"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 6 novembre 2017

Cronachebarbare. 47 “Carles P. e il sogno di un’Europa dei popoli”.



L’affermazione più pronta, inattesa, è stata: “è fuggito”. Come pure: “si è sottratto alle sue responsabilità”. La più “cattiva” è stata: “disertore”. Sono state le considerazioni sentite in un familiare convivio. È che il tempo che ci è dato da vivere, periglioso assai, è affetto da quel “superomismo” per cui il Carles di Barcellona non avrebbe potuto aspettarsi di meglio. Sicuramente se si fosse piegato o prestato ad una “prova muscolare” maggiori consensi e maggiore considerazione avrebbe conquistato sul campo. Ma così non è stato. Da quel che leggo è il tratto dell’uomo, la sua valenza umana, la sua cifra come suol dirsi. Per cui, al tempo di superuomini e di mostruosità varie, Carles Puigdemond non ha meritato di meglio. Tanto è che un opinionista di fama e di grande vaglia – che leggo sempre con attenzione e grande considerazione - ha tirato in ballo – tanto per non parlarne bene questa volta - il Catilina da contrapporre a quel Carles di Barcellona, quel Catilina che imperterrito andò incontro alla morte. Ecco, un atteggiamento da superuomo gli sarebbe tornato utile. Ma non l’ha cercato, forse non l’ha voluto. Ha scritto bene Concita De Gregorio – che è spagnola per via della madre Concha originaria della Barcellona di Carles - in “Carles, il ribelle riluttante porta la sfida catalana nel cuore dell’Europa” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 1° di novembre ultimo: Il gesto di Carles Puigdemont – andare fisicamente, portare il suo corpo al centro dell’Europa – ha la semplicità disarmante del disegno di un bambino: se non hai capito cosa intendo te lo faccio vedere, (cosa) significa quel gesto. Intende dire, il presidente destituito della Catalogna, che di questa vicenda si deve occupare l’Unione. «A cosa serve, altrimenti, l’Europa di Altiero Spinelli se non a dirimere le questioni di democrazia, di libertà, di rispetto reciproco e di rispetto del voto dei cittadini degli Stati membri? », mi ha detto. A cosa serve l’Europa se non è in grado di fare quel che farebbe qualunque padre con due figli che litigano: lasciarli dire e fare, finché è lecito e possibile, poi convocarli a sé: venite qui, a questo tavolo, parliamo. «Un’Europa che risponde solo alle banche, all’interesse economico, alla convenienza dello Stato guida non è quella per cui in tutta la nostra storia ci siamo battuti». Ecco una prova nuova, se ne fosse mancata ancora una, che l’Europa sognata Carles Puigdemont e da milioni di altri europei, ovvero l’Europa dei popoli, non è in questa Europa, non lo è proprio; è semmai, questa, l’Europa della finanza, l’Europa della burocrazia, ma non l’Europa degli spiriti liberi non affetti dal “superomismo” dominante. Perché, infatti, in questa Europa, possono trovare risorgente ascolto le voci maldestre di chi sogna un ritorno al passato fatto da un rinchiudersi egoistico nel propri confini? Affascina la figura di quel Carles di Bracellona, ostinato sognatore di un’Europa che tardiamo a vedere. Scrive ancora Concita De Gregorio nella Sua analisi, tra le migliori che mi sia capitato di leggere: La Catalogna è la più europeista delle regioni di Spagna, storicamente. Tra le più europeiste d’Europa, in questi tempi. Il silenzio imbarazzato delle istituzioni europee e l’inazione dell’Unione di fronte ai fatti di Spagna – di fronte alle ripetute, ossessive e quasi monotone richieste pubbliche e private rivolte da Puigdemont ai leader europei - è il dato politico più eloquente e insieme più preoccupante non solo per la Catalogna, ma per tutti gli stati dell’Unione. Per il futuro, più che per il presente. Un difetto di senso strutturale. (…). E poi: …se il governo centrale guidato dal Partito Popolare di Mariano Rajoy avesse consentito che i catalani votassero al referendum avrebbe quasi certamente vinto il no, convengono tutti gli analisti (il governo poteva farlo e non lo ha fatto: quando si dice che il referendum era illegale si omette di aggiungere che la Costituzione del ’78 ammette quel tipo di consultazione se concordata col governo centrale. Che in questo caso ha negato il consenso). I catalani volevano la libertà di votare – la posizione di Podemos e di En Comù Podem della sindaca Ada Colau, contraria all’indipendenza ma favorevole al voto, è uno dei molti esempi. Perché Rajoy dunque non lo ha consentito? È sciocco? È incapace? (…). Né sciocco né incapace, il capo del governo spagnolo aveva tutto l’interesse ad infiammare la questione catalana e lo ha fatto. Interesse duplice: uno, incassare consenso elettorale in vista delle prossime politiche, per arrivare alla maggioranza assoluta e liberarsi dello scomodo appoggio dei socialisti, avversari storici e in altri tempi naturali del Pp. Due, distogliere l’attenzione dalle incredibili vicende di corruzione che hanno riguardato e riguardano membri del suo esecutivo. Il governo Rajoy, lo dicono i fascicoli giudiziari aperti, è tra i più corrotti del dopo-Franco. (…). L’anticatalanismo atavico del resto di Spagna è il sentimento su cui Rajoy ha fatto leva, ergendosi a paladino dell’Unità in vista di un futuro incasso elettorale. (…). Poiché è certo che la politica non offre mai il volto suo più innocente, più trasparente. E Concita De Gregorio ricorda che (…). …fu il socialista Pasqual Maragall a scrivere l’Estatut – la carta di autonomia concordata col governo socialista di Zapatero – che, se fosse rimasta in vigore, avrebbe messo il punto alla vicenda catalana. Ma il Partito Popolare, sopraggiunto al governo a dicembre del 2011, un anno prima aveva favorito la pronuncia della Corte costituzionale (per una parte di nomina politica) a sfavore dell’Estatut, che decadde. La storia di oggi comincia allora: nel 2010, con la cancellazione di un lavoro politico di decenni, ottenuto e infine cassato. Per sette anni i catalani hanno chiesto un nuovo Statuto di autonomia, invano. Illuminante assai questo passaggio della analisi di Concita. Impegni non mantenuti, irrigidimenti voluti mirando ad utilizzare il “problema catalano” per fini politici di parte, di casta. E Concita De Gregorio ci offre una immagine “nuova”, la misura prettamente e smisuratamente umana di Carles Puigdemond, immagine ignorata da quei media della contrapposizione a tutti i costi sulla quale costruire le proprie fortune editoriali, magari con una contrapposizione “muscolare” meglio ancora, accada quel che accada poi, laddove scrive che:
(…). Il leader destituito è subentrato al governo catalano in maniera inaspettata, candidato dell’ultimora alla sostituzione di Artur Mas. Era sindaco di Girona, una cittadina vicina al confine con la Francia. Giornalista pubblicista, cattolico, scout, pacifista. Uomo di destra moderata. Una destra democristiana, diremmo in Italia. Ha subito chiarito che avrebbe esercitato un solo mandato. La missione politica, per la quale è stato sostenuto al governo dalla sinistra radicale della Cup e da quella anticomunista e antisocialista di Esquerra Republicana, era chiara: indire il referendum, e tener fede al risultato. «Ho un solo compito. Portare il mio popolo a votare e tener conto del voto, qualunque esso sia. Il giorno dopo torno dalla mia famiglia. Ho due figlie piccole, voglio vederle crescere, la politica non è nel mio futuro ». Dopo il referendum del 1° ottobre e nonostante l’aggressione alla quale i cittadini sono stati sottoposti (negli attacchi della Guardia Civil una donna ha perso un occhio a causa di una pallottola di gomma, proiettile proibito dalla legge, centinaia sono stati i feriti) il presidente ha cercato senza sosta una posizione di dialogo col governo. Anche dopo la messa sotto accusa del capo dei Mossos d’Esquadra, la polizia regionale che non si è unita agli assalti, dopo l’arresto dei “due Jordi”, dopo le dichiarazioni pubbliche della vicepresidente del governo Soraya Sáenz de Santamaría che negava le violenze documentate da giornalisti di tutto il mondo Puigdemont ha continuato in pubblico e in privato a invocare l’intervento dell’Europa. Ha sperato in Prodi, che con Fassino e Bobo Craxi aveva sottoscritto un documento in favore del dialogo. «Ho cercato tutti. Le questioni di libertà e di democrazia poste dalla Catalogna sono materia che compete all’Europa. Noi abbiamo subito violenza e non ne abbiamo esercitata. Non una mano si è levata, non un vetro si è rotto nelle strade per parte nostra. Anche di fronte alle provocazioni, alle prevaricazioni. In attesa di essere chiamati a un tavolo: di avere un luogo dove discutere dei diritti di chi chiede di essere ascoltato, di votare». L’intenzione di Puigdemont, negli ultimi giorni, era quella di indire nuove elezioni catalane. La spinta della Cup e di Esquerra lo ha portato verso la dichiarazione unilaterale di indipendenza come gesto ormai solo simbolico: la procedura di destituzione da parte del governo centrale era ormai avviata. Ha forzato la mano quando non c’era altro da fare, «perché restasse almeno il segno che quel che abbiamo fatto non è stato vano». A chi gli dice che il risultato elettorale non consentiva di dichiarare indipendenza - che non c’era maggioranza effettiva degli aventi diritto al voto - risponde che vale la maggioranza di chi è andato a votare, in democrazia. «Il punto, oggi, è che l’Europa non può tacere. Non può voltare le spalle e liquidare quel che è avvenuto come un fatto interno. Non vogliamo un’Europa dei banchieri, vogliamo un’Europa dei cittadini. Non sono io il problema, è la Catalogna. Io non ci sarò in futuro, la nostra gente sì. La mia missione politica si chiude qui». Qui, a Bruxelles. A dire fisicamente a chi governa l’Unione: parliamo. È quanto l’Europa - non dei popoli - ha voluto cinicamente ignorare distogliendo lo sguardo da quell’angolo di Spagna e rimanendo sorda ed insensibile alla richiesta di solidarietà e comprensione di una parte della quella sua gente. È questa l’assurda e tragica storia di quel sognatore di un’Europa dei popoli che non c’è. Ci sarà mai?

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