"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 1 maggio 2017

Lalinguabatte. 33 “Il 1° di Maggio e l’Internazionale”.



Ho rivisto, e di proposito, nell’imminenza forse di questo 1° di Maggio, quell’opera cinematografica bellissima ed indimenticabile che è “Terra e libertà”, del grande regista inglese Ken Loach. E mi sovveniva, seguendone le stupende, toccanti immagini, di quella volta che, gironzolando per gli antichi ed oggi deserti “vicoli” della mia città, in un silenzio surreale ed innaturale per quei luoghi un tempo brulicanti di vita e pieni di voci, sentii arrivare al mio orecchio, da un semplice organetto, il celeberrimo motivo dell’Internazionale,  che sembrava giungesse come da lontano, da un remoto passato, da uno scenario tipico della Parigi rivoluzionaria, del tempo della “Commune”, essendo stata scritta l’Internazionale, per l’appunto, a Parigi nel mese di giugno dell’anno 1871 da un rivoluzionario a nome Eugene Pottier (1816-1887). Suonava quella malinconica Internazionale, con il suo semplice organetto, una persona che oggi potremmo definire come “venuta dall’est”; ma grande era la passionalità contenuta in quelle semplici note, tanto che non osai tirare dritto sin quando il suono non si spense completamente. E negli occhi di quell’uomo era stato facile cogliere il trasporto col quale riusciva a produrre quelle melodiose vibrazioni sonore, che di sicuro avranno alimentato i suoi sogni e le sue speranze in un mondo nuovo. Speranze perdute. Ed il motivo dell’Internazionale risuona ben due volte nell’opera straordinaria di Ken Loach, a suggellare il mistero della vita e della morte, della passione e della ragione; due occasioni nelle quali la morte viene a suggello di due vite spese in nome di ideali più alti e più grandi. È, “Terra e libertà”, lo scenario tremendo della guerra civile spagnola degli anni trenta del secolo ventesimo. È un film, “Terra e libertà”, che punta  tutto sulla memoria, dei singoli – con le lettere ritrovate dalla nipote del protagonista, David, che muore vecchio nella sua terra che è l’Inghilterra - e della collettività, che cerca nella memoria il suo momento di appassionata, vera critica storica – con la contrapposizione drammatica tra le formazioni della “milizia” operanti nella Spagna del tempo in soccorso del legittimo governo repubblicano aggredito dalle armate franchiste e le formazioni armate comuniste - e di riflessione. Poiché è dai ricordi vergati nelle sue lettere che David rende testimonianza amarissima dello scontro fratricida tra i militanti giunti da ogni angolo della Terra ed accorpati nelle milizie del P.O.U.M, (“Partido obrero de unificacion marxista”), ideologicamente vicini agli anarchici ed ai trotzkisti, e le formazioni comuniste armate dei repubblicani che si ispiravano all’egemonia stalinista, quella contrapposizione mortale che consentì a Franco ed al totalitarismo dilagante nella vecchia Europa di vincere contro la concezione nuova di una Repubblica libera. Una guerra crudele viene raccontata in “Terra e libertà”, poiché non è la guerra di uomini contro uomini che abbiano una diversa visione storica e politica, ma è quella combattuta da fratelli contro fratelli che vivono della stessa storia e della stessa speranza.
Ma il pregio principale di quell’opera cinematografica sta nella riflessione che essa induce nello spettatore che giunge all’amarissima conclusione che, se non si fosse sviluppata quella fratricida guerra, probabilmente quel sommovimento del popolo spagnolo sarebbe stato contagioso e si sarebbe potuto espandere nel resto d’Europa stretta di già nella morsa del fascismo e del nazismo. “Terra e libertà” è un messaggio di speranza che Ken Loach consegna alle nuove generazioni, di tutti i tempi e di tutti, quelle speranze che il giovane inglese David aveva racchiuso in un fazzoletto rosso, rinvenuto alla sua morte dalla nipote, e che conteneva una “manciata” di terra di Spagna, terra di Spagna che egli aveva raccolto al funerale della amata miliziana Blanc, uccisa dalle armi dei comunisti repubblicani, manciata di terra di Spagna che la nipote deposita amorevolmente sulla sua bara nel corso della tumulazione. “Terra e libertà” e l’Internazionale; un filo sottile e leggero le lega. Della necessità di una “nuova Internazionale” ne ha scritto, sul quotidiano “la Repubblica” del 28 di gennaio dell’anno 2011, Adriano Sofri col titolo “Internazionale del lavoro per salvare Terra e diritti”, che di seguito trascrivo in parte. È che Adriano Sofri, nella Sua riflessione, parte da altre importanti ed inoppugnabili considerazioni, da altri contesti storici e politici. Parte soprattutto dall’amara constatazione di come, nei tempi perigliosi che siamo chiamati a vivere, sia considerata “la democrazia (…) un lusso di stagione, e la democrazia sociale un lusso nel lusso”; e come la globalizzazione si stia trasformando in strumento di contenimento delle rivendicazioni sociali ed economiche delle masse popolari sfruttate e come strumento di arretramento dalle conquiste dei movimenti operai e di quei diritti universalmente riconosciuti e dati per acquisiti. Un salto all’indietro, nella globalità delle ingiustizie e dello sfruttamento “nuovo” dei prestatori d’opera. Ha scritto Adriano Sofri che la (…). Globalizzazione non è una parola bella, dunque neanche i suoi opposti, noglobal ecc. Magari trovare una parola nuova, esatta e trascinante insieme. Se fossi nato ieri, o appena approdato da un altro pianeta possibile, dopo aver preso atto dello stato della Terra e dei suoi abitatori, ed essermi fregato gli occhi, inventerei il nome: Internazionale. La chiamerei Prima Internazionale, non nella previsione che ne vengano altre (sarebbe tragicomico, no? ...), ma per separarla da quelle già venute, come una locomotiva di coda da un treno deragliato. (…). La parola Internazionalismo è scomparsa proprio quando a definire il mondo provvede la parola Globalizzazione. Paradossale è anche essere stati internazionalisti all´epoca degli Stati nazionali, e non esserlo più all´epoca della Globalizzazione. Avere magari simpatizzato per operai e contadini cinesi quando erano ingoiati dalla dittatura di partito, piuttosto che oggi, quando cominciano a battersi a loro modo per benessere e diritti. (…). Così stanno le cose. Noi non abbiamo convertito la nostra vita quotidiana di automobili private da 250 all´ora andanti nel traffico urbano a 10 all´ora, così da avere qualche titolo per ammonire il resto del mondo che, se avesse fatto come noi, sarebbe stato fottuto. E ora ci disperiamo perché a Pechino riducono drasticamente le immatricolazioni di nuove auto, che noi vogliamo vendergli. Inquiniamo a tutta forza, e compriamo l´aria dei paesi (provvisoriamente) affamati. Hanno scritto su un muro di Torino: Non siamo noi che dobbiamo diventare come i cinesi, sono i cinesi che devono diventare come noi. Programma buono benché egocentrico, ma arduo. Noi ogni tanto siamo presi da eccessi di zelo, come quando volevamo esportare la democrazia manu militari. (…). …è la democrazia a passare per un lusso di stagione, e la democrazia sociale un lusso nel lusso: si tira la cinghia, e a restarci strozzati sono due secoli di lotte, e i diritti declassati a concessioni dei tempi grassi. È impossibile che i cinesi diventino come noi, e non sarebbe giusto: possiamo fare di meglio, noi e i cinesi. La questione del giorno, che i timonieri tramutano in una morsa senza scampo – perciò parlano per ultimatum – riguarda una molteplice divergenza di tempi. L´espansione della Cina (e degli altri emergenti) è incomparabilmente più veloce della nostra, ammesso che noi non andiamo indietro. Ma è anche enormemente più veloce del progresso, che pure c´è, delle conquiste dei lavoratori cinesi. A sua volta la retrocessione di conquiste salariali e di diritti del lavoro da noi è precipitosa, fino a lasciarsi misurare simbolicamente da un giorno e un´ora, (…). Intanto lo sciopero da noi ha perso moltissimo della sua forza materiale. Fanno più male gli scioperi dei consumatori che dei produttori. È passato agli operai lo sciopero della fame, una forma estrema di sciopero alla rovescia. Si torna agli albori, quando scioperare voleva dire mettere a rischio il lavoro e anche la propria incolumità: e circondati da una riserva senza fine di manodopera e luoghi in cui traslocare. Il nuovo tempo è misto di un Ottocento da compagni di Monicelli, tetti occupati e falò per riscaldarsi, e di reti sociali. L´Internazionale non è mai stata così una buona idea. (…). È bello un mondo in cui il sole non cala mai sul lavoro e l´intelligenza, e le notti del sonno e dei sogni sono equamente distribuite. È già possibile, eppure ce ne allontaniamo ogni giorno di più. (…).

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