"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 17 novembre 2017

Lalinguabatte. 43 “Ius soli? No! Ius culturae, sì”.



Era noto da tempo quanto la “casta” della politica fosse succube di quella autorità che alberga al di là del Tevere. Per un tornaconto elettorale becero ha trattenuto, quella “casta”, un intero paese nelle condizioni di sudditanza rispetto ad un potere altro, ritardandone lo sviluppo nei costumi e nelle coscienze sempre più ammorbate da scelte, dell’imbelle legislatore, che sono state lontane dai tempi e dalla sensibilità diffusa. Ora, con la comparsa di un legislatore nuovo ed inatteso – il vescovo di Roma a nome Francesco - anche la “casta” sente l’odore del nuovo che avanza e cerca opportunisticamente di cogliere al volo l’occasione per quelle scelte legislative che per la pavidità sua sono rimaste rinserrate nei cassetti dei palazzi che contano. È bastato che quel vescovo, nell’esercizio del suo mandato, pronunciasse frasi del tipo “non è eutanasia lo stop a cure inutili” – frase attribuitagli e riportata nei titoli del quotidiano la Repubblica - che la “casta” si risvegliasse di colpo dal colpevole sonno e dall’incoscienza per additare ad una data vicina l’approvazione della tanto attesa legge sul “biotestamento” e, così come per una rincorsa contro il tempo tiranno, l’approvazione anche dell’altra tanto attesa legge civile ed umana che è lo “ius soli”. Eppure non sono mancati i pronunciamenti d’oltre Tevere per offrire all’imbelle “casta” l’opportunità – allorquando ce ne fosse stato bisogno – di procedere a quell’adeguamento della nostra legislazione in fatto di morte e diritti dei vivi tutti, di qualsivoglia etnia e colore della pelle purché abitatori del bel paese. Sosteneva Pio XII – al secolo Papa Pacelli Roma, 2 marzo 1876/9 ottobre 1958 – che “non c’è obbligo di impiegare tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili e, in casi ben determinati, è lecito astenersene”. E Paolo VI – al secolo Papa Montini, 26 settembre 1897/Castel Gandolfo, 6 agosto 1978 – sosteneva: “Pur escludendosi l’eutanasia, ciò non significa obbligare il medico a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre la scienza”. E così Giovanni Paolo II – al secolo Papa Wojtyla, 18 maggio 1920/Città del Vaticano, 2 aprile 2005 -: “Si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita”. Financo un papa “tradizionalista” quale è stato Benedetto XVI – al secolo papa Ratzinger; Marktl, 16 aprile 1927, dimissionario percependo l’inadeguatezza sua rispetto alle problematiche di un mondo globalizzato - ha avuto l’ispirazione di sostenere che “la ricerca medica si trova talora di fronte a scelte difficili, ma serve un giusto equilibrio tra insistenza e desistenza”. Ma per l’imbelle “casta” il tornaconto elettorale, anche conoscendo tali “magistrali” pronunciamenti, ha prevalso su ogni altro aspetto sbattendo le porte a quella parte di società civile che insistentemente la richiamava al suo dovere di legislatore nell’interesse della generalità dei cittadini e non solamente nel rispetto degli indirizzi di una parte dottrinalmente orientata. Cosicché all’indomani del solenne pronunciamento del legislatore d’oltre Tevere è stato tutto un coro ed un susseguirsi di intenzioni – ripensamenti - affinché quelle due leggi escano finalmente dal limbo nel quale l’ignavia della “casta” le aveva relegate. Ma è stata proprio quella ignavia della “casta” con i suoi colpevoli, opportunistici ripensamenti a fini elettorali e di potere e con la rinuncia a qualsivoglia “pedagogia della politica” che ha fatto attecchire e maturare nella società civile tutto un “ius culturae” che fa da robusto argine, se non da grande e serio ostacolo, al progredire di un più diffusamente sentire per una coscienza civica e civile più alta e sentita. Ne ha scritto sempre magistralmente Umberto Galimberti sull’ultimo numero del settimanale “D” dell’11 di novembre – “Lo ius culturae nasconde troppi equivoci  e spaventose rimozioni” – che in parte trascrivo:
Quando chiediamo agli immigrati di adeguarsi alla nostra cultura, la conosciamo anche nei suoi aspetti atroci? (…). Lo jus culturae nasconde, a mio parere, delle trappole che sarebbe opportuno evidenziare. 1. (…). …rientrano nello jus culturae tutti quei giovani che riempiono le curve dei nostri stadi? Sì, per nessun altro motivo (tanto meno culturale) se non quello di essere nati sul suolo italiano e iscritti all'anagrafe al momento della nascita, cosa negata ai figli degli immigrati nati in Italia. E ancora, rientrano nello jus culturae anche quegli strati di popolazione che vivono in una cultura mafiosa, dove la famiglia (mafiosa) è più importante e per giunta conflittuale con i diritti e doveri di cittadinanza dei membri che la compongono? Non hanno la cultura dello Stato e tantomeno delle sue istituzioni, non hanno un'economia trasparente, le leggi che riconoscono non sono quelle dello Stato, ma quelle del clan, eppure nessuno pone la questione se queste persone, che non hanno alcun legame con lo jus culturae, siano o meno italiani. 2. Lo jus culturae sottintende che la nostra cultura è quella giusta e le persone che hanno un'altra cultura e vengono da noi devono adeguarsi alla nostra. Ma francesi e inglesi non si sono, non dico adeguati, ma neppure fatti carico di prendere in considerazione le differenze etniche e culturali dei popoli del Medio Oriente quando, alla fine della prima guerra mondiale, con righello e compasso ne hanno tracciato i confini, creando le premesse dei conflitti attuali. Noi italiani non ci siamo adeguati alla cultura dei libici o degli etiopi quando nel 1936 siamo andati nelle loro terre a compiere massacri e genocidi. Le multinazionali occidentali non si sono adeguate alla cultura delle popolazioni africane quando sono andate nei loro territori a spogliarli della loro ricchezza, se è vero che ancora oggi il PNUD (Programma delle Nazioni Unite dello Sviluppo) ci informa che gli aiuti che noi forniamo ai Paesi africani sono un decimo della ricchezza che annualmente sottraiamo a loro. E poi queste popolazioni dovrebbero anche ringraziarci e amarci per questa nostra metodica spoliazione? E dovrebbero stare a casa loro e morire di fame perché i migranti economici non rientrano nei diritti d'asilo previsti dalle nostre leggi? E questa sarebbe la nostra "cultura" a cui loro dovrebbero adeguarsi venendo da noi, senza che noi si faccia un passo verso di loro, anche se sappiamo benissimo che il nostro benessere dipende dal basso costo delle materie prime che abbiamo imposto a loro, a partire dal petrolio, vera causa della destabilizzazione del Medio Oriente di cui ancora dobbiamo temere le conseguenze. E non (è) "patologia del rancore" il fatto che queste popolazioni si sentono "vittime che avanzano rabbiose richieste di risarcimenti a posteriori di quanto avvenuto nel corso della storia", perché questa storia dura tutt'ora, se è vero che il (…) telefonino, (…), può funzionare solo grazie a un minerale, il coltan, che si estrae nelle miniere del Congo dove, come schiavi, gli abitanti lavorano con compensi da fame, senza alcuna sicurezza, e dove una vedova o una madre non può nemmeno piangere il corpo del proprio caro sepolto e abbandonato dentro le voragini della montagna. È questa la cultura di noi occidentali a cui anche loro dovrebbero adeguarsi?

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