"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 14 maggio 2017

Capitalismoedemocrazia. 61 “Caos, unica risposta al mondo che non cambia”.



Ha scritto Curzio Maltese nella Sua consueta rubrica “Contromano” pubblicata sul settimanale “il venerdì di Repubblica” del 21 di aprile 2017 nel “pezzo” che ha per titolo “Se il Caos è l'unica risposta al mondo che non cambia”: (…). L’uomo di mezza età che incontri alla posta, che per metà della vita ha salito la scala sociale e da dieci anni scende gradino dopo gradino, sempre più velocemente. Il giovane che non vede differenza fra destra e sinistra perché non c’è stata differenza fra governi di destra e di sinistra nel breve corso della sua vita. L’insegnante che è stato declassato a operaio della scuola e l’operaio ridotto a precario e il precario diventato da poco disoccupato. A questi dimenticati e sconfitti della globalizzazione, i governi, i partiti, i sindacati, i giornali e le televisioni in tutti questi anni hanno raccontato che il mondo non si può cambiare ed è inutile farsi illusioni. Mercato, finanza, Unione europea e Bce e Fmi funzionano secondo leggi di natura immutabili. There is no alternative, come diceva la signora Thatcher. E siccome loro, gli sconfitti, non riescono ad adattarsi e non possono sperare di cambiare nulla, rimane una strada sola: distruggere tutto. Con l’unico strumento di dignità del quale ancora dispongono, il voto. Brexit e Trump hanno vinto non perché evocassero chissà quali passioni o speranze, ma perché i loro avversari incarnavano uno status quo ormai talmente intollerabile da spingere milioni di persone a tifare per il caos. (…).Non è forse l’Europa stessa il fantasma che si aggira per l’Europa? La risposta dei vincenti finora è stata di colpevolizzare gli sconfitti. Ora non funziona più. È questo il punto: della inadeguatezza oramai conclamata di quella che un tempo veniva definita la “classe dirigente” della sinistra. Una “classe dirigente” che ha avuto la sprovvedutezza ed il torto supremo di far credere alle moltitudini della ineluttabilità del trionfo del liberismo più selvaggio. A quale prezzo? Quel prezzo lo ha ben delineato, per quanto riguarda il nostro mondo privilegiato di Occidentali, Curzio Maltese nelle annotazioni Sue sopra riportate. Di ben altro spirito è stata la risposta fornita al lettore S.P. di quel settimanale da parte di Michele Serra nel numero ultimo del 12 di maggio.Scrive l’opinionista che il capitale è scappato, la ricchezza finanziaria è pari sette volte il Pil mondiale, i “padroni” con la marsina e le tute blu sono categorie sociali che, in Occidente, hanno un peso socio-politico oramai abbastanza relativo. Il problema è come recuperare il bottino andando a cercarlo a Wall Street e nella City.
A questo punto sorge il sospetto che il nostro concordi pienamente con l’analisi di Curzio Maltese ed il discorso potrebbe considerarsi al momento chiuso. Ma non è così. Quel sapientone pone al lettore S. P. “una domanda: secondo lei, se nessuno è stato capace di farlo fin qui, è perché sono tutti corrotti e imbecilli, o perché il mondo è cambiato così velocemente che ancora non esistono nuovi parametri critici, e politici, per organizzare una alternativa, magari un po’ meno schifosa di quel macchinismo liberticida e inefficiente che è stata l’economia pianificata, quella sovietica? Guardi, (P.): se lei ha capito come si fa, a rilanciare la lotta di classe e a recuperare qualche quattrino dalla City e da Wall Street, ce lo spieghi e gliene saremo tutti molto grati”. Uno sberleffo. Bene. Ma mentre il mondo cambiava così velocemente la “classe dirigente” a cosa pensava, di cosa parlava? Se ne è sentita l’eco? Non pare. Si son sentite in verità ben altre cose, ovvero della ineluttabilità di quel trionfo della finanziarizzazione che ha concorso e concorre tutt’oggi al trionfo completo ed inarrestabile del liberismo più selvaggio. È quella stessa “classe dirigente” incapace di delineare un percorso di contenimento e di reindirizzo nello sviluppo capitalistico del mondo globalizzato. Ed in quello sberleffo o rabbuffo che dir si voglia del Serra verso il lettore S.P. c’è tutta la tracotanza di quell’intellettualismo di sedicente sinistra che ha tenuto il sacco, in questo quasi decennio di “crisi”, a quella inadeguata “classe dirigente”. Non “esistono nuovi parametri critici, e politici, per organizzare una alternativa magari un po’ meno schifosa di quel macchinismo liberticida e inefficiente che è stata l’economia pianificata, quella sovietica?”. E quando mai quella inadeguata “classe dirigente” ha fatto cenno alla necessità di inventare, ritrovare, creare quei “nuovi parametri critici, e politici”? Ne ha contezza Serra Michele? Il problema semmai è stato quello, da parte della inadeguata “classe dirigente” della sinistra, di spianare la strada in termini di arretramento dei diritti di chi lavora affinché quel destino ineluttabile che il liberismo è andato pensando per il mondo intero potesse trovare una sempre più facilitata realizzazione. E quello sberleffo o rabbuffo tocca vette supreme laddove torna a far balenare l’ipotesi, storicamente oramai morta e sepolta, di un ritorno di “quel macchinismo liberticida e inefficiente che è stata l’economia pianificata, quella sovietica”. Roba da Minculpop, recuperato nonostante tutto. Sarebbe bene che il Serra Michele non si lasciasse sfuggire la lettura di ben altre analisi che il suo stesso gruppo editoriale offre alla pubblica attenzione. Ha scritto infatti Giuseppe Travaglini – professore ordinario di Politica Economica presso l’Università “Carlo Bo” di Urbino – il 24 di aprile sul settimanale “Affari&Finanza” nella Sua analisi che ha per titolo “Perché declina il ceto medio”: (…). La cetomedizzazione della società, cioè la tendenza all’allargamento della sua fascia di mezzo, si è interrotta ormai da un quindicennio. E l’onda della stagnazione prima, e della recessione poi, respinge i parvenu approdati alla spiaggia del ceto medio nel riflusso di una nuova proletarizzazione. E la sensazione di precarietà si materializza non solo nel ripiegamento di salari e stipendi individuali. Ma anche nel confronto tra i nostri redditi con quelli dei nostri “vicini”. E qui, i dati ci vengono in aiuto. (…). Un’immagine che ben fotografa la storia economica italiana degli ultimi sessant’anni. Una lunga ascesa. Una frenata. E poi una discesa che non sembra avere fine. (…). …a bordo del nostro razzo immaginario, osserviamo il processo di avvicinamento del nostro reddito medio verso quello statunitense. Era poco più del 54% del nostro “gemello” americano all’inizio degli anni 60. Raggiunge, seppure tra gli alti e bassi dei cicli economici, il 79% al termine degli 80, recuperando nel corso di un trentennio circa 25 punti del ritardo iniziale. La distanza si riduce. Ma la velocità rallenta e la traiettoria ruota in prossimità del bivio del decennio 90. Avevamo corso velocemente tra il 60 e il 70. Rallentiamo negli anni 80. E poi repentina l’inversione di rotta, con l’avvicinarsi di fine secolo e l’inizio del nuovo millennio. Passiamo dal “boom economico” - con tassi di crescita “cinesi” del 7%, con l’apertura dell’economia agli scambi internazionali, con lo sviluppo della grande industria, con lo slancio delle infrastrutture, con il welfare crescente, con il tasso di cambio fisso e l’adesione al progetto europeo - , agli anni 70 - con il passaggio al cambio fluttuante (dopo la crisi del dollaro nel 1971) e alle svalutazioni della lira che compensano i deficit di competitività, al “protezionismo interno” basato su agevolazioni fiscali e creditizie alle imprese, e inflazione che abbatte il valore del debito - , e infine agli anni 80 - dove il “piccolo è bello”, dove la svalutazione del cambio favorisce i settori produttivi minori a bassa intensità di capitale e tecnologia, dove il credito facile contribuisce a indebolire banche e imprese, e dove la competizione internazionale del sistema Italia si gioca sempre più sui costi, meno sull’innovazione. E dove esplode il debito pubblico, che dal 58% del Pil nel 1980 sale in poco più di un decennio al 121% del 1992, anno in cui, con l’uscita dallo SME e la svalutazione della lira del 30%, esplodono le tensioni accumulate nei mercati internazionali. Insomma, una trasformazione epocale del quadro economico italiano. Una trasformazione solo in parte governata e talvolta in modo incoerente. Che richiedeva già al termine degli anni 70 - anni di terrorismo e mafia una manutenzione straordinaria. Ma che viene sostanzialmente rinviata e nascosta sotto il velo del debito pubblico. Che ritarda le risposte della politica. Ma le cui conseguenze negative si concretizzano nel calando degli ultimi tre decenni. E nella Grande Recessione italiana del 2007-2014, alimentata anche dalle incoerenze europee sulla finanza pubblica e l’euro. Con tassi di crescita del Pil e della produttività dello zero virgola, se non negativi, lontani dal ritmo non solo statunitense, ma anche europeo, come mostra la linea tratteggiata nel grafico che confronta l’andamento del reddito medio europeo a 15 paesi con quello americano. Indiscutibili segni di una deriva tutta italiana. La dimensione e la qualità del deterioramento è notevole. La distanza dal reddito medio americano torna a crescere, e nel 2015 lo scarto è analogo a quello del 1970. Un arretramento che rende palpabile la sensazione di disagio. Di impoverimento. Non solo individuale. Ma collettivo. Di un corpo sociale, non solo economico, che si interroga su quali misure siano necessarie per invertire la rotta del viaggio. Perché, dai fatti appena narrati emerge prepotente un inedito elemento di disorientamento. La supposta modernità del nuovo modello di sviluppo tutto orientato ai mercati non ha portato con sé ad oggi l’atteso allargamento del benessere, dei redditi, dei diritti e della partecipazione, quanto piuttosto un depauperamento del sistema economico e sociale. Depauperamento che consuma ricchezza invece di crearla. Che allarga le disuguaglianze. E che rischia di innescare fughe all’indietro. Verso nuovi protezionismi e nazionalismi. Lontano dall’Europa. Con un’eredità in negativo che grava sulle spalle delle giovani generazioni. (…).

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