"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 22 aprile 2017

Paginatre. 81 “Lettera aperta ai padri tromboni”.



Paolo di Paolo, giovane scrittore (1983), si è fatto conoscere su larga scala per il Suo volume “Dove eravate tutti” – Feltrinelli editore (2013) - con il quale ha chiamato alla resa dei conti i tanti, tantissimi “padri tromboni” che nell’era dell’egoarca di Arcore hanno fatto finta di non vedere, di non sentire e di conseguenza non han parlato e così tacendo si sono resi corresponsabili dello scempio compiuto da quell’uomo della vita politica e pubblica e della salute morale del bel paese. Da “Padri tromboni maestri d’ipocrisia” di Paolo di Paolo, pubblicato sul settimanale l’Espresso del 16 di aprile 2017: Cari Papà Tromboni, tutto bene? Vi trovate in quella strana fase della vita - fra i cinquanta e i sessanta, o poco più - che pare dia un po’ alla testa. A distanza di sicurezza della terza età, se non cadete nella classica regressione (Peter Pan-insegue-Lolita), il potere è la vostra droga. Piccolo o grande che sia, vi tiene comunque su di giri: dal lunedì al venerdì siete nella bolla dei workaholic, non fate che bearvi della vostra agenda stracarica. Sabato e domenica siete come palloni sgonfi. Per il resto, nient’altro che cravatte, smartphone, pance che crescono: non è un bello spettacolo! Ma non è per questo che vi giunge la nostra lettera. Non siamo preoccupati per il vostro stress, e nemmeno per il fatto che il cosiddetto senso della realtà vi sta abbandonando. A preoccuparci è la vostra inarginabile inclinazione alla retorica. Chi fra voi è sulla scena politica non può farne a meno: è così da sempre, fa parte del gioco e del mestiere. Il “conservatore” moralista François Fillon, classe 1954, in corsa per l’Eliseo, preferendo - così diceva - “le parole che salvano a quelle che seducono”, assegnava intanto falsi impieghi ai parenti per oltre un milione di euro. Il cinquantaduenne premier russo Dmitrij Medvedev, uso a richiamare “con pieno senso di responsabilità il nostro bene e il bene generale della società”, è ambiguo titolare di conti offshore, piste da sci private, ville con piscina ed eliporti, aziende vinicole in Toscana. Niente di nuovo, per carità. Nessuno è nato ieri. Ma il punto è che questi babbi non si limitano a razzolare male, si impegnano con eccessivo (e sospetto) slancio a predicare benissimo. Anche dalle nostre parti, la sera a tavola - così come nei corsivi di prima pagina - fanno un uso smodato di retorica, oltre il livello di guardia. Come il sale per gli ipertesi, non è buona norma. Guardate cosa è successo all’ex direttore del “Sole 24 Ore”: tutte le domeniche pronto a infliggerci la sua omelia laica, è finito indagato per falso in bilancio. Fosse pure innocente su un piano giuridico, non lo sarebbe comunque al tribunale delle false coscienze. Dante gli farebbe indossare - come minimo! - il mantello degli ipocriti: dorato fuori, di piombo dentro. In uno dei suoi ultimi editoriali, Roberto Napoletano puntava il dito, nell’ordine, contro «furbetti del cartellino», «corruttele varie e sistemiche», «distribuzione di seggiole e poltrone», «vecchie e nuove clientele». Cito alla lettera: «Tornano le ombre dei soliti maestri dell’eterno galleggiamento italiano in un Paese sospeso che fugge dalle sue responsabilità. Promana da tutto ciò una sensazione mista di nausea e di disorientamento» (“Il Sole 24 Ore”, 26 febbraio 2017, a undici giorni dall’avviso di garanzia). Impressionante: come il protagonista di un racconto di Savinio che sentiva odore di morte dappertutto, senza capire che a emanarlo era lui. La chiusa dell’articolo? Canonica: sull’Italia che «brucia il futuro dei nostri giovani». Non che il faraonico stipendio di Napoletano - 93mila euro lordi mensili, pare - contribuisse a spegnere le fiamme, ma l’ipocrisia è perfino più colpevole. L’aspetto psicologico della questione è avventuroso: che cosa spinge stimati e solitamente spietati professionisti (del giornalismo, della politica, della finanza, dell’industria) ad ammannirci quintali di retorica moraleggiante? Qual è il vantaggio interiore del trombonismo, per chi lo pratica?
Storia vecchia: di “doppia morale” si parlava già sui giornali di sessant’anni fa. Erano i giorni del torbido caso Montesi (1953), e un politico che si era scagliato contro la turpitudine altrui venne subito fotografato all’uscita di un bordello (con l’auto blu!). Non basta: Franco Moretti, nel recente Il borghese (Einaudi), torna parecchio più indietro; esplora, attraverso Ibsen, una «zona grigia» fatta di slealtà, reticenza, mezze verità, costitutiva di una classe sociale e del suo modo di stare al mondo. La menzogna – scrive – diventa “vita”: una contraddizione tra due moralità «impossibile da conciliare», il trionfo dell’ambiguità, l’onestà di facciata, a parole. Bisogna rassegnarsi? Al peggio della natura umana forse sì; ai falsi maestri, no. Esiste un antidoto? È possibile una moratoria della retorica a buon mercato? Più ancora che proseguire in una (ormai indiscriminata) lotta alle oligarchie (vedi in proposito l’illuminante saggio di Giulio Azzolini Dopo le classi dirigenti, Laterza), occorre intanto inchiodarle a una responsabilità verbale. O, almeno, ridimensionare le loro tribune. Dà il voltastomaco sentir parlare, con falsa partecipazione, di “futuro rubato” ai giovani, proprio da chi ha collaborato al furto. Non è più accettabile vedere una selva di indici puntati nel vuoto, contro responsabili sempre troppo generici. I colpevoli sono sempre gli altri. Ma di preciso che faccia hanno? Ai Tartufi di turno, gli ipocriti in servizio permanente, farebbe gioco la rilettura di certa disinvolta trattatistica tra Cinque e Settecento: se il “sommo bene” è un ideale, tanto vale sembrare onesti senza esserlo davvero. “Dissimulazione” è la parola chiave - e più che il solito Machiavelli, meglio scomodare il rassegnato Mandeville: “Solo i pazzi si affaticano per creare un grande e onesto alveare” (1705). I “sani”, allora, restano a guardare, ma non tacciono: tengono viva l’onestade a parole. In una palude di parole facili e comode, alligna un’etica falsa e tanto più irresponsabile, che inquina, confonde, e in sostanza mette al sicuro. A mo’ di antibiotico, o meglio, di avviso di garanzia preventivo, sarebbe utile recapitare a parecchi notabili odierni non un saggio rinascimentale, ma un recente - e ovviamente troppo poco letto - romanzo. L’ha scritto Aldo Busi, si intitola Vacche amiche (Marsilio). Busi si fa beffe, o peggio, di “gente chiaramente puzzona a libro-paga di questo e di quello”, di gente che predica anche bene - appunto - “ma razzola che peggio non si può”. Si può considerare l’ipocrisia già una forma di corruzione? Sì. “Non capirò mai - scrive Busi - perché una merda vuole spacciarsi per pan di zucchero: sei una merda, e allora? L’unico modo per esserlo di meno è andarne fiero, no? Certo, a una vera merda interessa esserlo di più, non di meno, negherà anche con le spalle alla ceramica di un water e è senza speranza di riscatto fino a che non gli danno quindici anni di galera o il manicomio criminale a vita, cosa praticamente impossibile, perché le merde si proteggono e sostengono tra di loro, essendo della stessa pasta fanno comunella anche a distanza di chilometri l’una dall’altra, una sul marciapiede è sorella di una in un Ministero o al Riesame o in Cassazione, sono a piede libero per definizione: le pesti per sbadataggine, le diffondi e le espandi, fai il loro gioco per il solo fatto di camminare e, contrariamente al detto, porti tu fortuna a loro, e è scontato infine chi schiaccia chi”. Nell’attesa di esserne sicuri, cari Papà Tromboni, ci basterebbe un piccolo gesto generoso e tuttavia gratuito (altro è difficile chiedervi): il vostro silenzio. Firmato: i vostri figli delusi.

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