quanti manoscritti su papiro ci sono arrivati, sia pure tenendo conto del fatto che le biblioteche dell’antichità bruciavano con facilità. I testi in circolazione erano migliaia eppure non ce ne sono pervenuti moltissimi, e in malo stato (se i manoscritti del mar Morto hanno resistito meglio è stato grazie a condizioni climatiche e ambientali eccezionali). Si tenta di ovviare alla labilità del supporto già in Egitto producendo il cuoio scrittorio usato per testi religiosi: pelli di capra assottigliate e conciate con succo di frutti d’acacia ricchi di tannino, e poi tagliato in strisce come quelle del papiro. Il materiale non si putrefaceva ma si essiccava e frantumava col tempo (la maggior parte di queste strisce sono andate perdute). Dopo il cuoio si è tentato con la pergamena, sempre fatta con pelli di animale (per lo più pecora ma anche vitello o capra) macerate nella calce, quindi tese, rasate, asciugate, levigate, tagliate e rifilate. La pergamena è più flessibile e meno deperibile del cuoio. È verosimile che sia stata inventata a Pergamo tra III e II secolo a.C. Tuttavia per lungo tempo il papiro viene considerato più elegante e ancora sant’Agostino si scusa di avere scritto una lettera su pergamena e non su papiro. Però il papiro era quasi trasparente, non poteva essere scritto su ambedue le pagine del foglio e richiedeva un inchiostro molto leggero, che si cancellava più facilmente. La pergamena poteva essere scritta su ambo le pagine e reggeva inchiostri indelebili. Su di essa risultavano meglio eventuali miniature. Insomma, che piacesse o meno a sant’Agostino, sino a circa il milletrecento vince la pergamena. Comunque, papiro o pergamena, se i fogli vengono incollati tra loro a formare un rotolo nasce il volumen (di cui troviamo le prime testimonianze nel XIV secolo a.C. e che resiste come sistema di trasporto dell’informazione più di tremila anni, perché in fondo era il modo in cui sino ai nostri anni Ottanta gli architetti trasportavano ancora i loro progetti). Il volumen può essere trasportato e riprodotto: diventa pertanto oggetto di mercato nel VI secolo a.C., quando amanuensi specializzati iniziano a metterli in vendita per acquirenti facoltosi. Nascono così l’officina e il mercato del libro. Manca solo il libro. Esso appare come codex tra III e IV secolo d.C. (anche se ne abbiamo rari esempi nei secoli precedenti). La pergamena consente di comporre un libro a fogli ripiegati e poi rilegati. Il codex ha questa meravigliosa qualità: se il rotolo permetteva una lettura bidimensionale (dall’alto in basso e da destra a sinistra, o viceversa), esso introduce nella lettura la terza dimensione perché può essere sfogliato ed è così che si possano consultare quasi contemporaneamente la prima e l’ultima parte del testo (il volumen non poteva essere “percorso” rapidamente). Non solo il codex è ideale per la consultazione, ma facilita la lettura.
Si dice che esso sia stato diffuso in ambiente cristiano per differenziare il testo del Nuovo Testamento da quello dell’Antico, soprattutto perché permetteva la consultazione di vangeli sinottici. Rilegato bene e con buona pergamena il codex poteva essere trasportato; non parlo dei pesantissimi formati in folio, ma si pensi a libri d’ore miniati, grandi come una nostra agendina. Riprodurli era molto costoso, è ovvio. Ultima invenzione prima del libro a stampa, nel tardo medioevo, la carta (fatta con stracci) sostituisce la pergamena. E se qualcuno pensa che la carta fosse materiale di supporto più labile della pergamena è perché non ha mai sfogliato un bell’incunabolo, che ancora oggi crocchia quando si tenta di sgualcire il foglio. Purtroppo verso la metà circa dell’Ottocento si è passati dalla carta di stracci alla carta di legno, ben più deperibile. Se la carta non è di altissima qualità, un libro moderno ha una vita media di settant’anni, e dopo inizia a sbriciolarsi. (…). Certamente io sono felice che esistano degli e-book con cui un magistrato che debba consultare di continuo le migliaia di pagine degli atti di un processo possa portarsi dietro l’informazione che gli serve senza dovere usare un tir, così come io sono lieto di aver riversato su una memoria portatile di 250 GB buona parte della letteratura universale e dei testi filosofici, così che mentre lavoro posso recuperare in un istante un canto della Divina Commedia o una questione della Summa Theologica senza dovermi alzare e tirar giù volumi ingombranti dallo scaffale. Ma so anche che basterebbe, come mi è accaduto l’estate scorsa, un fulmine in giardino per smagnetizzare la mia memoria, che se ci fosse un blackout continuato non potrei più usare quella informazione, che se ho pur registrato sulla mia memoria elettronica tutto il Don Chisciotte non posso leggerlo in tal modo a letto, alla luce di una candela, su di una amaca, in barca, nella vasca da bagno, in altalena, mentre un libro mi consente di farlo anche nelle condizioni più disagiate. E se mi cade il computer o l’e-book dal quinto piano sono matematicamente sicuro di aver perso tutto mentre se mi cade un libro al massimo si sfascia, ma il testo di cui è supporto rimane integro. Chi può ancora leggere sui computer oggi in circolazione, un floppy disk degli anni Ottanta? E, se riuscissimo a trovare ancora il lettore adatto, non si sarebbe nel frattempo smagnetizzato? (…). Pertanto, o voi che vi occupate della distribuzione e vendita dei libri, sappiate che a voi è affidata la conservazione della memoria culturale che, almeno per ora, i vari supporti meccanici, magnetici, elettrici ed elettronici non hanno ancora dimostrato di garantire. Il problema è che i supporti moderni sembrano mirare più alla rapida diffusione dell’informazione che alla sua conservazione. Il libro è stato strumento principe della diffusione dell’informazione (pensate al ruolo che ha avuto la Bibbia a stampa per la riforma protestante) ma al tempo stesso anche della sua conservazione. Sì, ho detto che le biblioteche sono preoccupate del fatto che la carta di legno non dura più di settant’anni. Ma ecco un libro del 1951, quando gli editori francesi di opere scientifiche usavano forse il peggior tipo di carta mai esistito. È vero, se non faccio attenzione a sfogliarlo le pagine si spezzano agli angoli, alcune addirittura si sbriciolano. Non potrei, a causa dell’arrossamento della carta, scannerizzarlo. Eppure, dopo quasi sessant’anni, il libro è ancora consultabile e se esso fosse l’unica copia di quest’opera, in qualche modo, magari ricopiandolo a mano, potrei salvarne il contenuto. Nessuna scienza mi assicura che tra sessant’anni questa chiavetta che porto così facilmente in tasca non si sia smagnetizzata. Di fronte a questa prospettiva angosciosa, teniamoci cari i libri. E il tenerceli cari non significa che non si possano far circolare a buon prezzo.

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