"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 31 ottobre 2017

Quodlibet. 26 “La fine della società”.



Da “La fine della società”, intervista di Fabio Gambaro al sociologo francese Alain Touraine pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 31 di ottobre dell’anno 2013: (…). "Una società è sempre determinata da un insieme di pratiche ma anche da un sistema di costruzione della realtà", (…). "In passato, le società si sono pensate e costruite in modo religioso, poi, a partire dal Rinascimento, si sono costruite attraverso il pensiero politico. In seguito, negli ultimi due o tre secoli, la società industriale si è pensata in termini socio-economici, tanto che alla fine società e economia hanno finito per identificarsi".
Negli ultimi decenni cosa è cambiato? "A partire dagli anni Sessanta abbiamo assistito al progressivo declino del capitalismo industriale, dato che una parte sempre più importante dei capitali disponibili hanno smesso di avere una funzione economica. Ha prevalso il capitalismo finanziario e speculativo, che sottrae capitali agli investimenti produttivi. Questa trasformazione del capitalismo ha progressivamente svuotato di senso tutte le categorie politico-sociali con cui eravamo abituati a pensare la società contemporanea. Siamo entrati così in un'epoca post-sociale".
Cosa significa? "La società si forma nel momento in cui le risorse economiche acquistano una forma sociale attraverso le istituzioni. Quando una parte delle risorse non entra più in circolo nella società, le costruzioni sociali si svuotano di contenuto. Oggi tutte le categorie e le istituzioni sociali che ci aiutavano a pensare e costruire la società  -  Stato, nazione, democrazia, classe, famiglia  -  sono diventate inutilizzabili. Erano figlie del capitalismo industriale. All'epoca del capitalismo finanziario non corrispondono più a niente. Non ci aiutano più a pensare le pratiche sociali contemporanee e a governare il mondo in cui viviamo. In questo modo, il sociale viene meno".
Da qui l'idea della fine delle società? "Il trionfo della finanza speculativa disarma la politica e l'economia, disarticolando le società così come le abbiamo conosciute e pensate finora. Di fronte a questa situazione, alcuni pensano che la società contemporanea sia capace di trasformarsi da sola. Immaginano una società tecnico-operativa, figlia di un capitalismo tecnologico selvaggio, che non ha più bisogno di sistemi concettuali e di categorie sociali. Ma quando si fa a meno dei sistemi di costruzione della realtà, si lascia spazio alla regressione attraverso le pseudo- religioni e le pseudo-politiche, il comunitarismo e l'ossessione dell'identità, l'edonismo individualista sfrenato che alimenta la psicosi e la violenza su se stessi e sugli altri".
(…). Sul piano individuale contano la coscienza e la responsabilità... "Naturalmente. E quando si parla di soggetto si parla di diritti. La fine delle vecchie categorie ha lasciato il vuoto. Siamo come in un teatro dove il pubblico osserva una scena senza attori. Occorre che ogni singolo spettatore si faccia carico della scena, rivolgendosi a se stesso e egli altri spettatori. E al centro della sua riflessione devono esserci i diritti fondamentali, perché i diritti costituiscono il sociale. Rispetto Stéphane Hessel, ma l'indignazione non basta. Oggi occorre ripartire dai diritti e dalla loro difesa, come già avviene in molte parti del mondo. E come fa anche il nuovo Papa, che sembra adottare volentieri il vocabolario dell'etica. Hannah Arendt ha sottolineato il diritto di avere dei diritti. Io aggiungo che i diritti stanno al di sopra delle leggi".

lunedì 30 ottobre 2017

Lalinguabatte. 41 “Eros, politica e mente”.



Scriveva Carlo Rognoni su quel che è stato il glorioso quotidiano del Gramsci Antonio – “l’Unità” miseramente scomparso - in “Berlusconi e la questione psichiatrica”: (…). …il dubbio che segni di psicopatia abbiano davvero fatto il loro ingresso nella politica italiana viene a chiunque legga le cronache recenti. Voglio documentarmi e mi metto a leggere alcuni testi di psichiatria e scopro che lo psicopatico ama il potere, usa le persone per ottenere più potere. Lo psicopatico – scrive il dottor Maritàn, che pare essere un’autorità nella sua specializzazione – non è considerato un malato mentale, è un essere umano che si caratterizza per avere “necessità speciali” e “un desiderio smisurato di potere”. Gli psicopatici funzionano con codici propri, diversi da quelli che guidano le società e sono dotati per essere condottieri, per il loro alto grado di insensibilità e tolleranza da situazioni di estrema tensione. “Una caratteristica basica dello psicopatico – si legge ancora nei testi – è che è un bugiardo. Però non un bugiardo qualsiasi. È un artista. Mente con la parola e con il corpo”. (…). Mi sfianca compulsare i “sacri” testi scientifici. Soprattutto quei tomi grossi così che solo all’apparire inducono uno sfiancamento sia fisico che psichico. Soprattutto quei tomi che indagano sulle tortuosità della mente umana. Che sia sintomo latente ed inesplorato di un mio disagio psichico? In fondo non escluderei di possederne qualcuno. Intendo dire, di disagio psichico. Forse averne coscienza mi aiuterebbe a superare il disagio stesso. A liberarmene. Ma lascio perdere e non  compulso. Mi ripeto: -  tanto, anche con disagio psichico latente, non arreco danno a nessuno -. E di conseguenza mi consolo. È vero che, come tutti gli esseri che si definiscano umani, anch’io ho le mie “coazioni a ripetere”. Da sempre. Per esempio, lavarmi al mattino i denti spremendo sempre, e dico sempre, il tubetto del dentifricio dalla estremità inferiore affinché la pasta rimanga all’interno compressa verso l’alto e ben compatta. Alla fine della spremitura del tubetto del dentifricio, della preziosa pasta se ne sarà perduta una ben poca quantità. È questa mia “fissa”, per caso, una “coazione a ripetere”? A proposito, ma cos’è una “coazione a ripetere”? Urge spiegazione. Mi atterrisce però l’idea di dover compulsare i “sacri” testi scientifici. L’ho di già scritto. Compulso, comunque. E leggo: - La coazione a ripetere, ovvero coercizione a compiere ripetutamente le stesse azioni, è il principio per cui una persona cerca di superare qualcosa di irrisolto che affonda le radici nel remoto passato, rimettendosi nelle identiche circostanze che provocarono quell’antica difficoltà. Spesso la coazione a ripetere è  collegata ad un altro problema, ad esempio l’ansia abbandonica, ma sono in genere facce diverse della medesima medaglia -. “L’ansia abbandonica”? “Facce diverse della medesima medaglia”? Ma cosa e come scrivono mai? Mi atterrisce il linguaggio scientifico. In fin dei conti, riflettendoci sopra, penso di non essere preda di “coazioni a ripetere” più gravi, tipo dire disinvoltamente bugie, o dare colpevolmente una falsa rappresentazione della realtà. O essere frequentemente e ripetutamente un violento verso alcuni degli esseri umani che abitano questo pianeta, giornalisti, avversari politici e magistrati per esempio, facendo finta di essere un mite. O con la “coazioni a ripetere” di sorridere sempre, come presi da una terribile contrattura orbicolare – orbicolare, ovvero “un esteso muscolo ellittico che va dal margine inferiore delle narici alla rima labiale superiore, dal solco mento-labiale alla rima labiale inferiore e lateralmente si ferma a livello della commessura labiale” - , con le due arcate dentarie ben in vista. Forse la mia pasta dentifricia non mi consentirebbe una tale pubblica esposizione. Consolatorio. E poi, non mi pare di aspirare al potere. L’unica “scranna” – sapevo al maschile ma spiega il dotto dizionario Hoepli “ - sedia dottorale con spalliera e braccioli molto alti fig., lett. sedere a scranna, farsi giudice, sentenziare “ - che occupo stabilmente e con grande soddisfazione è la poltrona di casa mia. O le poltrone invariabilmente. Quando con cuffia e pantofole mi dispongo ad una onesta serotina evasione. Onesta serotina evasione. Un buon film per esempio! Senza Tv.

domenica 29 ottobre 2017

Quodlibet. 25 “Il S.O.P. ed il cadavere delle democrazie”.


Da “La vittoria dei pluricratici” intervista di Stefano Benni a Cornelius Noon - professore alla Trans Allegheny University di Weston in West Virginia -, pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 29 di ottobre dell’anno 2016: Il primo capitolo del suo controverso libro (“Pluricracy”, stampato dalla Hydra Press n.d.r.) si chiama: “Il cadavere delle democrazie”. Un po’ forte, non crede? «Niente affatto. Le democrazie non esistono più, anche se il pensiero politico si rifiuta di ammetterlo. Per anni, nell’ambitus della differenza tra democrazia e dittatura, è nata e ha prosperato l’illusione di una forma politica “migliore” o “meno peggio” delle altre. L’illusione è caduta, ma la parola democrazia viene ancora abbondantemente usata anche se questa forma di governo, nel senso di “governo del popolo” o di “volontà dei più” non ha più nessun riscontro nella realtà. La pluricrazia è la forma di governo, anzi la forma di occupazione del pianeta che l’ha sostituita. Gli alieni sono scesi sulla terra e siamo noi».
Come dobbiamo intendere il suo termine “pluricrazia”? «Sarebbe più corretto dire system of pluricracies o SOP, secondo l’orrenda sigla coniata dai miei divulgatori. Una forma di potere globale non eletta e non elettiva, con fini e mezzi diversi dalla democrazia. Potremmo dire che è parassitaria della democrazia, anche se per i greci il termine “parassita” aveva un significato diverso da quello moderno. Le democrazie rimandavano a una forma di Stato che accoglieva le richieste e i bisogni dei cittadini, prometteva di proteggerli e pur con mille imperfezioni, dava alle diverse morali, e alle contrapposte esigenze, una risposta unica, o ritenuta unica. Ora tutti possono vedere che in ogni parte del mondo sono nate forme di potere-occupazione, strutturate come veri apparati statali, con parlamenti, gerarchie, forze militari, costituzioni interne. Non si ispirano a nessuna idea di democrazia e fanno a meno di lei senza sforzo».
Potrebbe farci qualche esempio? «La tecnocrazia, la plutocrazia finanziaria più o meno mafiosa, la teocrazia, persino la farmacocrazia e le ludocrazie-onagrocrazie culturali. Agiscono tutte con progetti, scopi e morali proprie. Preferiscono a volte operare in una finzione di democrazia, o allinearsi a una dittatura, ma la loro ideologia è quanto di più lontano ci possa essere dal rispetto del volere popolare. Il consumatore, il cliente, il connesso, il degente, lo spettatore, il fanatico sono i loro sudditi, non il cittadino. Li chiamano talvolta poteri forti ma sono piuttosto poteri folli, che disprezzano la vecchia ratio del bene comune. Anche se talvolta scelgono un volto per apparire, preferiscono essere invisibili. Ascoltano solo voci selezionate da loro: la banca dati, l’audience, il sondaggio, il call center hanno sostituito la piazza. Recentemente ho sentito il termine social-democrazia, col trattino, per celebrare il web. Invenzione dolce e consolatoria. Il web è un’oligarchia, anzi ha creato gli ultimi monarchi. Steve Jobs è l’ultimo dei semi-dei prometeici».
Uno dei suoi concetti più dibattuti è quello di Stato-schermo. Quindi lo Stato esiste ancora? «Anche un anarchico non può fare a meno di una bandiera, diceva De Selby. Lo Stato è uno schermo sul quale le pluricrazie proiettano la loro immagine in modo rassicurante. Ma lo Stato non ha più nessun contenuto, è fatto di trame scritte altrove, di recite dove ruotano i cast di maggioranza e opposizione, di attori brillanti o tragici. (…). Ogni vera decisione è presa dal SOP, che la trasferisce allo Stato-schermo perché la trasmetta ai cittadini. Le pluricrazie sanno bene che cose come il voto, la legge, l’esercito, i confini, la bandiera e la Nazionale di calcio sono rassicuranti. Essere in balia dell’informe spaventerebbe. Si accetta che la squadra del cuore venga comprata da un miliardario russo o da uno sceicco, ma guai a cambiare i colori della maglia. Bisogna avere uno schermo su cui proiettare lamenti e rabbia, nell’illusione di essere considerati. L’ultima forma della democrazia è la frenocrazia, la possibilità per ognuno di lagnarsi e dare la colpa a qualcuno della propria infelicità. Ma è un Paraclausithyron, un lamento a una porta chiusa».
Lei è totalmente pessimista. Ma è possibile il progresso o la pace con le pluricrazie? «Il progresso di tutti non esiste più, esiste soltanto il progressivo rafforzamento delle pluricrazie. In quanto alla pace la guerra moderna non è più tra Stati, basta vedere la frammentazione del conflitto mediorientale per rendersene conto. È un continuo scontro tra avidità contrapposte, ammantato di motivazioni religiose, storiche o etniche, più complesso e imprevedibile delle guerre del passato. Uno Stato potrebbe volere la pace, ma lo spingeranno in guerra i suoi petrolieri o i produttori di armi, i suoi servizi segreti deviati o un gruppo religioso bramoso di anime e di territorio, un impero mafioso, o un’azienda che ha bisogno di materie prime e nuovi mercati. È più facile immaginare una guerra nucleare tra Google e Microsoft, o tra AT&T e Verizon, o tra Hollywood e Bollywood, che tra Usa e Russia».
E le dittature? Neanche le dittature esistono più. Sono film un po’ più pulp, schermi in cui ha grande importanza il primattore, una figura unica di leader, con l’aggiunta degli effetti speciali di un poderoso apparato militare e un controllo dei media più spietato. Ma nessun dittatore può permettersi di andare contro il SOP, nessun tiranno ha più l’esclusiva della tortura, o della censura. Per restare sul suo trono deve piegarsi a una o più pluricrazie, spesso è soltanto un componente del loro consiglio di amministrazione.».
Quindi lei non ha soluzioni? «No, e se le avessi me le avrebbero già prese con la forza. Le pluricrazie hanno vinto. Non so se troveranno una forma di convivenza o distruggeranno il pianeta nella battaglia per la supremazia. Quello che è certo è che non lasceranno più spazio a nessuna forma democratica che non sia secondaria e sottomessa. Il parassita ha divorato l’ospite. Solo la nascita di una nuova coscienza della libertà, una totale disconnessione della nostra vita dal sistema pluricratico potrebbe salvarci, ma io non spero più. Singoli gruppi possono inserirsi negli spazi vuoti dell’invasione del SOP, ma questi spazi sono sempre più stretti e stritolanti»

sabato 28 ottobre 2017

Terzapagina. 01 “Cristianità e fascismo”.



28 di ottobre dell’anno 1922: una sventurata e tragicissima (per l’Italia, poi) “grande sfacchinata” a Roma. Il cavaliere d’Italia Mussolini Benito al re (pag. 127): “Maestà vi porto l’Italia di Vittorio Veneto” ed era tutto finito prima ancora che il primo fascista entrasse in Roma. Stavano tutti fuori, ancora. Avevano vinto. Ma prima di rimandare tutti a casa era pure giusto che li si facesse almeno arrivare a Roma, a fare una sfilata e potersi credere che era merito loro e l’avevano conquistata con le armi, non con le manovre di corridoio; se no che erano venuti a fare? E quando il 31 ottobre sono entrati a fare la sfilata e la colonna che veniva dagli Abruzzi agli ordini di Bottai, nel passare per le strade di San Lorenzo s’è messa a sparare per aria, allora gli operai e i ferrovieri di san Lorenzo gli hanno risparato addosso dalle finestre e ci sono stati morti e feriti. Ma solo là. Per tutto il resto niente. È stata solo una grande sfacchinata. Il cavaliere d’Italia Mussolini Benito al re (pag. 129): “Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto” e la marcia su Roma era bella e finita. Mio zio Adelchi ha tirato una palla di schioppo a una folaga che si trovava a passare mentre erano attendati a Settebagni vicino Roma – in mezzo alla campagna – il pomeriggio del 29 che era appena spiovuto. E se la sono fatta allo spiedo insieme a un paio di polli che mio zio Turati aveva rimediato non si sa dove. Non si è mai capito se li avesse comprati o rubati in un pollaio lì vicino. Però i soldi dai fratelli se li è fatti dare: “Io li ho pagati”. (…). Il giorno appresso hanno sfilato in quarantamila, preso il potere armati di soli schioppi – “Varda (guarda n.d.r.) là, xè il Colosseo; varda là San Piero” – e poi ripreso il treno e via per l’Altitalia. Brani tratti da “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi (2010, edizioni Mondadori).

Da ”I cristiani devono condannare il fascismo anche dal pulpito” di Maurizio Viroli - professore emerito di Teoria politica all’Università di Princeton e all’Università della Svizzera Italiana a Lugano -, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 4 di settembre 2017: (…). è certo, (…) che un fascista non può essere cristiano, se essere cristiano vuol dire vivere l’ insegnamento di Cristo. Il cristianesimo afferma che esiste un solo Dio, ama la libertà politica e morale, predica la carità, la pace, la fratellanza degli esseri umani, l’ uguale dignità di tutti; il fascismo eleva lo stato totalitario a divinità da adorare, detesta la libertà politica e morale e la vuole piegata all’ esigenza superiore della disciplina imposta con la forza, disprezza la carità (leggete cosa scriveva Giovanni Gentile), ama la guerra come esperienza mistica nella quale eccelle la forza degli individui e dei popoli, disprezza i deboli, farnetica di razze superiori (destinate a comandare) e razze inferiori (destinate a obbedire). Se il fascismo è anticristiano, segue che dovere dei cristiani è combattere il fascismo con tutte le loro forze come fecero le migliore coscienze cristiane negli anni del regime. (…). Cristo ha cacciato i mercanti dal tempio a frustate. Mi pare fuor di dubbio che i mercanti siano meno detestabili dei fascisti. (…). Imparate, amici cristiani, dalla storia. Il 23 agosto del 1923 i fascisti assassinarono don Giovanni Minzoni, parroco di Argenta. Il suo Cristo stava dalla parte degli uomini che chiedevano giustizia. Nessuno, tanto meno i fascisti, poteva dargli lezioni di patriottismo. Servì nella Prima Guerra Mondiale come cappellano militare, e nonostante la terribile prova continuò a intendere la parola di Cristo come un insegnamento di libertà e di democrazia. A guerra finita, intervenne alle onoranze ai caduti con la sua medaglia d’argento al valore sul petto, non per alimentare lo spirito di vendetta, ma per rendere santo il loro sacrificio. Proprio perché era vero cristiano e vero patriota, Don Minzoni era antifascista. Era la sua coscienza cristiana ad imporgli di stare dalla parte della libertà, senza incertezze. Per queste sue idee i fascisti lo massacrarono. Papa Pio XI , se avesse avuto un briciolo di coscienza cristiana, avrebbe dovuto presenziare al funerale di don Minzoni e lanciare la scomunica sugli assassini e sui mandanti. Invece, non si fece vivo neppure l’arcivescovo di Ravenna, monsignor Antonio Lega. Mandò a rappresentarlo un suo segretario. So bene che non siamo nel 1922, e che non esiste un pericolo imminente di eversione fascista. So anche che il nuovo fascismo potrebbe rapidamente rafforzarsi sfruttando la diffusa sfiducia nel parlamento e nella classe politica, l’odio verso i migranti, il razzismo, il desiderio di avere un capo che comandi senza limiti, la frustrazione di tanti giovani per la propria condizione sociale, la convinzione che i grandi valori politici siano ormai una zavorra del passato, la quasi totale perdita di memoria storica. In Italia non si può scherzare con i fascisti e considerarli dei poveri imbecilli. Dall’intimidazione alla violenza il passo è breve.

venerdì 27 ottobre 2017

Paginatre. 100 “Lo scambio finanza-consumo non funziona più”.




Da “Rotto l’equilibrio sociale la finanza non basta più fermiamo la corsa ai profitti” intervista di Eugenio Occorsio a Mauro Magatti, professore presso l’Università Cattolica di Milano, pubblicata sul settimanale “A&F” del 23 di ottobre 2017: «I lavoratori, specialmente quelli dipendenti, sono spiazzati e impotenti di fronte alla perdita di potere d’acquisto: è come se con la crisi del 2008, le cui conseguenze sono tuttora vivissime non solo in Italia, si sia spezzato un equilibrio sociale, una specie di patto neoliberista fra finanza ed economia reale. La crisi ha interrotto e modificato le condizioni che reggevano lo scambio fra gli interessi economici e gli interessi sociali ». (…). «La sfiducia che serpeggia non è un’emozione superficiale ma una realistica valutazione dello stato delle cose. Il problema è che la società, gli individui, ovvero i malati, non conoscono né le cause né i rimedi della loro malattia».
Professore, è inevitabile concludere: serve una classe politica all’altezza della sfida, che comprenda nel profondo le cause di quella che lei chiama “la malattia” e aiuti i suoi concittadini a superarla. «Sì, ma attenzione che la risposta non è il populismo né gli eccessi di nazionalismo o la Brexit. Sfasciare tutto non è mai un rimedio. Occorre viceversa una rinnovata attenzione nelle scelte, negli impegni e negli investimenti pubblici. Penso ancora una volta alla scuola e alla formazione, con la necessità di renderla finalmente efficace e finalizzata alla realtà del lavoro, insomma al servizio della crescita individuale. Purché però anche i docenti siano disposti a fare il salto di qualità, ad aggiornarsi, ad appassionarsi alle nuove sfide».
Torniamo ai salari. Ci diceva (…) che è saltato l’equilibrio fra finanza ed economia reale: come recuperalo? «C’è un doppio problema. La finanza è come la linfa vitale che scorre nelle vene della società, ed ora è come se i gangli principali si siano ingolfati e a volte proprio scoppiati. Con la conseguenza di provocare un infarto sociale: per curarlo non bastano i farmaci anticoagulanti somministrati, per esempio, dalle banche centrali. Il secondo problema, connesso al primo, è la perdita di peso del monte salari rispetto al Pil di una nazione. Qui non c’entra la crisi. Va avanti così almeno dagli anni ‘90. E questo è davvero un problema di tutti i Paesi industrializzati: mediamente c’è stato un calo di quasi dieci punti percentuali. Vuol dire che per ogni 100 dollari, o euro, di valore aggiunto complessivo, la quota di ricchezza distribuita al lavoro è passata dal 63-64% al 55-56% negli ultimi vent’anni».
A chi è andata la quota persa? «Alle rendite finanziarie e immobiliari. Si può trovare un equilibrio fra finanza e consumo, prendendo i soldi in prestito e con essi finanziando l’acquisto di una casa o di un bene durevole, ma è un equilibrio precario. Che nel caso dei mutui subprime, concessi a chi non aveva realisticamente la possibilità di rifonderli un giorno, è saltato. Con le conseguenze a catena che conosciamo. Il gioco, lo scambio finanza-consumo, non funziona più. È finito un ciclo del capitalismo, siamo alla ricerca degli equilibri per un nuovo ciclo, qualcosa che ricordi ad esempio qui in Italia lo spirito del dopoguerra».
Come riavviare la macchina con questo Piano Marshall sociale? «Intanto cominciando a dire che l’economia non è una macchina ma una costruzione complessa: per farla funzionare non basta mettere a posto i componenti ma occorre una visione storica, politica, tecnologica, culturale. Siamo nella nascente società digitale, che avrà un impatto forte non solo in termini di produttività attraverso il controllo di ogni segmento della produzione e delle attività, ma anche per le possibilità di collaborazione che apre. Siamo di fronte a un nuovo scambio che definirei di “efficienza per sicurezza” basato sull’idea di trasformare l’intera società in una grande fabbrica basata sulla trasparenza e il rigore del digitale. Ma poi serve un’alleanza fra gli interessi economici disposti ad assumere il criterio della sostenibilità per condurre le loro attività e gli interessi sociali disposti a cambiare pelle da “consumatori” a “contributori”».
La sostenibilità è quella ambientale? «Beh, anche, va consentito per esempio all’industria delle costruzioni, l’altra grande fabbrica del Paese, di ripartire sulla base del restauro, delle razionalizzazione, del miglioramento del patrimonio esistente. Ma poi si tratta di instaurare un nuovo patto fra economia e società in grado di avviare una nuova stagione capitalistica migliore di quella che abbiamo alle nostre spalle. Una stagione nella quale si torna ad ammettere che non c’è crescita economica senza sviluppo sociale. Stabilendo una nuova relazione che scambi profitti meno elevati ma stabili nel tempo per una partecipazione più diffusa e riconosciuta sul piano economico, politico e sociale. Una possibilità reale che abbiamo davanti, a condizione che la politica capisca che la domanda latente oggi non è più lo slegamento individualistico ma la costruzione di un nuovo legame sociale».