"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 3 ottobre 2017

Primapagina. 47 “Germania/Europa, oggi”.



Da “Le crepe di Deutsche e l'autogol del rigore” di Fabio Bogo, pubblicato sul settimanale “A&F” del 3 di ottobre dell’anno 2016: Chissà se la giornata convulsa vissuta venerdì scorso (30 di settembre dell’anno 2016 n.d.r.) da Deutsche Bank sulla piazza di Francoforte e le ore di tensione nei listini azionari di mezzo mondo hanno fatto squillare qualche campanello d'allarme anche nella cancelleria di Berlino. Speriamo di sì. Perché l'altalena della più grande banca tedesca ha dimostrato in maniera evidente come il sistema finanziario globale sia totalmente interdipendente, e come una voragine che sembra aprirsi in Germania crei subito un effetto rovinoso in Italia, e viceversa. E ha ribadito che per scongiurare le crisi sistemiche occorre essere pragmatici e non prigionieri del dogmatismo, quello dell'austerity che Berlino impone a se stessa e vuole per gli altri, sottovalutandone le autolesionistiche conseguenze sistemiche e usando a corrente alternata la memoria di costi e benefici. Sul fronte degli investimenti pubblici, ad esempio, un recente studio della Commissione Europea ha spiegato come l'aumento della spesa da parte dei paesi meno indebitati possa avere ampi benefici collettivi, tra cui quello di ridurre il debito delle nazioni più esposte. E passando dalla teoria alla realtà, gli analisti dell'agenzia di rating Dbrs hanno fatto nomi, cognomi e conti: se Germania e Olanda aumentassero i propri investimenti pubblici nell'ordine dell'1% l'anno per i prossimi 10 anni, e la politica della Bce restasse immutata, la crescita tedesca avrebbe uno scarto positivo di un ulteriore 1,1 per cento e quella olandese dello 0,9 per cento. E dopo 10 anni un beneficio permanente di circa due punti di più. Ma c'è di più. La forte crescita tedesca e olandese trascinerebbe il resto dell'Europa, e unita al deprezzamento dell'euro avrebbe un impatto sul Pil di Italia, Francia e Spagna nell'ordine di mezzo punto di Pil in più all'anno. Il costo dell'operazione, in termini di maggiore indebitamento, sarebbe minimo: due punti in più per la Germania al termine del piano decennale, 2,8 punti per l'Olanda. I benefici complessivi di questa operazione di stimolo fiscale sarebbero superiori ai potenziali rischi, stimano gli analisti di Dbrs. Il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble da quell'orecchio non ci sente: in Parlamento ha ribadito che Berlino "spende solo quello che ha". E un parlamentare della Csu, partito alleato della Cdu di Angela Merkel, è stato ancora più illuminante nel criticare la politica di tassi zero della Bce: "Le misure di Draghi sono buone per l'Eurozona nel suo insieme, ma non per la Germania". Apprendiamo così che Eurozona e Germania sono due cose distinte. E che a Berlino dimenticano di aver risparmiato grazie all''Eurotower dal 2008 al 2015 122 miliardi di euro di interessi. Buono per la Germania, quindi. Perché in quella cassa si fanno solo versamenti.

Da “L'individuo e il cittadino” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 27 di settembre 2017: (…). La crisi non è uno spazio neutro che possiamo attraversare restando noi stessi. È un agente sociale che modifica percorsi, gerarchie, riferimenti, scatenando paure libera istinti, selezionando esclusioni genera rancori, sovvertendo le speranze provoca risentimenti. Porta a galla il lato nascosto del benessere in cui avevamo vissuto, quando la crescita compensava ingiustizie e iniquità. Svela il fondo delle nostre inquietudini. La crisi è finita, d'accordo, l'Europa torna a crescere, a diversa velocità. Ma cosa vuol dire oggi crescita, cosa c'è adesso nella parola "lavoro"? Sapevamo che nella locomotiva europea tedesca la precarietà è passata dal 18 per cento del 2001 al 20,7, per raggiungere il 30,6 tra le donne? Che c'è una differenza di 7 euro all'ora nei compensi dei lavoratori "atipici" rispetto ai tradizionali? Che i lavoratori "poveri" sono cresciuti in dieci anni dal 7 all'11,5 per cento? Che l'11 per cento dei pensionati tedeschi dai 65 ai 74 anni (cioè poco meno di un milione di persone) è obbligato dal bisogno a lavorare? L'inquietudine del post-moderno nasce da questo presente instabile che rattrappisce la fiducia nel futuro. Si consuma la tutela della politica, si smarrisce il sentimento di cittadinanza, si perde la coscienza repubblicana. Nasce un'inedita privatizzazione dei valori che credevamo universali, e vogliamo che oggi valgano soprattutto per noi, prima di testimoniarli agli altri. Cresce una nuova gelosia dei diritti, che nel benessere declinavamo per tutti e oggi vogliamo consumare da soli. Si diffonde un modernissimo egoismo del welfare, come se non avesse funzionato da strumento di compensazione sociale, dunque di governo naturale della società. "Non voglio dividere" è la parola d'ordine che sigla la fase: senza accorgerci che segna la regressione da cittadino a individuo. Si capisce che tutto questo sbocchi a destra, se prende la forma della deriva, non governata. E in particolare nelle zone più svantaggiate, come la Germania dell'Est, l'ex Ddr, dove vengono a galla nello scontento la deindustrializzazione, il contenzioso sulle vecchie (e basse) pensioni, il sentimento nascosto di colonizzazione da parte dell'Ovest, un senso di minorità culturale dentro un establishment "occidentale" difficile da scalare. Così si spiega l'Afd che arriva al 21,5 per cento all'Est, diventando il secondo partito sul territorio dell'ex Ddr, in un voto che sembra cortocircuitare la storia tedesca e d'Europa. Non conta più, a quanto pare, la libertà riconquistata, il benessere condiviso, la democrazia imperfetta ma diffusa. La gelosia del presente conta di più, come se l'Occidente fosse capace di liberare, ma non di convertire, o di conquistare. E allora, forse, il secolo socialdemocratico può continuare proprio qui, nella solitudine moderna dell'individuo, per restituirlo a cittadino.

Da “Ma guarda che strano: la Germania non è poi un paradiso terrestre” di Alessandro Robecchi, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27 di settembre 2017: (…). Raccontata solitamente come poderosa locomotiva, dove gli operai siedono nel Cda delle grandi imprese, ed efficienza e ordine tirano tutto il carro, la Germania si scopre oggi – colpo di scena – un po’ meno gloriosa. Impazzano i mini-jobs, un trucchetto che pare italiano per contare come occupati anche quelli che portano a casa due euro, per dirne una. Risultato: regnante la signora Merkel, la disoccupazione è scesa (dall’11 al 4 per cento), ma sono aumentati i lavoratori tedeschi che vivono in povertà (dall’11 al 17), il che significa che si è svalutato il lavoro, né più e né meno che negli altri grandi paesi europei (qui facciamo malamente eccezione: la povertà aumenta, ma la disoccupazione non cala). In queste condizioni è abbastanza facile prendere il povero, scontento e incazzato tedesco, mostrargli un immigrato e dire che è colpa sua. E’ un trucchetto vecchio come il mondo, che in Germania conoscono bene.  Si aggiunga che nei posti dove AfD ha vinto di più, soprattutto a est, gli immigrati non ci sono, ma abbondano altri problemi che sono quelli di un sistema economico che “ottimizza” il suo funzionamento schiacciando verso il basso milioni di cittadini: i poveri più poveri, il ceto medio spaventato e sempre sull’orlo di diventare povero pure lui. I fascisti-rivelazione delle elezioni tedesche sbandierano lo slogan “Prima i tedeschi”, che fa scopa con il “Prima gli italiani” di Salvini e fascistume nostrano, che fa briscola con “La Francia ai francesi” della signora Le Pen. In pratica si dice al povero tedesco che se è povero è colpa di uno più povero di lui che va lì, e non di un sistema che permette al dieci per cento di tedeschi di possedere il 59 per cento della ricchezza: la Germania è leader europea anche nella diseguaglianza sociale. A fronte del fatto che non si riesce a redistribuire decentemente la ricchezza, si indicano come nemici quelli che di ricchezza non ne hanno. E del resto negli ultimi dieci anni in Europa i lavoratori poveri (occupati ma sotto la soglia di povertà) sono aumentati ovunque. Le forze politiche tradizionali (centro, centrosinistra, larghe intese, Grosse Coalitionen) da Parigi a Berlino, da Roma a Madrid, hanno tutte più o meno agevolato questa ottimizzazione liberista a scapito dei loro cittadini. E non a vantaggio dei poveri migranti, ma della rendita, dei grandi capitali, delle grandi aziende, della finanza. Insomma, “Prima i tedeschi” andrebbe detto a quei pochi tedeschi che sono diventati molto ricchi a scapito di moltissimi tedeschi che sono diventati più poveri. E lo stesso vale per chi dice “prima gli italiani”, ovviamente. Tutto questo sembra un poker col morto. C’è chi vince (il capitale), c’è chi perde (il lavoro) e c’è il morto, che sarebbe la sinistra, ormai inadatta al suo ruolo storico: o lo recupera mettendosi sul serio dalla parte del lavoro, o diventa, come pare oggi, solo un grande equivoco semantico. Dire “sono di sinistra” e fare politiche di destra che aumentano le diseguaglianze – qui siamo maestri – apre le porte al peggio. Poi, come in Francia, bisogna scegliere il meno peggio: le politiche sociali ed economiche delle Merkel, dei Renzi, dei Macron creano fascismo, e ci diranno che bisogna votare le Merkel, i Renzi e i Macron sennò arriva il fascismo.

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