"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 17 gennaio 2018

Lalinguabatte. 46 “Del finto e del fasullo”.



Ho avuto modo di conoscere, letterariamente parlando, il professor Raffaele Simone, linguista, leggendo il Suo straordinario lavoro che ha per titolo “Il mostro mite” – Garzanti (2008) pagg. 170 € 12,00 -. E come mia abitudine, nel corso della lettura, avevo preso nota di un passo molto interessante di quel lavoro, alla pagina 113, che trascrivo: “(…). …si è indebolita la capacità di tener distinte realtà e finzione, uno dei pilastri della razionalità occidentale. La finzione si distingue in due livelli di natura diversa: il finto e il fasullo. Verso il primo abbiamo di solito un atteggiamento positivo, che può essere anche di desiderio e di ricerca: benché le narrazioni fantastiche (letteratura, cinema, sogno) siano finzioni, nondimeno ne abbiamo bisogno. In esse si appaga qualcosa che è connaturato alla mente umana in modo complicato. Verso il fasullo, invece, abbiamo un atteggiamento di diffidenza e sospetto: le cose fasulle rientrano nella sfera della contraffazione, dell’inganno, della sostituzione abusiva, sono connesse alla truffa e all’impostura. (…). Il finto si associa all’invenzione, al trucco e anche al divertimento; il fasullo alla bugia e all’inganno. (…).”. Dotta e sottile l’argomentazione dell’illustre Autore. Ci riconduce, essa, alla condizione esistenziale vissuta da un buon quarto di secolo - imperante prima l’uomo di Arcore, poi l’uomo venuto da tal Rignano sull’Arno - nel bel paese, nel quale quarto di secolo si sono perse le giuste coordinate per una distinzione chiara e pronta tra la realtà del vivere e la sua rappresentazione più becera e malvagia al contempo, per cui si registra un navigare senza senso che immancabilmente ha portato larghissimi strati sociali ad essere vittime, inconsapevoli per tanti versi, del “fasullo” più sfrontato che si possa immaginare. È che sembra siano venuti meno quegli atteggiamenti “di diffidenza e sospetto” che in verità avevano fatto da sempre parte del connaturato storico ed antropologico degli abitatori del bel paese. Come sia stato possibile è l’arcano del tempo che ci è dato di vivere? Quale magia, o meglio quale malìa, ha potuto ottenebrare menti e coscienze in larghissimi strati sociali da condurre alle condizioni di smarrimento oggigiorno vissuto? Ho ritrovato il professor Raffaele Simone su di una pagina del 3 di marzo dell’anno 2011 amorevolmente conservata del quotidiano “la Repubblica” in un’intervista rilasciata a Franco Marcoaldi che ha per titolo “Le buone azioni dello scettico”. Di seguito la trascrivo in parte:
(…). «Cominciamo col dire che in italiano, a differenza di altre lingue, si può credere a qualcosa o a qualcuno, ma anche in qualcosa o in qualcuno. A, in – queste due diverse preposizioni aprono una crepa semantica interessante. Credere a significa dare credito alle dichiarazioni verbali di qualcuno. Credere in ha invece una doppia valenza. Se io credo in un mio alunno, è perché penso che nel futuro farà belle cose, avrà fortuna. Confido nella speranza di una sua affermazione positiva. L´altro senso del credere in poggia invece con fiducia su ciò che qualcuno fa, asserisce o è. Se affermo di credere nella sinistra, per esempio, questo non implica che avrà fortuna o si imporrà, ma che i suoi valori e il suo progetto politico mi convincono».
Proviamo a calare queste distinzioni semantiche nell´Italia di oggi. «Quanto al credere a qualcuno, gli italiani credono sin troppo. Siamo anzi un popolo di creduloni. Ovvero di persone che per una serie di motivi storici tendono a prendere per buono tutto ciò che viene loro raccontato. Anche perché abbiamo una scarsa cultura del dato di fatto. Ed è un fenomeno che si riflette poi sulle più diverse forme di credulità: dalla magia superstiziosa al bigottismo miracolistico, per finire con il potente di turno, il quale può dichiarare ciò che vuole, tanto sa che sicuramente qualcuno gli crederà».
Passiamo al credere in. «Temo che non si creda in nulla, in senso proprio. I valori condivisi sono deboli e quelli forti mancano del tutto: penso all´idea di patria, storia, bene pubblico, istituzioni, memoria. Sì, ogni tanto vengono agitati in modo pretestuoso, ma senza incidere nella convinzione intima delle persone. Non sono uno storico, ma ormai tra esperienze, letture e incontri, qualche idea me la sono fatta. Tutto rimanda a quella triade diabolica, ancor oggi viva e vegeta, che fu raccontata con micidiale chiarezza nei Promessi sposi. E cioè: prima di tutto, marcata presenza straniera, che allora significava dominazione spagnola e oggi si manifesta in una colonizzazione culturale, oltre che economico- politica, dettata dalla globalizzazione. Secondo, centralità delle mafie: si è passati da don Rodrigo a Provenzano, ma la musica non cambia. Terzo, il ruolo strabordante della Chiesa. Queste tre entità hanno reso inutile credere in qualunque idea. Mentre invece si crede via via al potentato prevalente, per opportunismo, convenienza o paura. La vicenda politica degli ultimi vent´anni, in questo senso, è emblematica: è difficile pensare che la maggior parte degli italiani che dicono di credere in Berlusconi credano veramente in lui».
E dunque? «Dunque ci deve essere qualcosa sotto. Magari quella che nella Francia del tardo rinascimento veniva chiamata servitù volontaria, la bramosia di sottomettersi a qualcuno. Oltre, naturalmente, al desiderio di dare una lezione a quelli lì. Che sono poi la sinistra, gli intellettuali, lo Stato».
Facciamo un passo indietro: Nicola Chiaromonte, (…), sostiene che nel tempo della malafede le menzogne utili sostituiscono le verità inutili. «Una definizione che si attaglia perfettamente al nostro caso. Ormai tra ciò che si pensa, quel che si dice e come stanno effettivamente le cose, c´è una totale scissione. La percezione del reale, nel discorso pubblico italiano, si è talmente attenuata che si ha spesso l´impressione che i fatti si siano dissolti».
L´alterazione strutturale del rapporto vero, falso, fittizio, è un tema che lei tratta, su scala globale, anche nel suo libro Il Mostro Mite, edito da Garzanti. E torna quanto mai utile per indagare il tema delle credenze. «Abbiamo vissuto contemporaneamente due curvature oppressive, che hanno avuto riflessi importanti in campo cognitivo: quella della globalizzazione e quella del berlusconismo, che ha potuto sfruttare il medium globale per eccellenza, la televisione, ormai completamente scollata dalla realtà. I molti che la mattina per prima cosa guardano i programmi di Rete Quattro o Canale Cinque non hanno più alcuna percezione della vita reale. Pensi a un programma come quello della De Filippi: un vero e proprio trionfo dell´irreale, un Truman Show dell´orrore. Quelli che ballano e si dimenano seminudi sono assolutamente irreali».
In un contesto come questo, lei a quali convincimenti si attiene? In cosa crede? «Io mi dichiaro, solo con una sfumatura di scherzo, un marxista leopardista. Conosce questa etichetta?».
Se non sbaglio è di Sebastiano Timpanaro. «Giusto. Filologo, storico, filosofo, tra le menti più acute che abbia avuto questo paese, Timpanaro ci ha offerto di sé questa definizione. Marxista, perché crede nei contrasti violenti della realtà sociale e cerca di combatterli; leopardista, perché accompagna la sua lotta con una forma di sostanziale scetticismo. E insieme confida in una riserva di energia mentale sufficientemente ricca da permettergli di agire. In sintesi: finché stiamo qui, sebbene sia tutto vano, diamoci da fare».
Se non altro per capire. Per riconoscere, ad esempio, le nuove forme di credenza. «Centrali, tra queste, mi sembrano il culto del corpo e quello dell´anima. Il primo è cosa relativamente recente. L´operazione fitness, se portata alle sue estreme conseguenze, impone anch´essa quella falsificazione della realtà di cui si parlava in precedenza. Il mito dell´eterna giovinezza mi costringerà a guardarmi allo specchio, piena o pieno di silicone, riconoscendomi in una persona che non sono più io. Quanto al culto dell´anima, risale all´avvento della psicanalisi e si estende poi grazie a forme sempre più plebee di psicologismo dozzinale. La scuola occidentale odierna, e non solo quella italiana, è la più psicologizzata di tutta la storia. L´anima del bambino, la sua affettività, il suo vissuto, sono diventate preoccupazioni preminenti dell´istituzione scolastica. Del resto, anche il vago bisogno di religione e spiritualità va in questa direzione, in direzione del sincretismo. Io parlerei addirittura di fusion: si pesca un po´ qua e un po´ là, nella speranza che qualcuno, o qualcosa, faccia stare meglio il fantolino che abita dentro di noi». (…).

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