"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 11 luglio 2017

Quodlibet. 8 “Il senso dei greci per il dolore”.



Da “Il senso dei greci per il dolore” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” dell’11 di luglio dell’anno 2015: È il coraggio - l'unico che la saggezza può dare - di guardare in faccia la condizione tragica dell'uomo. Senza darsi colpa dei pensieri che in questi estremi ci assalgono. Il dolore non è mai un evento solitario che riguarda solo chi è afflitto dal male. Il dolore investe anche chi è accanto a chi soffre e vede la sua vita rattrappirsi e raccogliersi in quegli sguardi che impietosamente non mentono su un futuro che non c'è più e nel ricordo di un passato felice che non ritorna. Resta solo un assoluto presente che reitera di giorno in giorno le pratiche di cura, neppure accompagnate, (…), da uno spiraglio di speranza. La coscienza è combattuta tra il desiderio che l'evento si compia per ricominciare a vivere e il senso di colpa per aver osato concepire un simile pensiero. Gli altri non capiscono e diradano la loro frequentazione, perché sanno di non avere parole che sappiano sinceramente consolare. La solitudine si fa abissale. E non c'è fede che tenga, talvolta neppure la forza di sostenere la cura quotidiana. (…). Il bisogno di vita, per ora compresso in una successione di giorni senza tempo e senza meta, non è solo un sogno, una prospettiva per ora conculcata, ma anche ciò che la sostiene e le consente di reggere l'esperienza della tragicità dell'esistenza. Questa fa la sua comparsa dove i sogni, i progetti, le aspirazioni del nostro io si scontrano con la crudeltà innocente della natura che, inaspettatamente, ci fa conoscere che sono nelle sue mani e non nelle nostre le sorti della nostra esistenza. I Greci (…) queste cose le sapevano perché non si affidavano a cieche speranze, e per questo Nietzsche parla di loro come del popolo più grande mai apparso sulla terra, perché, a differenza degli altri popoli: «hanno avuto il coraggio di guardare in faccia il dolore». I Greci erano tragici, non perché pessimisti, ma perché avevano colto l'aspetto tragico dell'esistenza umana che, a differenza di quella animale, per vivere ha bisogno di costruire un senso, in vista della morte che di ogni senso è l'implosione. Per questo, a Re Mida che chiedeva quale fosse la cosa migliore e più desiderabile nella vita, il saggio Sileno risponde: «Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sapere? Il meglio per te è assolutamente irraggiungibile. Non esser nato, non essere, essere niente. Ma la seconda cosa migliore per te è morire presto». Per questo, scrive ancora Nietzsche, la tragedia non è un genere letterario, ma la perfetta descrizione della condizione umana, la cui consapevolezza si estinse con la fine della grecità. E Karl Jaspers, di rincalzo: «Neppure Shakespeare è un tragico, perché ormai vive nell'era della speranza cristiana». (…).

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