"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 28 febbraio 2018

Primapagina. 70 “D.B.: Passa, ho parlato con Renzi ieri, passa”.


















Da “Insider Renzing” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 10 di gennaio 2018: (…). Tutto comincia a metà gennaio 2015: la Consob, organo di vigilanza sulla Borsa, nota un’improvvisa fibrillazione attorno ai titoli di alcune banche popolari. La più appetita è Etruria, che a furia di acquisti sale di valore fino al 65%. Cosa induce tanti investitori a comprare azioni di quella e di altre banchette pericolanti? Sanno qualcosa che i comuni mortali ignorano? La Consob attiva la Guardia di Finanza, che acquisisce dai broker gli ordini di acquisto sospetti (tutti registrati per legge). Uno è di De Benedetti che il 16 gennaio, un mese dopo aver definito in tv Renzi “un fuoriclasse”, telefona al suo broker di fiducia, Gianluca Bolengo. E l’invita a investire nei titoli di alcune banche popolari, visto che Renzi gli ha appena annunciato che sta per riformarle per decreto. De Benedetti: “Il governo farà un provvedimento sulle popolari per tagliare la storia del voto capitario nei prossimi mesi… una o due settimane”. B.: “Questo è molto buono (…)”. D.B.: “Quindi volevo capire una cosa … salgono le popolari?”. B.: “Sì su questo, se passa un decreto fatto bene, salgono”. D.B.: “Passa, ho parlato con Renzi ieri, passa”. B.: “Se passa è buono, sarebbe da avere un basket sulle popolari (…)”. Poche ore dopo il broker di De Benedetti inizia a comprare titoli di sei banche popolari poi coinvolte dal decreto. Di cui ancora nessuno sa niente (a parte l’Ingegnere e chissà chi altri): solo vaghe indiscrezioni sui giornali, ma nessun accenno alle date né tantomeno alla scelta del decreto a effetto immediato. Poi puntualmente, il 20 gennaio, il governo Renzi approva il Decreto Popolari, e i titoli delle banche interessate – ora che la notizia è pubblica – salgono ancora. Così, in quattro giorni, l’editore di Repubblica ed Espresso realizza con la sua finanziaria Romed una plusvalenza di 600 mila euro: soldi che non avrebbe incassato se non avesse saputo (da Renzi, dice lui) ciò che non avrebbe dovuto sapere. Cioè se fosse stato un cittadino come gli altri. L’11 febbraio il presidente Consob Giuseppe Vegas rivela alla Camera che una serie di “soggetti hanno effettuato acquisti prima del 16 gennaio, eventualmente accompagnati da vendite nella settimana successiva”, creando “plusvalenze effettive o potenziali stimabili in 10 milioni di euro”. La Consob ipotizza un insider trading di “secondo livello” (depenalizzato nel 2004 da B. a illecito amministrativo), ma anche ipotesi di reato, infatti trasmette le carte alla Procura di Roma. Alla fine la Consob archivierà la sua istruttoria, con voto a maggioranza dei commissari e astensione di Vegas. Che fa la Procura di Roma, con quelle intercettazioni in mano? Poco o nulla: non iscrive né intercetta Renzi, De Benedetti e altri possibili soffiatori o profittatori di notizie riservate (cosa che invece fecero i pm di Milano e la gup Forleo nel 2005, alle prime avvisaglie dei reati finanziari dei “furbetti”, gettando una rete così vasta che alla fine acchiappò persino il governatore Fazio). Si limita a sentire in gran segreto il premier e l’Ingegnere come testi. L’unico indagato (per ostacolo alla vigilanza) è Bolengo, di cui 18 mesi fa il pm chiede l’archiviazione (per ora non accolta dal gip). La tesi è che non si possono sospettare Renzi e De Benedetti di insider trading perché l’Ingegnere non è preciso sulle due “informazioni privilegiate” che potrebbero integrare il reato: con Bolengo non parla esplicitamente di decreto (lo fa invece il broker, ma “in modo del tutto generico e non tecnico”), né mostra di conoscerne la data. Il 14 dicembre, in Commissione banche, Vegas parla non solo della Boschi, ma anche degli incontri fra Renzi e De Benedetti prima del Decreto Popolari. E subito la Procura si precipita a precisare che “non ha istruito alcun procedimento a carico di Renzi e De Benedetti”. Come se questo fosse un vanto. (…).

martedì 27 febbraio 2018

Primapagina. 69 “Il PD e la leccocrazia”.

Da “PD, la leccocrazia formato scimpanzè” di Pietrangelo Buttafuoco, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 31 di gennaio 2018: (…). Più che un partito, (…), il Partito democratico che Renzi consegna al giudizio degli elettori è un branco; con lui stesso nel ruolo di Elemento Alfa, e con gli altri al suo seguito, tutti chiamati a stargli dietro, col muso appiccicato a pelo della sua stessa coda di Capo. Il luogo dove stanno tutti, la polis, è diventato un posto per uomo solo al comando. Una condizione a tal punto innaturale, quella dell’assolutismo, che neppure il Papa – pur aiutato dallo Spirito Santo – riesce ad avere coi propri cardinali, e però è uno status che la compilazione delle liste elettorali in gara per il 4 marzo prossimo, seppure nella forma della caricatura, conclama. Ed è una conferma più che sfacciata – questa della leccocrazia – quando i candidati, ancorché miracolati per avere avuto un posto dal Capo, annullano quell’idea stessa della pluralità, delle competenze, delle idee e anche quella dei conflitti, sempre più necessari, attraverso cui un’identità si rigenera, pronunciando voti di sempre più rovente fedeltà. Portatori di voti, sì, Renzi se li prende. Alla corte dei fedelissimi, aggiunge la corte dei feudatari locali, i vari De Luca, i D’Alfonso e i Sammartino. Portatori d’idee, giammai. Più che un movimento di idee, di storie, di territori e di progetti, una piazza d’arme di pedine a ranghi serrati in vista della più luccicante coda. Non Luigi Manconi, non Ermete Realacci, non Nicola Latorre, non più politici, insomma, tutti malauguratamente aristotelici. Niente meritocrazia, nessuna competenza. Ma solo e soltanto i fedelissimi bravi a inghiottire qualunque cosa arrivi da quella coda se la prova elettorale – già nel primo passaggio, farsi mettere in lista – è ormai qualcosa a metà tra una sensalia e la lotteria. L’uomo si riconosce dalla parola, il bue – invece – dalle corna. E ha ragione Rosario Crocetta quando si sente buggerato da Renzi che per non candidarlo alle regionali in Sicilia, gli promette di farlo barone a Roma – “ma che dico barone, duca conte, anzi, principino regnante…” – e poi invece lo “posa” senza neppure rispondergli più. Manco fosse, Matteo, il famoso scimpanzé, quello che acchiappa gli esploratori nella boscaglia, quello che d’improvviso prende, possiede, travolge e poi… e poi non parla, non chiama, non telefona e manco una cartolina manda. Così fan tutti, si dirà. (…). Così s’è fatto, a volte. Al parco giochi del berlusconismo, dove pure se ne sono viste di cotte e di crude – dove perfino Nunzia De Girolamo, sgradita ai cacicchi di Purpetta, ha rischiato di essere depennata dalle liste di Forza Italia – si aggiunge questo capitolo curioso assai per ciò che fu il Pd. Un partito dove pure, sotto l’emblema di Falce e Martello ebbe casa “il centralismo democratico”, dove il comunismo officiava la propria dogmatica nel segno del “collettivismo” e che adesso si capovolge nell’estetica della comitiva, l’opera buffa dei ragazzi del muretto reclutati all’ombra del Giglio Magico, in una sorta di vendetta di chissà quale vecchia talpa della storia. Magari quella che sullo Scudo Crociato democristiano sovrappone la Fidelitas a Libertas, con Renzi proiettato nella dismissione di qualunque complicazione che non comprenda il suo io-io-io, il famoso raglio con cui la tracotanza tenta di cancellare il “noi” della politica. Lo scimpanzé che prende possesso del territorio è quello che se li trascina, i gregari. E non serve più la politologia per capirne, ma l’etologia, la scienza che studia il comportamento degli animali per saperne di più degli uomini e di ciò che capita loro in assenza di libertà e spirito critico. Il quadrupede al comando si lascia annusare il popò e non servono meriti nell’agoràdel branco. Ma solo e soltanto fedeltà. Pronta a essere barattata nel momento stesso in cui il capo inciampa. E sempre inciampa, il capo. Manco fosse, il famoso scimpanzé.

lunedì 26 febbraio 2018

Sfogliature. 92 “C’è tanta m…, non fate l’onda!”.



Il sabato 6 di marzo dell’anno 2010 – sembra  un secolo addietro – postavo la “sfogliatura” di oggi. Mancano appena sei giorni al 4 di marzo p. v. ma è come se la “sfogliatura” di allora fosse la cartolina dell’esistente di oggi. Quella “sfogliatura” aveva per inizio “c’è tanta m...” in giro per il bel paese che oggigiorno, a ben otto anni quasi compiuti, quella  “tanta m…” di allora non fa più scandalo, anzi più se ne produce e se ne scopre più ci si sente come liberati da un incubo. Poiché la logica che corre e neanche tanto sottaciuta è che se quella “tanta m…” è ben distribuita tra tutti, ne consegue - o ne conseguirebbe - che l’impunità debba prevalere e valere per tutti e per sempre. E di questo passo non taciuto si fa forte una certa idea malsana della politica più becera. Piove a dirotto e si è in attesa del ciclone Burian. Incontro inaspettatamente G. – che non vedevo da mesi – e ripariamo in un bar per un caldo caffè. G. è un formidabile “affabulatore”, avvince ascoltarlo, ha una memoria di ferro per fatti, luoghi e nomi. Mi affascina ascoltarlo. Per il nostro passato politico condiviso mi spingo a chiedergli del 4 di marzo. Nessun tentennamento da parte sua: voterà come sempre, spinto in tal senso anche dall’ultimo invito pervenuto a “turarsi il naso”. La sua sicurezza mi confonde, ma non mi sorprende tanto. Gli chiedo il perché di quel voto. Mi risponde: per non dare il paese in mano alla destra. Lo incalzo e gli chiedo dove abbia ravvisato e/o ravvisasse tutt’ora la cesura tra il governo della destra e quello della sinistra sopravvenutole. Ne conviene che nessuna cesura sia sopravvenuta tra le due sponde destra/sinistra e che nel maramaldeggiare dell’una ha corrisposto il maramaldeggiare dell’altra. Ed allora? Gli rammento come la prima – la destra – sia stata poco rispettosa delle altre istituzioni del paese – per la giustizia innanzitutto -, così come poco rispettosa lo sia stata in seguito la sinistra soi-disant. Che né l’una né l’altra abbiano mai avuto a cuore il cosiddetto “bene comune” che, se ce ne fosse il bisogno, la tragicomica scelta della destra prima – con il suo “porcellum” – e della sedicente sinistra poi – con il suo “rosatellum”, che è il colore proprio del porcello –  stanno lì a confermarlo, procedendo al cambio delle leggi elettorali vigenti in un paese della comunità europea in prossimità delle scadenze di voto, in barba proprio a quelle direttive dell’unione europea stessa che in concomitanza di tali evenienze prevedono il non luogo a procedersi per il varo di nuove leggi elettorali. Non volevo convincere G. nella sua determinazione di voto e ci siamo lasciati sotto una pioggia torrenziale con l’affetto e la simpatia di sempre. Per chi voterò il 4 di marzo? Boh! Che fare? Scrivevo: “C’è tanta m…” e lo scrivevo non senza un certo imbarazzo, allora. Oggigiorno, questa condizione è salutata a destra, come nella sedicente sinistra, come la benvenuta, una manna, poiché in essa si affoga in buona compagnia. Bene, leggiamo quel di allora: “C’è tanta m…, non fate l’onda per favore. L’onda ci sommergerà”. Dice la figuretta posta a sinistra nell’ultima vignetta di Altan pubblicata sul quotidiano “la Repubblica”: - Ammetta almeno che l’avete fatta fuori dal vaso! – Risponde la figuretta posta a destra della vignetta: - Fuori o dentro è questione di forma: quel che conta è la sostanza -. Domanda: il pitale è colmo? Non sembra ancora. Resta vuoto. Eppure tutta la m… è visibile, sotto gli occhi di tutti, viene a galla prepotentemente. Anzi con la prepotenza di sempre dei vincitori incontrastati. Puzza. È maleodorante. Di m… naturalmente; sostanza grezza e nobile al contempo. Frutto delle intestine trasformazioni organiche. Perfetta alchimia dell’organico! Trascrivo di seguito, in parte, l’editoriale di Marco Travaglio “Forza Mussolini” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 5 di marzo 2010. Scrittura esilarante, come sempre. Forse i tempi non combaciano. La macchina del tempo sarà andata in tilt. Gli strenui difensori della rappresentatività elettorale del popolo bue di oggi si esprimevano nei termini di seguito specificati nel marzo dell’anno del signore 2005 in occasione delle elezioni regionali del Lazio. Da “trombare”, allora, Alessandra Mussolini, transfuga infedele dalle schiere ordinate e compatte del cavaliere di Arcore. Siamo al marzo dell’anno del signore 2010: svaniti gli impeti legalitari dei sicofanti di turno di allora, riaffiorano pericolosamente, per il bel paese, i peggiori istinti populistici nelle schiere dell’egoarca di Arcore. In un contesto nauseabondo. La m… ci sommergerà: è oramai certo: (…). - Le firme sono macroscopicamente false! -, tuonava il Giovanardi, - procure e uffici preposti escludano le liste presentate in modo irregolare! -. - Le autorità competenti facciano controlli a campione sull’autenticità delle firme! -, strillava il Tajani. – È una truffa agli elettori! -, fremeva il Landolfi. (…) – È  una partita a carte truccate -, si stracciava le vesti Storace, - qui si gioca sporco, la campagna elettorale va combattuta ad armi pari -. (…). Storace: - Ha raccolto firme false, è finita -. Martusciello: - Quando ci sono le elezioni bisogna rispettare le regole -. Gasparri: - Diamo un premio ai pochi che han messo la firma vera -. La Russa: - Possono capitare 2,3,10 firme contestabili, ma qui si parla di centinaia! Pecioni! Dicono di aver dietro falangi, poi non mettono insieme 4 firme regolari -. Gasparri nei panni di pm: - È un reato associativo, un attentato alla democrazia. Cosa c’è di più antidemocratico che falsare la competizione elettorale con firme false? Il capo dello Stato non ha nulla da dire ? -. Calderoli: - Predicano bene e razzolano male, parlano di moralità e poi ricorrono a mezzucci -. Formigoni (…): - Le regole vanno sempre rispettate. È giusto che ci sia un controllo rigoroso degli eventuali abusi e che siano puniti coloro che ne hanno commessi. Gli organi preposti verifichino se le firme sono corrette o false -. Ri-Gasparri: - Non è una vicenda politica, ma giudiziaria. La democrazia è in pericolo, ci sono profili penali. Vanno cancellate le liste con firme false e vanno perseguiti quelli che le han facilitate. (…). -. Maroni: - Voglio sanzioni ancor più gravi della semplice esclusione delle liste: chi raccoglie firme false fa una truffa elettorale -. Alemanno: - Decidano i giudici. Moltiplichiamo i controlli: sono regole fondamentali per la democrazia -. Capezzone (…) stava per chiamare i Caschi blu: - S’impongono controlli a tappeto anche con l’ausilio di osservatori internazionali (chiedendo un intervento immediato dell’Ocse), su tutte le liste presentate in tutt’Italia -. Matteoli: - Falsari -. Bondi: - Comportamento disgustoso e immorale della sinistra che non condanna chi viola le leggi -. (…) Castelli: - Le firme van raccolte onestamente secondo la legge -. (…) Landolfi: - Sconcertante -. Bartolini: - I giudici stabiliscono il principio di illegalità, gli elettori puniranno i truffatori- .

domenica 25 febbraio 2018

Primapagina. 68 “Alla crema di Calend(ul)a”.



Da “Crema di Calenda” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di febbraio 2018: (…). Poteva mancare (…) l’illuminato parere del ministro-prezzemolo onnisciente e onnipontificante Carlo Calenda, detto Crema di Calendula perché è un impacco che si porta su tutto, dai foruncoli alla crisi di Roma, dalla micosi del piede ai disastri Ilva e Alitalia, dall’acne giovanile al caso Embraco? Non poteva. “Sostengo la coalizione di centrosinistra perché abbiamo bisogno di una classe dirigente seria”, twitta il Calenda, “ma ogni volta che vedo (sic, ndr) una dichiarazione di Emiliano la determinazione vacilla. Non comprendo cosa c’entri con il Pd”. Ora, per carità, va bene tutto. Ma Emiliano è da 11 anni il segretario del Pd pugliese, è stato due volte sindaco Pd a Bari, è presidente Pd della Regione e un anno fa si è candidato a segretario Pd. Invece Calenda, che distribuisce e revoca tessere del Pd a chi pare a lui, al Pd non è nemmeno iscritto perché lo giudica “un circolo chiuso”. Del resto, alle elezioni 2013 si candidò con la Lista Monti e fu ovviamente trombato. Perché lui porta sempre buono. Era a bordo anche dell’altro celebre Titanic della politica italiana: Italia Futura di Montezemolo (in qualità nientemeno che di “coordinatore politico sul territorio”, infatti Italia Futura sfuggiva ai radar), col quale aveva collaborato alla Ferrari prima di passare a Confindustria. A quei tempi ripeteva prima e dopo i pasti, che “l’Agenda Monti è l’unica strada per la modernità” e “noi siamo alternativi ai Dem, li batteremo” (Corriere, 2.1.2013). Siccome però quelli come lui, nati bene e cresciuti anzi pasciuti anche meglio, non possono vivere un solo giorno col culetto scoperto, appena bocciato dagli elettori Calenda fu raccattato dal governo Letta come viceministro dello Sviluppo. Renzi lo confermò, ma nel 2016 lo spedì a Bruxelles come un pacco postale, in veste di “Rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue”. Permanente si fa per dire: Calenda arrivò il 21 marzo e il 10 maggio era già di ritorno. Giusto il tempo di far incazzare i diplomatici di carriera, poi abbandonò l’amata Europa per afferrare al volo il ministero dello Sviluppo lasciato vacante dalla Guidi e riservato, com’è noto, agli emissari di Confindustria. Lì piantò radici e restò imbullonato anche con Gentiloni. La sua attività ministeriale s’è trascinata sanza infamia e sanza lode, fra una crisi irrisolta e l’altra, una marchetta agli industriali di qua e una di là, fino alla campagna elettorale. Lui, ci mancherebbe, si è ben guardato dal candidarsi: molto più comodo occupare poltrone all’insaputa degli elettori, essendone fra l’altro sprovvisto (di elettori, non di poltrone). Ma ha cominciato a esternare e a presenziare, come tarantolato.

sabato 24 febbraio 2018

Quodlibet. 62 "Pdexit: un’Italia devastata non aiuta l’Europa”.



Da "Pdexit: troppo pochi, troppo tardi” di Maurizio Viroli, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di febbraio dell’anno 2017: “Quando non sai cosa fare, fai quel che devi”. Questa frase che Pier Luigi Bersani ha pronunciato per motivare la sua sofferta scelta di uscire dal Partito democratico, è una delle pochissime affermazioni degne di rispetto e di ammirazione che spicca nel desolante panorama del dibattito politico italiano. Merita rispetto perché chiarisce che decisioni politiche di grande importanza devono essere assunte secondo principi e non secondo interessi personali o di parte. Mi fa piacere render merito a Pier Luigi Bersani perché in passato, quando ha ragionato e agito in maniera completamente opposta, quando cioè ha collocato la ‘lealtà alla ditta’ (parte) al di sopra della Costituzione (principio), l’ho aspramente criticato. Questa volta, giusta la motivazione, giusta la scelta. Un Pd senza Bersani e senza tutti coloro che già lo hanno seguito e che lo seguiranno, sarà un partito più debole e dunque meno in grado di fare male all’Italia come il Pd renziano ha tentato di fare con la riforma costituzionale e come ha fatto con il Jobs Act, la Buona Scuola, lo Sblocca Italia, l’Italicum e altro ancora. (…). Nel caso della scissione del Pd, (…), non credo si possa parlare di una tipica scissione all’interno della Sinistra, per l’ovvia ragione che questo Pd alleato prima con Berlusconi, poi con Alfano, per non citare l’amoroso sodalizio con Verdini, di sinistra non ha proprio nulla. Si potrebbe forse parlare di scissione per la Sinistra, non della Sinistra. Il giudizio sulla pericolosità di questo Pd per il bene comune non cambia se il posto di Matteo Renzi (…) lo occuperà Andrea Orlando. Incapace di far passare una legge che cancelli l’infamia della prescrizione, ha però tuonato che è bene legare la figura di Craxi “non soltanto agli errori ma anche a un’idea di innovazione che Craxi propose a un Paese che da molto tempo non vedeva un’idea di trasformazione della politica”. Come può il Guardasigilli chiamare ‘errori’ i comportamenti criminali e la violazione delle leggi? Le ‘idee di innovazione’ sarebbero la spregiudicata brama di potere e la legittimazione della corruzione? Craxi è stato un delinquente, il vero iniziatore dei peggiori mali italiani, colui che ha spalancato le porte a Berlusconi, il propugnatore della ostilità nei confronti dei magistrati che combattono i criminali, recentemente ribadita da Renzi con la vergognosa frase “basta con la barbarie giustizialista”. Un Pd forte con a capo Orlando potrebbe fare ancor più male di quello che ha già fatto il Pd di Renzi. Diversa considerazione merita la rispettabile scelta di Michele Emiliano: decidere di restare e provare a combattere i gravi mali di questo Pd dall’interno, ammesso che possa vincere il congresso, vorrebbe dire scendere a patti con una forte componente renziana. Ma è bene e giusto, all’interno di un partito, scendere a patti con chi ha progetti politici diametralmente opposti? Non trovo convincente, se pur nobile, neppure la riflessione di Romano Prodi e degli amici Alessia Mosca e Enrico Letta.

venerdì 23 febbraio 2018

Sfogliature. 91 “Gli italiani non si sentono una comunità”.




La “sfogliatura” è del martedì 7 di aprile dell’anno 2009, all’indomani di quella scossa, verificatasi il 6 di aprile dell’anno 2009 alle ore mattutine (3:32), per effetto della quale L’Aquila e l’Abruzzo si inginocchiarono soccombenti dinnanzi al terribile disastro. Per altri iniziava invece la grossa occasione per lo sfruttamento mediatico – ed economico, caspita! - di un evento che il 6 di aprile prossimo venturo – ben 9 anni dopo - mostrerà ancora le gravi ferite non sanate. Poiché, come scrive bene Curzio Maltese sul settimanale “il Venerdì” di Repubblica del 16 di febbraio 2018 – “Nazionalismo di cartapesta” -, “Gli italiani non si sentono una comunità. (…). Gli italiani hanno paura degli altri italiani (a ben ragione, stante la Storia che li riguarda grande o piccola che sia n.d.r.) da secoli, ci siamo massacrati in cento piccole guerre civili – perfino il dibattito sugli immigrati è un’altra bella occasione per disprezzarci fra noi – e l’arrivo dei “barbari”è alla fine una soluzione. L’illusione di trovare in negativo un’identità nazionale non si è mai forgiata su basi positive, per dire una magnifica lingua che in pochi praticano o l’orgoglio di un patrimonio culturale che i turisti conoscono e rispettano meglio di noi. I valori del Risorgimento furono accantonati un giorno dopo l’Unità, insieme ai suoi eroi. Nel vuoto è avanzato un nazionalismo di cartapesta, come la storia reinventata dal fascismo e i fondali televisivi di Berlusconi sui palazzi antichi. Oggi il leader del «prima gli italiani» è uno che ieri cantava: «Senti che puzza, scappano li cani, sono arrivati i napoletani». (…). Se proprio non si riesce a trovare in positivo un’identità, almeno dovremmo sceglierci meglio i nemici della nazione. Che sono i mafiosi, i corrotti, gli evasori, i politici incapaci, gli speculatori, ben prima dello straniero. E questo in fondo gli italiani lo sanno benissimo. Scrivevo in quel tempo andato: Permettetemi una parola. O più parole. Che non hanno la pretesa alcuna di sbalordire. Di scandalizzare. Una o più parole che divengano una voce. Una voce vera. Una voce da “bastian contrario” nel bel mezzo di una tragedia? Una voce fuori dal coro lamentevole? È che la tragedia diviene, per colpa grande dei mezzi di comunicazione di massa, materia prima e preziosa assai e da tesaurizzare per l’intrattenimento più sconveniente che si possa immaginare. Informazione o intrattenimento? Mi ci dibatto furiosamente. Ed è accaduto anche in questa tristissima occasione. Non poteva essere altrimenti. Si narra, almeno prestando fede alla aneddotica corrente, che lui, quello del ventennio nero, avesse dato disposizione affinché le luci di palazzo Venezia rimanessero accese sempre nella notte romana. Un espediente mediatico per l’appunto. Primitivo assai. Lui lavora per tutti noi. Lui veglia sui destini imperiali nostri. Così si saranno detti i buontemponi aggirantisi nei paraggi di palazzo Venezia nelle tarde ore romane. È che quel mezzuccio mediatico aveva un limitatissimo potere di diffusione. Ma con tutto ciò è servito pure a creare una mitologia del capo che lavora incessantemente per i radiosi destini della patria amata. Solo che ha pensato bene poi ad affogarla, l’amata patria, in una sciagurata guerra con tutte le conseguenze tragiche che una guerra comporti. Lo soccorreva però in quel tempo il benemerito Istituto Luce. Ed avveniva che in tutte le contrade ubertose del bel paese i filmati in bianco e nero di lui mietitore, di lui pilota, di lui soldato contribuissero all’indottrinamento forzato del popolo del bel paese. Altra cosa è invece la televisione oggigiorno. Ché se ne avesse potuto disporre lui, quello del ventennio nero, in quel tempo, forse le sorti del bel paese sarebbero state, anche se tragiche sempre, diverse. Forse più tragiche ancora! Chi lo sa. Ho ascoltato lui, quello del tempo nostro, collegato telefonicamente con il salotto  prontamente allestito dall’imenottero televisivo, il vespide della tv, in prima serata, con il massimo dell’ascolto, l’ho sentito perentoriamente impartire disposizioni a due suoi famigli, che sarebbero poi anche due ministri della repubblica, ministri ma solo a tempo perso, affinché si muovessero a procurargli, nella nottata incombente ed all’addiaccio per migliaia di esseri umani, un migliaio ancora, a suo dire, di aitanti pompieri ed altrettante migliaia di soldati nerboruti da inviare prontamente nelle zone del dramma. Che lui – detto sempre da lui al telefono dell’imenottero televisivo, il vespide della tv - aveva organizzato i soccorsi dall’alto di un elicottero. Che lui garantiva che presso ogni cumulo di macerie ci sarebbe stato un nutrito gruppo di soccorso. Che secondo lui nessuno sarebbe stato lasciato solo. Che lui… Che lui… Staremo a vedere o a sentire nei mesi prossimi venturi. E mentre continuava il diluvio mediatico di immagini senza utilità alcuna, mi ponevo la questione dove fosse il limite proprio di una corretta informazione e dove questo limite sforasse nel più indecente terreno dell’intrattenimento. Ecco il punto: quale il limite dell’informazione corretta? E dove essa diviene strumento perverso di intrattenimento e di subliminale asservimento emotivo? Nei filmati del benemerito Istituto Luce è probabile che venisse preservato e continuasse ad essere contenuto in essi quel “pathos” proprio di ogni creazione che coinvolga il vedere ed il sentire degli esseri umani. Il famoso “pathos” della classicità. Così come avviene ogni qual volta si accede ad un luogo deputato alle rappresentazioni. È che la televisione “mitridatizza” l’incolpevole ed inconsapevole telespettatore, lo “mitridatizza” al punto da farlo partecipare ad un evento, anche il più tragico della storia, con un distacco ed una partecipazione indotta dalla assuefazione subliminale che per essa scorre venefica. Siamo appena usciti dall’incubo della “Caffarella”.

giovedì 22 febbraio 2018

Quodlibet. 61 “Una grande fuffa di nome Matteo®”.



“Fuffa”. “Ciarpame, roba che non vale niente; argomentazione ingannevole o inconsistente regionalismo lombardo, probabilmente derivato da fuffigno, che in Toscana ha valore di 'garbuglio di fili'. Questa voce lombarda, negli ultimi decenni, si è guadagnata una meritata ribalta nazionale. La fuffa, dapprima  probabilmente derivata da 'fuffigno', cioè garbuglio di fili e tessuti, o secondo altri addirittura con un'origine espressiva che descriverebbe un ammasso leggero - indica il ciarpame, roba dozzinale e completamente priva di valore. Può quindi, propriamente, rivelarsi fuffa il prestigioso regalo che ci ha fatto l'amico, l'eredità del prozio può consistere in fuffa, e la soffitta è stipata di fuffa. Ma determinante è il valore figurato di questa parola: la fuffa è il discorso privo di valore, il luogo comune, l'argomentazione inconsistente. Si può commentare un articolo dicendo che è pura fuffa, una critica può essere tutta fuffa a parte un paio di punti, e non sapendo dare una risposta, si risponderà con della robusta fuffa. Una parola buffa, piacevole e vigorosa, che dà un bel colore alla frase”. Parola pubblicata l’11 di agosto dell’anno 2015 su https://unaparolaalgiorno.it/. Da “Renzi, la grande truffa della fine del precariato” di Salvatore Cannavò, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 22 di febbraio dell’anno 2015: L’ottimismo di Matteo Renzi è quello di un illusionista. Il “giorno atteso da un’intera generazione”, modo con cui il premier ha salutato il varo del Jobs Act, potrebbe essere solo un giorno come tanti vista la scarsa efficacia delle norme approvate venerdì scorso dal Consiglio dei ministri. La “rottamazione” dei Cocopro, la sintesi mediatica del provvedimento, potrebbe essere una parola vuota con scarsi se non nulli effetti sulla precarietà del lavoro. E anche la stima di “200 mila lavoratori che passeranno da contratti precari alla stabilità” rischia di trasformarsi in un mito. Se non in una bufala. (…).

mercoledì 21 febbraio 2018

Quodlibet. 60 “Maschi vs donne”.



Da “I maschi non sanno cosa vogliono davvero le donne” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del 21 di febbraio dell’anno 2015: (…). Stando a quel che mi (si) scrive, sembra che la svolta (…) l'abbia data la noia della pornografia. Questa ha il suo maggior difetto nel fatto che, sul tema che vuol essere sessuale, non gioca sui volti, sulle parole, sugli sguardi che lasciano intendere le intenzioni e alimentano il desiderio, ma unicamente sugli organi sessuali. Servendo così solo a scoraggiare chi non si ritiene all'altezza delle prestazioni ostentate. La pornografia non conosce il desiderio che si alimenta della mancanza dell'oggetto desiderato, ma solo la ripetizione reiterata e monotona di gesti sessuali prevedibili e tutti uguali, per farci affondare in un mare di noia. (…).

martedì 20 febbraio 2018

Primapagina. 67 “B&M, i cavalieri d’Italia”.



Da “Perché Silvio somiglia a Benito” di Eugenio Scalfari, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” dell’11 di febbraio 2018: (…). Mussolini iniziò la sua vita politica sotto l’insegna del socialista rivoluzionario e direttore del giornale del partito, l’Avanti!. All’epoca della guerra di Libia che faceva parte dell’impero turco, l’Avanti! si schierò contro quella guerra incitando con articoli di Mussolini la classe operaia a bloccare i binari ferroviari e le stazioni dove transitavano i treni militari diretti a Napoli per imbarcarsi verso Tripoli. I socialisti non volevano la guerra e cercavano di impedirla in tutti i modi. Se c’era da combattere bisognava lottare in casa contro il capitalismo dominante. Passarono appena tre anni da allora e scoppiò la prima guerra mondiale. Mussolini cambiò profondamente: divenne favorevole all’intervento italiano, fu espulso dal Psi e fondò un proprio giornale con il titolo Il Popolo d’Italia. A guerra scoppiata, l’Italia era rimasta neutrale. L’interventismo di Mussolini aveva come ispiratore Gabriele D’Annunzio che godeva di ben altro seguito e autorevolezza culturale e politica. Fu lui in quel periodo ad essere chiamato il “vate” dell’intervento a fianco della Francia e dell’Inghilterra e con la Russia, contro l’Austria e la Germania. Nel 1915 l’intervento avvenne, era scoppiata anche per noi la guerra mondiale. Finì nel 1918. L’anno successivo Mussolini fondò un movimento politico i “Fasci di combattimento”. Non aveva un seguito di massa, ma il suo era un piccolo movimento con qualche presenza soprattutto a Milano e in Lombardia e alcuni nuclei anche in Veneto, in Toscana e in Puglia. Il movimento mussoliniano diventò rapidamente un partito in gran parte sostenuto dagli ex combattenti, molti dei quali tornarono alle loro modeste occupazioni e orientati a favore del partito fascista che era in buona parte mobilitato a loro favore affinché lo Stato e la classe sociale ricca li sostenesse migliorando il più possibile la loro condizione. Il partito fascista si batteva dunque per un proletariato ex combattente nella guerra appena finita ma anche con una pronunciata venatura di nazionalismo. Il programma del fascismo inizialmente era stato quello di abolire la monarchia in favore della repubblica, ma il partito nazionalista, che pure esisteva, si orientò verso una fusione con i fascisti ponendo tuttavia come condizione che essi rinunciassero all’ideale repubblicano e aderissero invece alla monarchia cosa che avvenne e culminò nel primo congresso del Partito fascista che si svolse a Napoli nel 1921. Un anno dopo quel congresso, esattamente il 28 ottobre del 1922, ci fu la marcia su Roma dei fascisti provenienti da tutta Italia. Il re, Vittorio Emanuele III, si rese conto della loro forza e assegnò a Mussolini il compito di fare il governo. Naturalmente un governo democratico poiché i deputati fascisti rappresentavano soltanto il 30 per cento del Parlamento ma l’opinione pubblica era largamente con loro. Fu un governo democratico con forti tinte autoritarie. C’era comunque una rappresentanza consistente del Partito popolare mentre il Senato di nomina regia era in larga misura antifascista. Così quel governo andò avanti a direzione mussoliniana fino al 1924, quando il leader socialista Matteotti fu ucciso da un gruppo di fascisti. A quel punto Mussolini aveva due strade: o dimettersi o rilanciare il governo trasformandolo da semidemocratico in dittatoriale. Scelse questa seconda strada e con le “leggi fascistissime” nel 1925 creò il regime. Da allora nasce il Duce e l’ideologia della Roma antica che sarà l’ancora culturale del fascismo. Berlusconi non ha nessuna velleità di imitare il fascismo imperiale. La sua somiglianza con Mussolini riguarda il primo periodo del fascista, quello durante il quale Mussolini cambiò veste, linea, alleanze, cultura politica in continuazione e cioè dal 1911 fino al 1921. Da questo punto di vista tra quei due personaggi esiste, (…), una pronunciata somiglianza. Berlusconi fin da ragazzo si interessò di affari. Maestri e professori con modesti stipendi facevano un certo commercio attraverso ragazzi svegli tra i quali il più sveglio di tutti era per l’appunto Silvio. Quando c’era un compito in classe di matematica o anche di storia quegli insegnanti davano diverse versioni ma tutte degne di buoni voti a qualche ragazzo abbastanza intelligente e interessato, il quale vendeva quei compiti in classe trattenendo per sé una piccola ma interessante percentuale. Man mano che il tempo passava l’affarismo di Berlusconi diventava per lui più conveniente. Fece traffici con banche private di dubbia moralità e ne ricavò risultati notevoli. Poi dopo la nascita delle televisioni locali (esisteva ancora il monopolio nazionale della Rai) si interessò alla pubblicità televisiva e decise di acquistare alcune televisioni locali. A Milano ne comprò due e poi una terza dalla Mondadori. A quel punto collegò tra loro le locali coprendo attraverso di esse una buona parte dell’Italia settentrionale e centrale. Aveva nel frattempo sviluppato i suoi interessi nell’edilizia e costruì la cosiddetta Milano 2 dove alloggiavano una parte dei tecnici televisivi alle sue dipendenze ottenendo le necessarie concessioni edilizie dal comune interessato. Il possesso di un network non più locale ma seminazionale attirò naturalmente l’attenzione degli uomini politici alla guida dei partiti. Berlusconi aveva molti interessi a esserne amico usando a tal fine i poteri televisivi con i quali appoggiò soprattutto la Democrazia cristiana e il socialismo più moderato. Questa sua politica gli consentì di ottenere lavori rilevanti e gli ispirò infine il desiderio di essere anche lui direttamente il capo d’un partito. Poi arrivò la tempesta di Tangentopoli che distrusse totalmente la Democrazia cristiana. Berlusconi fondò Forza Italia mettendo alla guida della sua costruzione alcuni dei dirigenti d’una sua agenzia pubblicitaria, i quali tuttavia non avevano alcuna competenza politica ma soltanto organizzativa. La politica la faceva lui. Per Berlusconi Tangentopoli fu una manna perché parte dei dirigenti della Dc e gran parte degli elettori democristiani affluirono al partito berlusconiano di Forza Italia. A questo punto incombevano le elezioni, era il 1994 quando Berlusconi si presentò per il battesimo elettorale. Le sue televisioni avevano appoggiato senza alcuna remora i giudici di Tangentopoli, e le elezioni andarono molto bene anche perché aveva contratto delle strane alleanze: da un lato la Lega Nord di Bossi e dall’altro il neofascismo di Fini. Bossi e Fini tra loro non si parlavano né si salutavano ma tutti e due venivano consultati da Berlusconi. Naturalmente le consultazioni erano puramente teoriche perché era solo Silvio che decideva il da farsi. Nel frattempo, ad elezioni avvenute, Berlusconi fu incaricato di formare il governo. Questa situazione durò poco. La Lega decise di uscire dall’alleanza e Berlusconi dovette dimettersi da presidente del Consiglio. Il presidente della Repubblica, che lui sperava avrebbe respinto le dimissioni, viceversa le accettò e chiese però a lui di indicare un successore di suo gradimento per rendere meno traumatica quella crisi. Berlusconi indicò il nome di Lamberto Dini, che era stato il direttore generale della Banca d’Italia e nel suo governo il ministro del Tesoro. Dini governò per un anno e mezzo, poi nacque il primo governo Prodi che è stato probabilmente uno dei governi migliori dell’Italia degli anni Novanta.

lunedì 19 febbraio 2018

Terzapagina. 18 “Quando c’era Umberto Eco”.



Quando c’era Umberto Eco, una voce al di sopra dell’inutile chiacchiericcio globale (Alessandria, 5 di gennaio dell’anno 1932 – Milano, 19 di febbraio dell’anno 2016). Un Suo ricordo tratto da “Dai faraoni a internet ecco perché i nostri libri sono fragili” di Umberto Eco, pubblicato sul quotidiano la Repubblica, del 26 di gennaio dell’anno 2017: Come si inventa la scrittura nasce il problema del supporto dove applicarla. Come ci racconta Platone nel Fedro, quando il dio Theuth propone al faraone quello strumento che si chiama scrittura il faraone si inquieta perché pensa che con questo strumento gli uomini perderanno il dono della memoria. Non sapeva che solo grazie alla scrittura avremmo avuto le migliaia di pagine di Alla ricerca del tempo perduto. Ma certamente Theuth aveva inventato la scrittura per supplire alla labilità della nostra memoria e per trovare un modo di conservare l’informazione in modo non perituro e non privato (bensì collettivo, in quanto infinitamente riproducibile). Però c’era un terzo requisito che probabilmente Theuth aveva in mente: che si trovasse un supporto che non fosse solo duraturo ma anche facilmente maneggevole. Il faraone non pare avere compreso il problema nel suo insieme: gli egizi iniziavano a scrivere incidendo su steli e sappiamo quanta fatica costi trasportare un obelisco. Il fatto è che il problema era duplice: uno concerneva la materia del supporto, e riguardava la sua resistenza al tempo, l’altra la forma del supporto, e riguardava la sua trasportabilità e consultabilità. E non era detto che i due problemi si potessero risolvere insieme. Per esempio le tavolette d’argilla su cui incidevano i sumeri erano trasportabili o almeno archiviabili (alcuni testi come il poema di Gilgamesh venivano scritti su più tavolette numerate raccolte in un contenitore), però erano fragili. In compenso, siccome erano piccole credo abbiano incoraggiato l’invenzione di quella stenografia che era in fondo il cuneiforme. Per ovviare alla fragilità, è stata certamente una bella invenzione la tavoletta cerata, che nasce anche prima dei romani, la quale non solo non è delicata come l’argilla, ma è anche cancellabile e usabile più volte. Naturalmente è buona per gli appunti e non per consegnare ai posteri opere immortali. A quelle si penserà col papiro, probabile invenzione aramaica, usato sin dal III millennio a.C. Siamo già a un sistema di trasmissione dell’informazione che è simile ad alcuni che ancora usiamo, o che almeno usavano i nostri padri: c’è una penna (il calamo, segmento di canna di palude, appuntito di sbieco e spaccato a una estremità) e l’inchiostro (che varia a seconda delle epoche o dei luoghi: per esempio gli egizi, i greci e i romani usavano una soluzione di nerofumo prodotto bruciando resina, sciolto in una soluzione acquosa di gomma a cui si aggiungevano miele e noce di galla). Il difetto, ma all’epoca non lo si sapeva, era la labilità: basta fare il conto di quanti manoscritti su papiro ci sono arrivati, sia pure tenendo conto del fatto che le biblioteche dell’antichità bruciavano con facilità. I testi in circolazione erano migliaia eppure non ce ne sono pervenuti moltissimi, e in malo stato (se i manoscritti del mar Morto hanno resistito meglio è stato grazie a condizioni climatiche e ambientali eccezionali). Si tenta di ovviare alla labilità del supporto già in Egitto producendo il cuoio scrittorio usato per testi religiosi: pelli di capra assottigliate e conciate con succo di frutti d’acacia ricchi di tannino, e poi tagliato in strisce come quelle del papiro. Il materiale non si putrefaceva ma si essiccava e frantumava col tempo (la maggior parte di queste strisce sono andate perdute). Dopo il cuoio si è tentato con la pergamena, sempre fatta con pelli di animale (per lo più pecora ma anche vitello o capra) macerate nella calce, quindi tese, rasate, asciugate, levigate, tagliate e rifilate. La pergamena è più flessibile e meno deperibile del cuoio. È verosimile che sia stata inventata a Pergamo tra III e II secolo a.C. Tuttavia per lungo tempo il papiro viene considerato più elegante e ancora sant’Agostino si scusa di avere scritto una lettera su pergamena e non su papiro. Però il papiro era quasi trasparente, non poteva essere scritto su ambedue le pagine del foglio e richiedeva un inchiostro molto leggero, che si cancellava più facilmente. La pergamena poteva essere scritta su ambo le pagine e reggeva inchiostri indelebili. Su di essa risultavano meglio eventuali miniature. Insomma, che piacesse o meno a sant’Agostino, sino a circa il milletrecento vince la pergamena. Comunque, papiro o pergamena, se i fogli vengono incollati tra loro a formare un rotolo nasce il volumen (di cui troviamo le prime testimonianze nel XIV secolo a.C. e che resiste come sistema di trasporto dell’informazione più di tremila anni, perché in fondo era il modo in cui sino ai nostri anni Ottanta gli architetti trasportavano ancora i loro progetti). Il volumen può essere trasportato e riprodotto: diventa pertanto oggetto di mercato nel VI secolo a.C., quando amanuensi specializzati iniziano a metterli in vendita per acquirenti facoltosi. Nascono così l’officina e il mercato del libro. Manca solo il libro. Esso appare come codex tra III e IV secolo d.C. (anche se ne abbiamo rari esempi nei secoli precedenti). La pergamena consente di comporre un libro a fogli ripiegati e poi rilegati. Il codex ha questa meravigliosa qualità: se il rotolo permetteva una lettura bidimensionale (dall’alto in basso e da destra a sinistra, o viceversa), esso introduce nella lettura la terza dimensione perché può essere sfogliato ed è così che si possano consultare quasi contemporaneamente la prima e l’ultima parte del testo (il volumen non poteva essere “percorso” rapidamente). Non solo il codex è ideale per la consultazione, ma facilita la lettura.

domenica 18 febbraio 2018

Lalinguabatte. 49 “Cosmonauta e l’equivoco del mito americano”.



Sono riuscito – finalmente - a (ri)vedere su DVD il bellissimo film “Cosmonauta” della regista – al tempo del Suo lavoro, regista esordiente - Susanna Nicchiarelli. Film delicato e dall’intreccio sorprendente, tanto da avere incantato la platea di Venezia in quell’anno 2009 – un’era addietro appena - e di aver vinto a mani basse il premio per la sezione “Controcampo italiano”. Lo segnalo e lo raccomando ancora tutt’oggi per rischiarare un orizzonte reso oscuro assai mentre langue una campagna elettorale delle più insignificanti e rozze. Con una precisazione opportuna e doverosa per i non addetti ai lavori: chi all’epoca dei fatti rappresentati – dal 1957 in poi - non avesse ancora messo piede su questo angolo d’universo chiamato Terra, ben poche emozioni ne potrà cogliere dalla visione del film. Altrimenti, è tutto un susseguirsi di emozioni e di nostalgie.

venerdì 16 febbraio 2018

Terzapagina. 17 “L’illusione della sovranità”.



Da “L’illusione della sovranità” di Stefano Feltri, riportato su “il Fatto Quotidiano” del 13 di febbraio 2018: Dietro la domanda di sovranità che costituisce il nucleo dell’attuale rinascita del populismo, in Europa e non solo, ci sono malesseri comprensibili e argomenti che perfino l’establishment contestato dai populisti ora riconosce: il disagio per le conseguenze della globalizzazione, l’uniformità di idee e programmi tra i partiti tradizionali, disuguaglianze crescenti non più giustificabili come necessità per garantire un aumento del benessere anche per le parti più deboli della società. Questa richiesta di “contare”, di avere un ruolo, si declina in varie forme nei diversi Paesi, ma non svanirà anche con qualche decimale di Pil in più e di disoccupazione in meno. Perché si alimenta di una sfiducia strutturale e profonda verso un sistema di partiti, Parlamenti, élite e istituzioni internazionali, considerato non riformabile, non importa quali promesse vengano fatte in campagna elettorale. Domande e dubbi legittimi, che però hanno pericolosi effetti collaterali.

giovedì 15 febbraio 2018

Quodlibet.59“#quellochenonpossiamopiùprendereingirolanostragente”.



Da “Il maramaldo e i fratelli Marx” di Daniela Ranieri, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 15 di febbraio dell’anno 2017: Spifferi pilotati ad arte anticipano che sarà una “sfida”, anzi una “partita a scacchi”: il Leader procederà alla “conta”. Il Kasparov della cazzata è lì, accanto al capo del governo che ne fa le veci: maglioncino da seminarista dell’Opus Dei, canta l’inno nazionale manco fossimo in guerra, col petto gonfio e il mento alto. Ci manca che chiuda gli occhi come i calciatori. Lo streaming certifica che Mameli è preceduto dalla hit vincitrice di Sanremo Occidentali’s Karma, che Matteo si intesta in quanto rottamatrice della tradizione degli Al Bano e Ron, i D’Alema e Bersani della musica. Siam pronti alla morte. Loro. Noi alla direzione del Pd, e non si sa a chi va meglio. La voce di Orfini. Ogni volta dimentichiamo quali picchi di ancestrale fastidio possa provocare.

mercoledì 14 febbraio 2018

Terzapagina. 16 “#nonsonienteefacciotutto”.



Da “Non so niente e faccio tutto” di  Denise Pardo, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 4 di febbraio 2018: Pensare che un tempo era un insulto feroce, per moltissimi lo è ancora, meno male, «lei è un incompetente, come si permette, la sfido a duello, a karate, a judo, a sumo». Poi dal fare spallucce all’offesa si è andati un passo avanti ancora o indietro dipende dai punti di vista e il giudizio offensivo ora si è tramutato in una qualità. È diventato un quoziente che sta cambiando la morfologia culturale della società occidentale, si è trasformato in una parola e una parabola chiave dell’ampio raggio che da Donald Trump arriva a Luigi Di Maio (con le dovute mega-galattiche differenze tra i due) e che contraddistingue la nuova classe politica (ma non solo quella) emergente e soprattutto vincente. Buoni a nulla diceva Leo Longanesi ma capaci di tutto. Nell’Italia del disagio e dell’inquietudine, della disoccupazione giovanile e del precariato a metà del guado tra liberismo e “postofissismo” il modello dell’incompetente di successo rassicura più delle lotte sindacali. Non c’è da stupirsi se la carenza di preparazione assurta però a dogma, dottrina e teoria politica, (…), goda di un plauso sempre maggiore. Che liberazione aver fatto gli asini, i vitelloni, gli sfaccendati, non essere minimamente preparati, professare zero esperienza e competenza senza essere bollati come paria avendo sconfitto finalmente, di fronte agli intellettuali e agli esperti arroganti (i gufi professori già disprezzati da Matteo Renzi) il senso d’inferiorità. Ovvero il complesso di non aver conquistato uno straccio di diploma, un brandello di laurea, un master-borsa di studio, marchio di potenziale corruzione. O anatema degli anatemi non aver vinto un PhD massimo grado d’istruzione universitaria, in genere sventolato nei curricula di clan contaminati dal potere affiliati a lobby europee fellone con posto al calduccio in una banca centrale dell’Unione. Così il dolce far niente è diventato viatico per seggi al Senato e alla Camera, e forse in futuro per scranni ancora più alti nonostante briciole di studi e mozziconi d’impiego e dunque è meglio affermarlo nei salotti tv come il più orgoglioso dei manifesti. (…).  La neo-scienza sociale dell’incompetenza è studiata con foga nei laboratori più accreditati dell’intellighenzia e dei cervelloni nella consapevolezza culturale che si tratti di uno scontro di sopravvivenza, di un mondo che può saltare per aria o uscirne con un potere molto ridimensionato. Sull’argomento si sommano articoli, titoli, pubblicazioni, simposi soprattutto nel mondo accademico anglo-sassone dopo la Brexit e l’elezione di Trump presidente che non sa leggere un bilancio, non conosce le leggi ma di questo ha fatto un vanto e una bandiera che lo hanno portato dritto dritto alla Casa Bianca e a un anno di distanza non è mai stato messo in castigo da Wall Street e inizia persino a incassare qualche apprezzamento. Le fabbriche di teste d’uovo Harvard e Oxford monitorano il fenomeno e da noi anche l’università Luiss di Roma benemerita dà il suo contributo pubblicando un saggio al centro di un clamore internazionale. Titolo “La conoscenza e i suoi nemici” sottotitolo “L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia” è scritto da Tom Nichols professore di National Security Affairs all’US Naval War College di Newport e cattedra alla Harvard Extension School.«Tutti dovrebbero leggere questo libro», ha consigliato il premier Paolo Gentiloni al Forum Ambrosetti a Cernobbio consacrando la sua uscita. La tesi è che l’enorme accesso alle porte della conoscenza offerto da Internet non ha creato l’alba di un nuovo illuminismo ma «il sorgere di un’età dell’incompetenza in cui una sorta di egualitarismo narcisistico e disinformato sembra avere la meglio sul tradizionale sapere consolidato». Nichols ricorda il tweet del fumettista e scrittore Scott Adams durante la campagna elettorale di Trump: «Se per diventare presidente è necessaria l’esperienza ditemi un tema politico che io non potrei padroneggiare in un’ora sotto la guida di superesperti», purché beninteso con l’aiuto di Google, Wikipedia e il tam tam di Facebook e Twitter. Una teoria confortante quanto un tête-à-tête con Kim Jong-un. «La nostra vita culturale e letteraria è piena di funerali prematuri», scrive nella prefazione il professore di Harvard. «Se le competenze di settore non sono morte, sono però nei guai. Qualcosa è andato terribilmente storto». Di sicuro in Italia è andato storto il rapporto pieno di aspettative tra opinione pubblica e approdo dei tecnici, i competenti, al governo. La pietra tombale di quello che all’inizio sembrava un idillio fiducioso, l’esperto aveva qualcosa di divino rispetto ai politici di professione grazie a preparazione, studi, conoscenza delle varie materie, (…). Naturalmente non tutti hanno fortuna e possibilità di trovare la propria strada con lungimiranza e costanza, ma quel che non torna è la presunzione dell’incompetenza, quel saper tutto di tutto: «persone qualsiasi persuase di essere depositarie di un patrimonio di sapere, di essere più informati degli esperti, dei professori e di essere molto più acuti della massa di creduloni», descrive Nichols nel libro. Li chiama «spiegatori» entusiasti di illuminare, in conversazioni «estenuanti», dalla storia dell’imperialismo ai pericoli connessi ai vaccini. (…).

martedì 13 febbraio 2018

Quodlibet. 58 “Che scuola è se non addestra al pensiero?”.



Da “Che scuola è se non addestra al pensiero?” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del 13 di febbraio 2016: Dietro lo slogan dell'alternanza studio-lavoro c'è l'idea sbagliata che le due attività siano alternative, come se non fosse proprio la cultura ciò che permette all'uomo di migliorare. Penso (…) che tutte le scuole secondarie superiori debbano essere scuole di formazione, il cui obiettivo non è quello di addestrare al lavoro ma di formare l'uomo, con l'attenzione rivolta alla sua intelligenza per addestrarla al senso critico e al suo sentimento, per renderlo idoneo ad avvertire, anche senza mediazioni intellettuali, la differenza tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Quando un giovane è formato, è anche idoneo ad apprendere qualsiasi attività lavorativa, a partire dalle sue scelte universitarie che lo addestrano a competenze specifiche. Capisco che oggi parlare di formazione significa parlare di qualcosa che non interessa ai genitori, che pensano unicamente all'attività futura che il figlio potrà intraprendere. Questo spiega per esempio perché assistiamo a un'iscrizione in massa al liceo scientifico, rispetto al liceo classico, nell'ingenua supposizione che quest'ordine di studi addestri meglio la mente al mondo della scienza e della tecnica, che è diventato per noi oggi l'unico mondo, a scapito del modo della vita. Chiamo mondo della vita quel mondo dove fanno la loro comparsa arte, letteratura, cinema, teatro: in una parola la cultura, che poi è l'unico tratto per cui l'uomo si distingue dalla bestia. «Con la cultura non si mangia», diceva un nostro ministro dell'economia. Non è vero, ma anche se lo fosse, crediamo sul serio che un popolo possa migliorare e crescere, anche economicamente, senza cultura? I paesi più avanzati non sono anche quelli in cui la cultura è più diffusa? Eppure queste considerazioni, tanto ovvie da vergognarsi persino a ricordarle, collassano di fronte all'atmosfera del nostro tempo, che conosce come unico generatore simbolico di tutti i valori il denaro. Il denaro non è di per sé il male, semplicemente è il mezzo per acquistare qualsiasi cosa. Ma cosa acquista il denaro che circola in una popolazione colta rispetto a una incolta? Negli anni Sessanta e Settanta, quando la società italiana era un po' più colta di oggi, si pubblicavano libri che ora non venderebbero neppure una copia (penso a Heidegger, Horkheimer, Marcuse, Sartre, Foucault, giusto per fare qualche nome). Di conseguenza, in un paese di scarsa cultura le case editrici devono piegarsi ad accontentare i gusti un po' elementari, quando non grossolani, della popolazione, contribuendo a loro volta al decadimento del livello culturale del paese. Lo stesso può dirsi per il teatro, il cinema, l'arte che diventa tale solo quando entra nel mercato e si propone come "evento". Se un lavoro teatrale o un film non raccoglie spettatori in gran numero già dalla prima settimana, sospende le repliche o viene ritirato, anche se è intelligente e ben recitato ma forse troppo intelligente per il livello degli spettatori. Così il degrado viene alimentato e il fiume dell'ignoranza collettiva s'ingrossa, perché a suo tempo la scuola non ha generato una curiosità e una fascinazione per la cultura, dato che la sua preoccupazione è addestrare al futuro mondo del lavoro. Il quale, detto per inciso, non sa che farsene della presenza periodica o il più delle volte saltuaria di studenti che, senza praticarlo, lo "visitano" come si visita una mostra. A questo punto diventano inutili il greco e il latino giudicate lingue morte, anche se senza quelle noi occidentali non avremmo avuto accesso all'etica, alla politica, alla democrazia, alla medicina, al teatro comico e tragico. Alle discipline da eliminare si aggiunge la filosofia, che si ritiene egregiamente sostituita dalla scienza, anche se questa non dà risposte alle problematiche più profonde che spesso si agitano tra i pensieri e i sentimenti dell'uomo. Parlando di "alternanza scuola-lavoro", oggi si pensa che le due cose siano alternative e, dovendo scegliere, si preferisce sacrificare l'aspetto formativo a quello che addestra in vista della produttività e della spendibilità immediata del proprio sapere, posto che nel frattempo lo si sia acquisito.