"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 30 luglio 2017

Lalinguabatte. 35 “Quel comunistaccio di Keynes”.



Osservo di sottecchi il quadretto familiare. Giovani i due. Eterosessuali, tal che la coppia è di quelle che stanno nella norma. Benedetta, quindi, dall’alto dei cieli. Osservo il bimbetto che li accompagna. Ad un certo punto lei esclama, e capisco che si riferisca al bimbetto: - Da grande sarà un comunista -. Interroga lui: - Perché? – Risponde lei: – Guarda un po’ come si vuole vestire! – Trasecolo. Non mi pareva che il bimbetto avesse nulla di strano nel suo abbigliamento. È che nell’immaginario collettivo “i comunisti” sono quelli che bivaccano in quel di San Pietro. E che divorano i rubicondi bimbi del bel paese. Con quell’indecoroso “chiacchiericcio” si vinsero le elezioni politiche del ‘48. E fu per l’appunto un altro ‘48. Anche quello di Arcore ha accusato i cinesi di essersi nutriti di bimbetti di quel paese. Lo ha detto prima di intraprendere affari con l’impero che fu celeste. Ma sui comunisti sono fiorite le più straordinarie leggende metropolitane. Torno affettuosamente al mio “Cosmonauta” di Susanna Nicchiarelli. Luciana, la protagonista nel film ancora non adolescente, abbandona la chiesa nella quale sta per compiersi il rito della prima comunione. È tutta vestita di bianco. Come si conviene. Di corsa fa ritorno a casa per rinserrarsi nell’angusto bagno domestico. La madre, disperata, la supplica di uscirne, per fare ritorno nel consacrato luogo convenuto. Alla ostinazione ed al contrapposto rifiuto della bimbetta le pone la solenne domanda: - Luciana, ma perché? – E Luciana le risponde: - Perché sono comunista! – Una sequenza straordinaria. Di raro effetto. Un tempo si è stati “comunisti” in tanti, tantissimi. Una condizione additata come di grande “peccato”. Da quel “peccato” ne sono stati – ne siamo stati - toccati in molti. In milioni di esseri umani. Prima che il mostro della globalizzazione fagocitasse ogni cosa, idee ed ideologie, ad Oriente come ad Occidente. Ché sono morte definitivamente quest’ultime, le grandi ideologie. O così sembra oggigiorno. Anche John Maynard Keynes, grande economista, fu toccato da quel “peccato”? Ne ha scritto  Vladimiro Giacchè con una recensione al volume di quel grande che ha per titolo "Laissez-faire e comunismo", edito per l’editore DeriveApprodi ed in edizione integrale curata da Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro. Bisognerà tornare a rileggerlo. Oggi che non si ha idea di cosa stia avvenendo nel mondo dell’economia e della finanza. Se non di un impoverimento globale e collettivo. La recensione di Vladimiro Giacchè è stata pubblicata su “il Fatto Quotidiano” con il titolo “Più stato e meno mercato” il 25 di maggio dell’anno 2010. Di seguito la trascrivo in parte:
(…). … la gigantesca socializzazione delle perdite che è stata realizzata per evitare il collasso del sistema finanziario internazionale sta originando un fenomeno paradossale: la statalizzazione delle colpe. Con gli stati a fare da capro espiatorio della crisi, e tutti noi a rischio di perdere i residui benefici di un welfare che è tornato ad essere inefficiente, inutile, immorale, ecc. a fronte della superiore efficienza dei mercati. Un buon antidoto a questo ritorno di fiamma del liberismo è rappresentato dalla prima traduzione italiana integrale di un libro di John Maynard Keynes, Laissez faire e comunismo, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1926 (…) Il primo dei due capitoli che compongono il volume, La fine del laissez faire, è dedicato ad un’analisi della genesi storica e delle diverse fonti dell’ideologia liberistica, avversa a ogni interventismo statale e convinta che ‘l’intrapresa privata liberata da ogni impedimento avrebbe promosso il massimo benessere per tutti’. Keynes pone in luce come questa convinzione-cardine del liberismo, secondo cui ‘il comportamento di individui indipendenti, mossi dalla ricerca del vantaggio personale, produrrà la massima ricchezza aggregata’, dipenda ‘da una congerie di assunzioni irrealistiche’ e trascuri tutta una serie di fatti che la smentiscono. I principi metafisici che dovrebbero fondarla vengono puntigliosamente contestati da Keynes: ‘il mondo non è retto dall’alto in modo che interesse privato e interesse pubblico siano sempre coincidenti, né è condotto quaggiù in modo che in pratica essi coincidano. Non si può dedurre dai principi dell’economia che l’egoismo illuminato operi sempre a beneficio dell’interesse pubblico, né è vero che generalmente l’egoismo sia illuminato: più spesso accade che individui che agiscono separatamente l’uno dall’altro, in vista del perseguimento dei propri obiettivi, siano troppo ignoranti o troppo deboli perfino per conseguire questi. L’esperienza non mostra che, quando costituiscono una entità sociale, gli individui sono sempre di vista meno acuta rispetto a quando agiscono separatamente l’uno dall’altro’. Confutati i presupposti teorici del liberismo, Keynes riafferma il ruolo economico insostituibile dello stato e di enti intermedi ‘il cui criterio operativo sia soltanto il bene pubblico’, anziché il ‘vantaggio privato’. Non solo: egli ritiene essenziale, al fine di risolvere le crisi economiche, il ‘controllo deliberato della moneta e del credito da parte di un’istituzione centrale’, ed anche un controllo dei flussi di capitale e della destinazione del risparmio agli investimenti, non più lasciati ‘alle scelte fortuite del giudizio privato e del profitto privato’. Tutto questo non fa di Keynes un ‘comunista’, come dimostrano le considerazioni generalmente poco benevole dedicate all’Urss nel secondo capitolo del libro, nato da una visita compiuta nel settembre 1925 nella Russia sovietica. Keynes resta insomma sempre fedele al suo ideale, che è quello di un ‘capitalismo saggiamente governato’. (…).

Nessun commento:

Posta un commento